© Viceversa letteratura, 08.03.2021
Sotto il cielo del mondo di Flavio Stroppini
Recensione di Matteo Ferrari
IN BREVE
In Sotto il cielo del mondo Flavio Stroppini si cimenta per la prima volta con la misura del romanzo, senza tuttavia discostarsi da quella che è la cifra di tutte le sue opere: il racconto di viaggio. L’opera narra infatti, in un’atmosfera incredibile e a tratti perfino assurda, il lungo periplo con cui Alvaro Giacometti raccoglie in giro per il mondo indizi che gli permettano di capire chi sia stato suo padre Libero e perché, per seguire l’indole girovaga, abbia abbandonato tutto e tutti per navigare i mari di mezzo mondo su una nave cargo. Inseguendo il fantasma del padre assente, Alvaro imparerà a conoscere quest’ultimo, ma farà anche i conti con sé stesso.
RECENSIONE
Sotto il cielo del mondo, ultimo titolo del ticinese Flavio Stroppini, inizia con la nascita del protagonista, Alvaro Giacometti, avvenuta quando dalle Alpi «scendeva un caldo vento da nord» (p. 7) che appare presto come qualcosa di molto simile a un presagio. Infatti, mentre Alvaro nasce, la madre muore di parto. Il padre Libero invece (nomen omen) è assente, in giro per il mondo a seguire l’anima girovaga che ne ha fatto un marinaio. Alvaro crescerà accudito dalla zia Ines che – in un tragico ribaltamento del destino che la lega al nipote – il giorno del parto aveva invece perso il proprio, di figlio, mentre il padre di quest’ultimo, un musico capitato in paese e mai più ritornatoci, si trovava anch’esso da qualche parte sotto il cielo del mondo. È proprio la zia a battezzare il ragazzo con il nome dell’artista vagabondo di cui si era innamorata, Alvaro, quasi fosse anche questo un presagio. Quando il figlio compie diciotto anni il padre riappare per un breve saluto, scontrandosi però con l’ira di un figlio che da lui si è sempre sentito abbandonato. È dunque tanta la sorpresa quando, anni dopo, alla notizia della morte di Libero, Alvaro scopre che il vecchio marinaio in pensione aveva vissuto i suoi ultimi anni poco distante da lui, senza tuttavia mai palesarsi. Un’ulteriore ragione per odiare questo padre-non padre. Nel salotto di quello che è stato il suo ultimo appartamento, che Alvaro visita dopo il funerale, troneggia una riproduzione della nave cargo sulla quale Libero ha trascorso la maggior parte della propria vita, la Rhin. Un modello in ferro lungo oltre dieci metri, ultima stranezza di un «maledetto rapporto padre e figlio che non era risolto» (p. 46). Quando poi, plastificato sul fondo di una bottiglia di rum rimediata nello stesso appartamento, Alvaro scopre un numero di telefono, sente che da lì deve partire se vuole provare a capire veramente chi fosse suo padre. Come il primo indizio di una caccia al tesoro, il numero lo conduce in Polonia, a Gdansk-Danzica, prima tappa di un pellegrinaggio sulle orme del padre, in cui paradossalmente quest’ultimo si rivela più presente di quanto non sia stato in vita. Un viaggio da una parte all’altra del globo, attraverso i porti dai quali Libero è transitato. Alvaro decide di compiere tale ricerca da solo, abbandonando la fidanzata Line, che è incinta di una bimba e che fatica a capire e ad accettare. Lo stesso romanzo è costruito come una lunga spiegazione che, anni dopo, Alvaro indirizza alla figlia nel frattempo diventata maggiorenne, Alyssa. Un nuovo tassello al grande tema di fondo che aleggia su tutto il libro: quello della paternità, assunta o mancata.
Flavio Stroppini è conosciuto per la scrittura teatrale e i racconti di viaggio, e Sotto il cielo del mondo, pur essendo il suo primo romanzo a pieno titolo, non si discosta dalle precedenti narrazioni in quanto celebra proprio il valore conoscitivo del viaggio. Luoghi e incontri si susseguono tra le pagine come una litania ondivaga che strega il protagonista: Polonia, Thailandia, Turchia, Irlanda e via di seguito fino al gigantesco cimitero-cantiere di Alang, in India, dove nel 1983 la Rhin venne rottamata e dove ad attendere Alvaro vi sarà una sorpresa. Un viaggio irregolare, in cui a una lunga pausa può seguire un’improvvisa accelerazione. Proprio la velocità e l’apparente casualità con cui, dopo momenti di stallo, si compiono i balzi in avanti che permettono ad Alvaro di proseguire la ricerca, conferiscono al romanzo un’atmosfera incredibile, a tratti perfino assurda per la leggerezza con cui il protagonista si lascia trascinare in un’avventura in giro per il mondo attratto da quello che potrebbe trovare e noncurante di quello che lascia. Ma forse è proprio la natura impulsiva e inquieta dei due protagonisti, padre e figlio, che rende possibile ciò, che spiega cioè come mai un uomo decida di abbandonare la fidanzata incinta per inseguire dei vaghi indizi che un padre assente avrebbe disseminato per lui ai quattro angoli del globo.
Se il romanzo ha un limite, questo è nell’intreccio replicato su cui è costruita la ricerca del protagonista (viaggio-incontro-ripartenza) che, soprattutto nella parte centrale, allenta la tensione narrativa, mostrando scopertamente la storia per quello che è: non vera trama quanto pretesto per celebrare il viaggio in quanto tale. E proprio l’atto del viaggiare, insieme alla magia dell’incontro che spesso comporta, anima le pagine del libro, se è vero, come confessa lo stesso protagonista, che «sotto il cielo del mondo costruiamo quelle che saranno le nostre rovine» e «sogniamo quelle che saranno le nostre avventure» (p. 85), ma anche che «sotto il cielo del mondo la realtà supera la fantasia» (p. 146).
Al centro di queste avventure, quasi inutile specificarlo, vi è il mare, anche se, paradossalmente, il libro finisce per guardare con occhio più benevolo alla montagna, perché il mare, come confessa uno dei numerosi personaggi incontrati da Alvaro nel corso del suo peregrinare, è tutt’altro che calmo:
“La terraferma si salverà solo dov’è ripida oppure dove non conviene costruire delle strade” disse una volta Aarif, il marinaio che mi aveva affittato una camera nella sua casa. Bevevamo un caffè mentre fuori il vento sbatteva le onde contro gli scogli.
“La terraferma è uno strano posto, c’è chi dice che solo in montagna uno se ne può stare tranquillo.”
“O in mare” risposi.
“In mare un accidente! Il mare non è calmo per niente. È un vulcano. Erutta da un momento all’altro. A te sembra che se ne stia lì, buono. E invece non hai capito niente. Uno, due, tre ed eccoti a ballare.”
“E dove si può stare tranquilli?”
“Non si può.”
“Nemmeno in un cimitero?”
“No.” (p. 108)
A immagine di questo passo, il libro, e soprattutto i suoi due personaggi principali, vivono contesi tra polarità irrisolte: prima tra tutte, proprio quella che oppone la montagna, luogo delle origini, al mare, che pare attrarre entrambi come luogo del destino. Ma anche la polarità tra quiete e ansietà. Perché Libero è, come scopre il figlio nel corso del viaggio, «uno di quelli che culla l’inquietudine con l’irrequietezza» (p. 153). Il viaggio per capire le scelte e l’indole di un uomo refrattario alla staticità e alle responsabilità diventa così un modo non solo per capire meglio chi sia stato il proprio padre e per riavvicinarsi a lui, ma anche per scoprire il mondo e soprattutto per conoscere più a fondo sé stesso e farci i conti.
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