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© la Repubblica, 29.09.2022

Dizionario della moda: la calzamaglia

Con il racconto “Un uomo in calzamaglia”, Flavio Stroppini riflette su come un indumento ti possa mettere a nudo per il nostro “Dizionario letterario della moda”, la serie che “dà voce al guardaroba” con 30 testi inediti di scrittori italiani e stranieri che abbiamo letto e interpretato per voi. Anche sull’app One Podcast…


la Repubblica: testo e podcast de Un uomo in calzamaglia di Flavio Stroppini.


Un uomo in calzamaglia di Flavio Stroppini

Mi piacerebbe iniziare con “C’era una volta”. Ma non lo so se sia una buona idea, con questa storia. In verità è strano raccontare di come un indumento ti possa mettere a nudo. Il sognare di essere nudi è legato all’innocenza primordiale, l’essere tutt’uno con la natura. Posso garantirvi che non è così. E che si può essere nudi anche con qualcosa addosso.
Partiamo dall’inizio. Siamo a 3100 metri sopra al livello del mare. Si sale un passo dopo l’altro. Sono zone lontane dai circuiti turistici d’alta montagna. Qua si suda invocando più di un Santo e spesso in malo modo. E quando sei in altezza la vista è sbarrata da montagne più alte. A chi gliene potrebbe importare di questi luoghi, non c’è niente da guadagnarci a stare quassù. Non è il posto più bello del mondo e non puoi nemmeno scattarti un selfie decente. Però, nonostante tutto, qua c’è un tesoro.
È questa la cosa strana. Che sali in cima a una montagna e una volta lì scavi. E sottoterra ci sono pietre preziose. Se piove o se fa brutto tempo è meglio, sei sicuro che non ti segue nessuno. Intendo qualcuno di quella combriccola di “cercatori di minerali delle Alpi”, che si annusano a centinaia di chilometri di distanza. Che ti controllano all’uscita di casa, in pianura, per capire se tu, lassù, hai trovato una miniera. Perché la combriccola dei cercatori di pietre lo sa che le montagne nascondono l’oro. Io non sono un cercatore – “Strahler” si dice dalle nostre parti – ma ne accompagno uno da anni. E sudo, arranco, bestemmio e sputo pezzi di città per stargli appresso. È mio un terzo di quello che si trova, e son bei soldi, ma non è per arricchirmi che salgo quassù. Con il passare degli anni ho capito che salgo per provare a dimenticarmi di scendere. Qua riconosco la vertigine, capisco dove devo fermarmi. Mi abituo alla montagna e raziono l’egocentrismo. Perché in pianura non ci sono occhi né cuore su quel che succede attorno. Dev’essere l’aria rarefatta, ma quassù ci si sente bene. Piccoli, quel che si è. Non ci si da troppe arie, l’aria la si risparmia.

Questa sera scrivo da una baita, arroccata su uno strapiombo. Non c’è corrente elettrica né acqua corrente. Giusto un tetto e una tavola di legno dove mangiare e poi coricarsi. Un rettangolo in pietra dimenticato, costruito da contrabbandieri. Un rifugio per riprendere fiato quando si trasportava qualcosa tra Svizzera e Italia. Il cercatore che accompagno mi ha lasciato solo. Se ne è andato urlando. Abbiamo litigato per la spartizione dei pezzi trovati. Così sono solo, domani scendo a valle, poi in città. Mi viene anche da ridere per la sceneggiata del pomeriggio. Poco sotto alla vetta di una montagna, con il cielo elettrico che chiamava un temporale, siamo arrivati alle mani. Due piccoli uomini che si accapigliano per una pietra scintillante. Due idioti. Ora dormo, con addosso tutti i vestiti, anche la mia calzamaglia portafortuna. Domani scendo.

Sono passati due giorni da quando ho scritto le ultime parole di questo diario. Sono tornato in città, ma non proprio come me lo aspettavo. Forse è stata la penitenza per quel litigio tra avidi. Il mattino ero partito di buona lena per attraversare le sassaie prima che si riempissero di sole. Poi avevo camminato in un caldo che ingannava le marmotte in letargo. Nel primo pomeriggio raggiunsi un laghetto a forma di stella. Erano cinque giorni che non mi lavavo. Farmi un bagno era una buona idea. Così mi sono spogliato e mi sono immerso. Ne ho approfittato per lavare gli indumenti. Il lago ha un’avanguardia di alberi che lo proteggono. Sui rami ho steso i vestiti ad asciugare. Addosso ho tenuto solo la calzamaglia. Non l’abbandono mai in alta montagna. Mi porta fortuna. Con lei addosso abbiamo trovato giacimenti. Ho chiuso gli occhi per una mezz’ora. Ho pensato allo scintillio di quelle pietre estratte dalla terra in cima alle montagne. Ho riaperto gli occhi e soffiava vento da Nord. I miei vestiti, anche i calzini e le mutande si muovevano tra gli alberi. O meglio, era come se i rami degli alberi si stessero muovendo. Mi spaventai, come fanno tutti quando non capiscono. Entrai nel lago, come se potesse proteggermi da quei rami che la natura aveva trasformato in arti. Passò qualche minuto, che mi sembrò un’eternità. Poi il mistero si svelò. Un gran bramito annunciò una gran bella bestia di cervo che fece capolino in riva al lago. E sui suoi palchi i miei vestiti. Era come se sulla testa avesse uno stenditoio con tutto quello che possedevo, compreso il mio zaino e gli scarponi che avevo legato alla cerniera per non perderli. Mi guardò quasi ridendo. E io lo insultai. E lui si mise a bramire con forza. Per non farmi scoppiare le orecchie mi immersi nel lago. Poi mi decisi a fare qualcosa. Uscii dal lago e cercai di inseguirlo. Lui, la bestia, teneva sempre la stessa distanza. Se mi fermavo si fermava. Se correvo correva, se rallentavo rallentava. Mi derideva con quel gioco lì. E io dietro con addosso solo la mia calzamaglia e a piedi nudi. A tirar bestemmie e preghiere senza risultato. Quella bestia doveva essere un equilibrista in qualche vita precedente, perché non perse nemmeno un indumento. Nemmeno un calzino. Andammo avanti così per ore e quando le ombre iniziarono ad allungarsi capii che non potevo fare altro che tornare rapidamente a valle per non perdere l’ultima corriera che porta in città.

E così sono sceso. Con addosso solo la calzamaglia portafortuna in stile Far West, di quelle che quando ci pensi sembra di essere un cercatore d’oro. Beige, stinta, a coste, con l’elastico molle, che se non è trattenuta da un paio di jeans devi tenerla su con le mani. Ma calda. Correvo per il sentiero più ripido come se volassi. La calzamaglia non temeva di mostrare grosse porzioni di chiappe agli alberi. Scendevo e, nonostante i dolori ai tibiali, correvo per la paura di perdere l’ultima corriera. Iniziai a ridere, forte. Capii che quel restarmene così, un piccolo uomo in calzamaglia, non poteva che essere una vendetta della natura, che ci aveva visti litigare come degli imbecilli per arricchirsi un poco di più. Scendevo, quasi precipitavo, e ridevo. Incrociai dei bambini che innalzavano una diga di pietra e ramoscelli nell’ultima pozza prima del fiume. Li sentii ridere la loro risata onesta. Infine arrivai a prendere la corriera per il rotto della cuffia (ironicamente, potrei scrivere per il rotto della calzamaglia). Fortunatamente era vuota. L’autista, abituato al mondo di chi viaggia, mi guardò accennando un sorriso divertito.

Arrivato in città mi mossi furtivo rasentando muri, attraversai aiuole, scelsi percorsi complicati cercando di farmi invisibile. Qualcuno mi vide e mi indicò. Sentii qualche grossolana risata arrivare dal bar all’inizio della via dove abito. A casa trovai un messaggio sulla segreteria telefonica. Era il cercatore. “Non sai cosa mi è capitato, chiamami!” diceva. Mi guardai allo specchio, sporco, con i piedi un po’ sanguinanti, avevo l’aria di un folle. Addosso la mia calzamaglia, come un’armatura, ma anche un sudario. Ringraziai il cielo per avermela lasciata. Sembravo uno scampato alla fine del mondo e invece ero appena sceso dal paradiso.


L’autore

Flavio Stroppini è nato a Gnosca (Ticino) nel 1979. Ha conseguito il master in Tecniche della narrazione alla Scuola Holden di Torino, dove oggi è tutor. Lavora anche come autore di teatro e poesia, si occupa di scrittura e regia radiofonica e i suoi progetti sono spesso transmediali e si declinano tra viaggio, giornalismo e letteratura. “Sotto il cielo del mondo”, Gabriele Capelli Editore, è il suo ultimo libro, storia di Alvaro Giacometti che viveva una vita tranquilla, sicuro nella quotidianità del piccolo paese di montagna nel quale era cresciuto, finché gli giunse notizia della morte del padre che non vedeva da decenni. E scoprì che l’uomo che lo aveva abbandonato per diventare un marinaio era tornato a vivere non molto distante. Perché? Trovò un indizio e raggiunse Gdansk, là ne trovò un altro e continuò in un avventuroso girovagare per i porti del mondo.


Qui il testo e podcast de Un uomo in calzamaglia di Flavio Stroppini.

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