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di Dada Montarolo
La vita è un insieme di avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto.
Italo Calvino
Un giovedì Alex seppe che doveva morire entro sei mesi.
Naturalmente non era preparato a una notizia del genere, anche se gli esami che gli avevano prescritto e la cautela fumosa dei medici, al limite della maleducazione, quando faceva domande mentre indagavano dentro di lui lo avevano già messo in allarme.
Alex chiedeva con la voce tranquilla di chi si sta occupando di un problema che non lo riguarda da vicino, una questione astratta dai risvolti irrilevanti. Nel suo mestiere di architetto faceva sempre così. Parlava come se stesse cercando di capire dal borbottio del capo di una squadra di muratori perché una parete appena costruita aveva gli spigoli incerti, cazzuolati alla meno peggio. Dentro la furia gli premeva contro le pareti dello stomaco gonfiandosi in bolle di acidità corrosiva. Ma da molto tempo Alex aveva imparato a controllarsi: mai fare domande impazienti, le risposte non potevano che essere confuse, talvolta inconsapevolmente corrotte.
Ormai non era più tempo di manfrine. La smania di sapere si era dileguata, lasciando spazio a una calma stranita, attenta solo a percepire la dimensione esatta delle risposte che gli stavano arrivando.
Cos’è.
Se lo era domandato fin dall’inizio, quando aveva cominciato a non stare bene. La tosse persistente e secca, lo spasmo nervoso che saliva dai bronchi fino a riempire la gola togliendogli l’aria. La voce si faceva rugginosa all’improvviso, un’emanazione incoerente che lui non riusciva a riconoscere come sua. La debolezza, anche: un mantello di piombo gli avvolgeva le spalle schiacciandolo verso terra e un casco di ovatta bagnata gli stringeva le tempie, rallentava i gesti, offuscava i riflessi imprigionandolo in una stretta gabbia di sbarre invisibili.
Adesso lo sapeva. Una presenza estranea destinata a impossessarsi dei suoi organi, affamata delle sue molecole, determinata a distruggerlo nutrendosi di lui. Un’eucaristia blasfema e troppo anticipata. Il tradimento inaspettato del suo corpo che l’aveva accettata senza combattere, nascondendo vigliaccamente le tracce dell’invasione fino a quando aveva potuto.
Com’è.
Non riusciva a visualizzarlo. Pensava a un meteorite oscuro e bugnato, sfera dura e avvelenata che vorticava impazzita nei suoi visceri frantumandoli in miliardi di pezzi e provocandogli esplosioni improvvise di dolore. O forse era un essere tentacolare e viscido che si aggrappava inesorabile a tutto ciò che trovava succhiando, masticando, divorando: un gigantesco lurido lumacone strisciava ovunque sfidando ogni legge di fisica applicata, assottigliandosi e gonfiandosi senza tregua per insinuarsi nelle caverne più nascoste del suo organismo.
Oppure non esisteva. Semplicemente non aveva nessuna consistenza, era una forma ectoplasmatica che aveva scelto di incistarsi nel suo corpo per possederlo come un demone. Invisibile e astuto avrebbe incenerito tutto. E lui, in un momento e in un luogo qualsiasi, si sarebbe afflosciato a terra senza un gemito, completamente svuotato. Già rinsecchito e fragile come la frattaglia di pollo riempita di fiato che gli davano da bambino per giocare quando in cucina ne ammazzavano uno e non lo volevano fra i piedi mentre spennavano e pulivano. Non aveva mai capito bene cos’era quella vescica giallastra, piccola e irregolare che lui buttava per aria sperando restasse sospesa e invece precipitava subito a terra. Una caduta sgraziata. Un residuo organico trasparente e deforme. Come lui.
Quel giovedì gli presentarono il suo mostro.
Furono gentili ma categorici: non c’era niente da fare. Inutile illudersi. Soprattutto furono credibili perché si era rivolto al più grande centro medico specialistico.
Per trovarlo si era documentato con discrezione, quasi stesse cercando il posto per una vacanza trasgressiva. Aveva spillato le referenze dei medici con domande all’apparenza casuali a chiunque gli sembrava affidabile: clienti, conoscenti, colleghi.
Qualcuno, premuroso, si era informato se aveva qualche guaio e se poteva essere di aiuto piantandogli in faccia lo sguardo improvvisamente attento e comprensivo. Lo stesso che si può dedicare al cane che trascina una zampa ferita, all’anziano esitante sul bordo del marciapiede, al bambino che ruzzola e comincia a piangere.
Alex si era divincolato in fretta dall’offerta alzando le spalle e negando; solo curiosità, diceva, e cambiava discorso. Lo irritava l’idea di condividere ciò che non conosceva ancora, preferiva crogiolarsi in un’attesa solitaria che aveva qualcosa di morboso, perfino eccitante nella sua terribile incertezza.
Aveva fatto tutto da solo. Se non era niente, nessuno avrebbe sofferto. Se era qualcosa, ci sarebbe stato sempre tempo per raccontarlo.
Alex guardò le carte che parlavano della sua morte imminente e certa sparpagliate sulla scrivania dell’oncologo.
Erano tante: tomografie in bianco e nero così fragili nei tratti da sembrare dagherrotipi, lastre traslucide dai riflessi di resina sintetica, rotoli sottili di analisi accartocciati come petali di fiori stremati dalla mancanza d’acqua.
Così diverse una dall’altra eppure così consequenziali da sembrare le tessere di un nuovo puzzle studiato apposta per intrattenere gli amici nel dopocena. Un gioco di società con il morto, si disse con un guizzo disperato di sarcasmo.
Le osservò senza toccarle. Era inutile cercarci dentro l’errore che poteva salvarlo. Troppe mani nere con l’indice puntato verso un’unica direzione, impossibile sbagliare.
Colorate sarebbero più carine. Chissà perché non ci hanno ancora pensato, nei centri commerciali e negli alberghi starebbero meglio. Così nere sono troppo perentorie. Ordinano anziché suggerire, non va bene. Anche in un bar… nel prossimo lavoro della multisala le inserisco.
Capì che la mente si stava difendendo.
Però colorate si vedrebbero meno. Meglio nere. A prova di daltonico. E di moribondo.
Lasciò le carte dov’erano. Non volle portarle a casa. Preferiva così, ripeté ostinato al medico.
L’oncologo si strinse nelle spalle. D’accordo, la decisione spettava al paziente, il suo non era il primo caso. Le avrebbe lasciate nella cartella con i fogli per la terapia.
Non era il primo caso…
C’era un fruscio alle sue spalle, passi leggeri si avvicinavano alla spalliera della sedia sulla quale si era quasi rattrappito. E respiri, anche. E poi parole bisbigliate con ansia trattenuta a malapena, quasi temessero di disturbare i suoi pensieri e già pronte a dissolversi come le vite cui erano appartenute.
Si voltò di scatto. Non c’era nessuno.
L’oncologo lo stava guardando.
«Si sente bene?»
Quella parola, bene, non lo riguardava più. Era scivolata fuori per sempre dalla sua vita da neanche mezz’ora e già ne aveva dimenticato il senso.
Annuì. L’oncologo doveva essere una brava persona, aveva l’espressione preoccupata. Nel contesto era una gaffe perfino divertente.
Alex stirò i muscoli facciali in un accenno di sorriso.
Doveva accettare la terapia, spiegava poi il medico. Era essenziale per affrontare i primi tempi, per rallentare, per gestire meglio…
Alex non ascoltava più.
Non gli importava niente della terapia. Non avrebbe fatto nulla per allungare il corridoio che era obbligato a percorrere. Era impossibile, strutturalmente inaccettabile, una forzatura predisposta solo per ritardare l’implosione e archiviare più dati nei file di qualcuno che forse avrebbe fatto carriera raccontando ai congressi come era riuscito a gestire l’evolversi del caso. Non dell’agonia, della distruzione di un essere umano. Ma del caso X, Y, Z. Asettico e funzionale come deve essere un resoconto accademico.
Magari usano anche i numeri, si disse. Quando i casi sono tanti.
Del resto è giusto: nasci e ti danno un numero, muori e te ne danno un altro. I due codici identificativi più importanti da quando arrivi in questo mondo a quando te ne vai te li affibbia uno sconosciuto senza neanche chiederti se hai preferenze. Peccato non ricordarsi il primo e non scoprire in tempo l’ultimo, potrebbero essere quelli giusti per il Lotto.
Ancora un tentativo di fuga della mente.
Si raddrizzò sulla sedia.
Adesso guardava di nuovo le carte. Aveva voglia di distruggerle. Erano uno specchio beffardo, riflettevano ciò che stava per diventare, proponevano il profilo di un terrorista rimasto inattivo per anni ma coscienziosamente pronto a entrare in azione quando l’ordine arrivava. Un dormiente disciplinato che aveva custodito il proclama stampato su un foglio dove in alto al centro c’era la stella a cinque punte e sotto la sentenza da eseguire al tempo prestabilito.
La rabbia stava prendendo il sopravvento sul resto.
Perché proprio io? Perché non quell’idiota che sta passando in macchina qui sotto con la musica a tutto volume? Perché non la donna che ride al di là della parete fregandosene del posto in cui siamo? Perché non tu, oncologo del cazzo con la faccia seria? Perché?
Gli rispose un ronzio di api infuriate nella testa. Era intenso, si portò le mani alle tempie premendo forte.
Il medico lo guardava senza parlare. Poi mosse appena il capo per una sbirciatina discreta al quadrante dell’orologio.
Sentì l’impulso di mettergli le mani addosso, di tirare un pugno su quella bella faccia comprensiva e appena sfiorata dall’impazienza.
Ci sono io adesso qui! Gli altri possono aspettare. Non ti distrarre, perdio!
Alex sentì la propria voce annunciare piatta che ci avrebbe pensato sopra, per adesso non era in grado di decidere.
Il medico annuì, si alzò e lo accompagnò alla porta, scusandosi. Aveva altri pazienti che lo aspettavano, spiegò, e gli raccomandò di farsi vivo appena possibile. Intanto però doveva firmare certe carte, se era così gentile da aspettare l’infermiera…
Si dileguò nel corridoio. Il camice aperto e svolazzante entrava e usciva in fretta dalle scacchiere di ombra e di luce delle finestre. Sembrava un gabbiano vorace attirato da altri pesci boccheggianti.
Alex cercò di andarsene il più in fretta possibile. Lo studio del medico, il reparto, gli odori, le voci, l’ospedale erano diventati insopportabili. Si sentiva soffocare, ferito da ogni rumore, dissanguato da ogni sguardo.
Firmò senza neanche leggere i documenti che qualcuno gli passava, impaziente di liberarsi di tutto, di uscire. Come se fuori quello che era successo lì dentro non fosse avvenuto.
Più tardi capì perché non aveva voluto portarsi via le carte: la sua casa era sana, non doveva essere contagiata da quell’orrore brulicante e invasivo. Era l’unica parte di lui non contaminata. L’unico posto dove poteva credere che la vita continuasse.
Non aveva paura. Non ancora, almeno.
La sua mente si era autonarcotizzata in fretta, come un chirurgo esperto e abile aveva cauterizzato i canali dei centri nervosi per isolare la coscienza.
Disteso al buio nel suo grande letto, Alex pensò alla vita che aveva vissuto fino a quel momento.
Con gli occhi della memoria sfogliò l’album delle immagini rimaste incollate fra gli spazi bianchi della sua esistenza. Scoprì che non erano poi così tante come aveva creduto, avevano più o meno la consistenza di un fumetto tascabile dalle figure grandi. Una sì e una no erano a colori.
Allora decise cosa avrebbe fatto del tempo che gli restava.
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Ciao, Emi. Sono un po’ imbarazzato a scriverti dopo tanti mesi di silenzio. Forse sei ancora arrabbiata con me ma io ci provo lo stesso. Ti prego, dammi una possibilità di chiarire quello che è successo. Non ti chiedo di vederci, mi basta poterti scrivere come adesso, via mail. Ti prego.
Alex
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Ehilà, Giò. Come stai? È un sacco di tempo che non ci sentiamo, qualche mese, credo. Chiamami, se ne hai voglia. A me farebbe piacere.
Alex
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Ciao, papà.
Alex
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Emi, sono ancora io. Ti ho scritto cinque giorni fa ma non ho ricevuto risposta. Forse non ci sei, il tuo capo ti avrà mandata in giro a sistemare qualche problema. Però, se ricordo bene, ti portavi sempre dietro il portatile, dicevi di dover restare “connessa”. Lo dicevi compunta, come una scolaretta innamorata del prof di lettere e decisa a fare il miglior compito della classe.
Scusami, non ti voglio irritare. Però sono sempre stato un po’ geloso di quel fighetto presuntuoso, lo sai, no? Rispondimi appena puoi. Per favore.
Alex
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Ciao, Giò, ti ho scritto una decina di giorni fa. Forse non hai ricevuto il mio messaggio dove dicevo solo che mi piacerebbe parlarti. Fatti vivo!
Alex
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Emi, non ci sei ancora? Mi sembra impossibile. Forse davvero non vuoi più avere a che fare con me.
Ho commesso un grosso sbaglio, è vero. Anzi, enorme. Per quel che vale ti chiedo scusa. Non me ne hai dato il tempo quando te ne sei andata sbattendo la porta d’ingresso della nostra casa.
Però adesso potresti ascoltarmi, anzi, dovresti. Ti sto cercando da più di dieci giorni ormai.
Che ne è della tua tanto decantata capacità di “comprendere gli altri”, di “capire le ragioni dei comportamenti”, di “sforzarsi di entrare nella pelle altrui”?
La posta non ritorna neanche indietro, non c’è nessun permanent fatal error per vomitarmi in faccia le parole che ti scrivo. Niente. Solo la desolazione del tuo silenzio.
Alex
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Va bene, Emi. Tu non mi rispondi e io continuerò a scriverti. Almeno questo non puoi impedirmelo. Puoi cancellare senza leggere, è vero. Ma spero tanto tu non lo faccia. Anche il più feroce assassino del mondo ha diritto a una difesa. Ascoltami.
Ogni tanto ripensi a come abbiamo iniziato?
È stato tre anni fa, in autunno. La data non me la ricordo e tu mi hai sempre accusato di questo. Voi donne siete terribili, sull’agenda segnate ogni cosa. Magari fate pure la copia cartacea, la memoria elettronica potrebbe riempirsi e allora addio scadenza delle promozioni al supermercato, anniversari, compleanni, onomastici, funerali, tagliandi, saldi. Ci finisce dentro tutto alla rinfusa in quelle minuscole righe come se la vita fosse una prima nota da tenere costantemente aggiornata anche per le cose più futili. È il vostro diario essenziale privo di commenti. Lì dentro non c’è posto per l’imprevisto, è un evento mai preso in considerazione.
Pensa a noi, Emi. Almeno per qualche minuto.
Tu sai esattamente quando e come abbiamo cominciato a stare insieme. Probabilmente ti ricordi anche com’eri vestita e cosa abbiamo mangiato quel giorno o quella sera.
Io no. Io ho nella memoria solo l’impronta rovente dell’esaltazione per averti tenuta fra le braccia e per averti baciata. In quel momento non pensavo ad altro. Non mi importava se poi avremmo fatto l’amore o se te ne saresti andata sculettando come fai quando sai di essere piaciuta a qualcuno. In quel momento eri mia e basta.
Ti ricordi, Emi? Ero riuscito a convincerti di non fare programmi fra noi. Sfuggivo alla tua contabilità sentimentale sforzandomi di non offenderti. Sgusciavo fra le trappole che mi tendevi con apparente innocenza («Perché non lasci qui uno spazzolino da denti? E magari una camicia, così non fai tardi al mattino») tentando di non ferirti ma dentro ero scocciato, addirittura furioso. Cercavo di liberarmi dalle tue ragnatele vischiose e impalpabili scostandole con delicatezza, consapevole delle fragilità che potevo frantumare senza rendermene conto.
Che male c’era se passavamo la notte insieme e poi non ci si vedeva per un paio di giorni? Perché non potevo più avere i miei spazi, una serata con gli amici, senza donne, a sparare cazzate, con la spavalderia esagerata di chi sa che deve approfittare con gusto di quel momento rubato alla routine controllata, senza dovertene poi fare un resoconto preciso, dettagliato, ancora una volta ragionieristico, quando ci rivedevamo? Perché? Perché mi raccontavi i pettegolezzi del tuo ufficio, le tresche, i sospetti di mobbing cercando di estorcermi giudizi che non mi competevano? I miei occhi si distaccavano dal tuo volto mentre parlavi, rifugiandosi su un oggetto, uno qualsiasi, cercando affannosamente un argomento per distoglierti da quelle insensate, inutili scorribande nelle vite altrui, non te ne sei mai accorta? Perché poi mi violentavi con i virtuosismi del “facciamo le cose insieme che è più bello”, come andare il sabato per negozi e mercatini e bancarelle a cercare cose inutili che ci sforzavamo di farci piacere, soltanto per essere sicuri di aver fatto la cosa giusta secondo il copione di moda fra le coppie come noi?
Non sono stati questi gli incantesimi che mi hanno fatto stare con te per tutto questo tempo. Se abbiamo poi deciso di vivere insieme (ma chi l’ha deciso, Emi? Tu? Io? Noi insieme?) è stato per altro. Non so dirti cosa, non adesso, almeno.
Alex
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Giò, vedo che hai deciso di non rispondermi.
Ho telefonato per sicurezza al tuo ufficio e mi hanno confermato che ci sei e non hai cambiato indirizzo di posta elettronica. Non ti chiamo direttamente perché ricordo bene il tuo “dimmi” sbrigativo e secco, l’ho sempre trovato irritante. Non sono un fornitore, sono – o dovrei dire ero? – un amico. L’unico, probabilmente. Se anche adesso mi rispondessi “dimmi” ti sbatterei il telefono in faccia. Aspetto.
Alex
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Ero quasi sicuro che non mi avresti risposto, papà.
Ti conosco troppo bene, quando chiudi una porta lo fai per sempre. Ci ho provato per dare a entrambi una possibilità. Sono uno generoso, io. Un illuso, diresti invece tu. Anzi, ingenuo.
Me lo hai ripetuto tante volte e persino la mamma, povera donna, alla fine ci credeva. Sospirava quando venivo a pranzo da voi, negli ultimi tempi, e scuoteva appena la testa. I suoi occhi non ce la facevano a fissarmi, si abbassavano subito con l’imbarazzata delusione che non riesce a escludere l’amore. L’avevi convinta che ero un fallimento, vero? Oh, cristo, ma perché l’hai fatto?
Alex
continua…
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