Terra bruciata
Le streghe, il boia e il diavolo
di Gerry Mottis
“L’uomo non è diventato meno crudele col passare di quella cosa illusoria che si chiama tempo, anche se in quasi tutte le parti del mondo è diventato più ipocrita di quello che era”.
(…)
“In verità la storia dell’uccidere è la storia stessa del mondo, e quindi non è affatto sorprendente scoprire che in nessun’altra cosa l’uomo ha più dimostrato la sua creatività che nell’inventare e perfezionare metodi e macchine per uccidere il suo simile”.
Charles Duff, Manuale del boia
INDICE
In nomine Dei nostri Satanas Luciferi excelsi!
Il processo ai topi di Dorenza
Crimini e castighi in Mesolcina
III. Il nuovo Ministro di Giustizia
La fiera di San Gallo
Il Malleus Maleficarum e la visita di Carlo Borromeo
Il processo contro Caterina della Sale
VII. Il processo contro Togno Stanga
VIII. Saphira: il potere delle erbe
Il processo contro Caterina Fasani di Mesocco
Il processo contro Tommaso Forello di Norantola
Epilogo
Appendice
15 aprile 1615. Centena, assemblea generale presso i Cióss di Lostallo
ANNESSO 1: Processo originale contro Antonio Stanga e Caterina della Sale (1613)
ANNESSO 2: Processo originale contro Caterina Fasani di Mesocco (1614)
ANNESSO 3: Processo originale contro Tommaso Forello di Norantola (1615)
ANNESSO 4: Sentenze originali criminali in Mesolcina tra il 1508 e il 1655
POSTFAZIONE
RINGRAZIAMENTI
BIBLIOGRAFIA
In questo arido deserto di acciaio e di pietra eleverò la mia voce cosicché voi la possiate udire. Dall’Est e dall’Ovest vi chiamerò. Dal Nord e dal Sud vi mostrerò un segnale, proclamando: Morte al debole, ricchezza al forte!
IL LIBRO DI SATANA, I,
The Satanic Bible, Anton Szandor LaVey
In nomine Dei nostri Satanas Luciferi excelsi!
Dall’inizio dei tempi ho reclutato adepti per tutte le terre emerse. Mi hanno lodato, adorato, onorato poiché in me hanno riconosciuto le forze delle Tenebre e, in cambio, hanno tratto il potere infernale, illimitato e supremo.
Coloro che si sono prodigati a frenare il mio officio sulla terra mi hanno perseguitato in molti modi: hanno brandito spade e croci per annientarmi, mi hanno disdegnato e hanno tentato di relegarmi nelle profondità degli Inferi, negli abissi oceanici, dentro antri tenebrosi ove albergano i miei aiutanti disciplinati, i demoni.
Mi hanno invocato in molti modi, tra i più stravaganti, in tutti i continenti; mi hanno assegnato nomi grotteschi e luminosi, come Lucifero, il “portatore di luce”, “l’angelo più splendido del paradiso”, “lo spirito dell’aria”, “il ribelle caduto”. I nomi infernali con cui invocarmi si sono susseguiti e aggiunti gli uni agli altri, per millenni, in ogni cultura del mondo: mi hanno chiamato Amon, Balaam, Coyote, Negral, Nija, Thamuz, Sedit, Rimmon, Pan, Tio, Metzli, Haborym, Euronymous, Gorgo, Chemosh, Adramelech, Melek Taus, Demogorgon, Dracula, Moloch, Loki, Hecate, Pluto, Sabazios, T’an-mo, Thoth, Naamah, Abaddon, Set, Ahpuch, Beelzebub, Cimeries, Sammael, Pwcca, Yen-lo-Wang, Midgard, Kali, Fenriz, Baphomet, e in tanti altri modi ancora.
Io non sono venuto a portare il Male nel vostro mondo, come voi mi accusate di fare, ma per renderlo libero. Sono qui per svincolare l’uomo e la donna dalla schiavitù di pensiero, per donare la libertà di essere al di fuori della legge, vivere al di sopra del giudizio, regolarsi secondo la propria natura segreta, liberando il Piacere per la vita in tutti i suoi eccessi travolgenti.
Io sono il Diavolo e reggo secondo nove principi: non sono astinenza ma appagamento, non sono ingannevole ipocrisia ma deturpata saggezza, non rappresento l’amore sprecato verso gli ingrati, sono la bontà per coloro che la meritano, non grido “porgete l’altra guancia!” ma rappresento la vendetta, sono la responsabilità per il responsabile, ritengo l’uomo un animale corrotto dal divino sviluppo spirituale e intellettuale; io sono e rappresento il Peccato come manifestazione suprema della gratificazione fisica, mentale ed emozionale; sono stato, sono e sarò il miglior amico che la chiesa abbia mai avuto, per tutti gli affari che le ho procurato nei secoli.
Quelle che voi avete ingiustamente chiamato “streghe” sono soltanto lo strumento illusorio del vostro potere corrotto. Io dico: beati coloro che sfidano la morte, per loro i giorni sulla terra saranno più lunghi; maledetti gli insulsi che hanno trascorso una vita ricca al di là della tomba, essi periranno nell’abbondanza!
Beati siano coloro che credono in ciò che è bene per loro, le loro menti non saranno mai spaventate, per cui accoglieranno le fiamme del rogo, la mannaia del boia, la forca dell’impiccato e tutti i tormenti coi ferri roventi, le tenaglie, le catene, le lame dei terrifici aguzzini con la forza e il potere dei temerari, e la loro vittoria sarà il fondamento di una nuova Giustizia!
Ricordate, voi milioni di disorientati: la bugia che viene riconosciuta come tale è già sradicata per metà, ma la bugia che è accettata come verità perfino dalle persone intelligenti è più pericolosa da combattere che una pestilenza progressiva!
Regie Satana!
Sono detti stregoni per la grandezza dei loro delitti, cioè perché fanno il male più di tutti gli altri malfattori; essi sconvolgono gli elementi, per scatenare cioè grandinate e tempeste con l’opera dei diavoli. Dice anche che turbano le menti degli uomini sino alla demenza, all’odio e all’amore disordinato. Perdono le anime senza far sorbire alcun veleno, ma con la sola violenza delle formule.
IL MARTELLO DELLE STREGHE, Capitolo I, Questione II,
Il diavolo collabora con lo stregone?
I
Il processo ai topi di Dorenza
Fu la piena del marzo 1612 a portare le schiere fameliche di topi a Dorenza. Prima erano dilagate nei campi, scarnificando tutto, poi si erano riversate spaventevoli per le vie della città.
Aveva piovuto per settimane. Il fiume Tobler si era ingrossato rapidamente fino a straripare, nero come la pece, infangando viali e sottoscala, cantine polverose e già ammuffite, taverne impregnate di odore acidulo di vino e di sudore. Le fetide contrade, ovunque ingombre di carcasse di animali randagi ed escrementi furono infine spazzate dalla corrente paludosa, ma ciò non portò gran beneficio alla popolazione. La lordura ripulita lasciò ben presto spazio ai topi – magnifici nuotatori – che ripopolarono avidamente le viuzze, insinuandosi in ogni pertugio con diabolica frenesia. Passata la piena, restò dunque la desolazione e in città trionfarono i ratti.
Questi si misero subito a graffiare ovunque in cerca di cibo e di scarti, a rosicchiare con le loro insaziabili zanne, divorando di tutto: frumento, castagne secche, pagnotte, carni essiccate, legumi, verdure, insaccati, pergamene, carogne, persino il mobilio imbottito con la lana o le gambe dei tavoli di legno verniciato. Così, dopo aver depredato i campi dei disgraziati contadini che si spezzavano la schiena per tutta la settimana, e svuotati credenze e seminterrati d’ogni vitale avere, i peggiori nemici dell’uomo mutarono i loro malefici piani e principiarono ad addentare i cittadini.
Occultamente in agguato negli angusti spazi tenebrosi, pizzicavano le braccia e le gambe dei passanti che si recavano chi dal panettiere, dal salumiere, dal maniscalco, oppure – segretamente – chi si spingeva alle vie delle veneri a pagamento. Aggredivano anche nel sonno gli ignari ubriaconi cui era annebbiato l’intelletto; abbandonati alla loro ubriacatura, giacevano addossati ai muri di pietra grigiastra e umida delle loro case circondati da eserciti ben organizzati. Venivano attaccati da ogni lato, finché i beoni non si riscuotevano e gridavano come ossessi, in preda a terribili presagi di morte, cercando di scacciare i roditori. A volte si lasciavano addirittura divorare da quelle fiere non opponendo resistenza alcuna, preferendo gli inferi a quella vita miserevole.
Bramosi del sangue, come esseri posseduti da creature del male, i topi si accalcavano in schiere composte, silenziose, gli occhietti rossi e lucidi, scintillanti, in attesa; di certo li muoveva una forza arcana, un’intelligenza maligna e ragionata; era sufficiente uno squittio repentino, un fremito di baffetti irti, un convenuto segnale del muso appuntito e l’orda s’avventava ingorda sullo sprovveduto, lacerato da migliaia di rapidi denti acuminati.
Nell’impeto dei pasti sanguinei i topi proliferarono, ingrassarono, divennero sempre più avidi e fecondi. Come la fiera dantesca, finito il pasto avevano più fame di prima. Si organizzarono in colonie compatte, fortificate, pronte a nuovi agguati. Persino i gatti randagi di quartiere, scheletrici e guardinghi per natura, non riuscivano a contrastare quelle diaboliche creature. Divorati due ratti ne ricomparivano quattro, otto, dodici, che rosicchiavano arti e zampe, membra e viscere, indistintamente, in un assurdo contrappasso.
Fu il primo contagio a mettere in allarme Dorenza. Un anziano gottoso, sopravvissuto a un premeditato attacco topesco notturno, s’incancrenì in pochi giorni; l’alito imputridito, caddero i pochi denti, la pelle s’illividì, la carne principiò a marcire. Febbre? Peste? Nessuno ne aveva certezza. Nemmeno il medico locale; un beone, dedito più al gioco dei dadi e alle meretrici che alla sua nobile arte. Ritrovato rinsecchito addossato a un granaio, scurito in volto, le ascelle tumefatte, si gridò all’infezione. Per le vie della città, dai campanili, dentro i magazzini ormai vuoti, da vicolo a vicolo, da balcone in terrazza, rimbalzò il temuto presagio; l’infezione si stava diffondendo! I ratti stavano contagiando Dorenza!
Si decise allora di correre ai ripari, di barricarsi in casa, di sprangare botteghe e taverne; mentre il Podestà e i suoi alti funzionari meditarono su un intervento mirato. Si mandò a chiamare addomesticatori di animali dalle lontane province. Intabarrati e con i baveri rialzati, essi si presentarono dopo tre giorni con una carovana di carri e cavalli di razza che facevano sfoggio dei loro garresi poderosi, della dentatura perfetta. Smontati da cavallo mostrarono al Podestà il loro prezioso carico. Pochi accenni, alcuni gesti di intesa, quindi all’interno del carrozzone il pagamento in monete sonanti, con tanto di sigillo reale su carta stampata. Poco dopo le abili mani dei domatori pigliarono dai carri una moltitudine di gabbie miagolanti che deposero al centro della piazza, sotto gli occhi di una rada ma curiosa plebaglia. A un segnale del maestro domatore le gabbie furono aperte: ne sortirono centinaia di grossi gatti neri e bruni, grigi e rossastri, gli occhi iniettati di sangue, le zanne rilucenti, pronti a colpire, gnaulanti come esseri infernali. La poca gente si disperse con grida di terrore; i gatti – trascinati dal loro naturale istinto – s’infilarono in ogni pertugio fiutando ovunque le prelibate prede, dando vita a una straziante carneficina.
Furono giorni in cui le strade si trasformarono in battaglia d’animali; un’accozzaglia di denti che affondavano e dilaniavano ratti. Il Podestà parve soddisfatto dell’opera dei magnifici felini. Ma la trionfante emozione durò poco; dopo l’abbondante scorpacciata i predatori si ritirarono dentro i fienili, oppure sui tetti, nelle cantine buie e silenziose a digerire il lauto pasto, sfiniti per lo sforzo profuso. Così, in poco tempo, le strade si ripopolarono di topi e la gente riprese a lamentarsi e a temere per un’incombente epidemia. I felini, costati alla municipalità un patrimonio, soddisfatti ripresero la via del ritorno verso le lontane province. C’è chi disse che se ne andarono schierati in file composte, per tre; altri invece giuravano che fossero stati divorati tutti dalle loro stesse prede, organizzatesi in nuovi schieramenti.
In quello stallo, ove gli umani temevano per la propria vita, già ridotta al lumicino per la scarsità di alimenti e il nuovo proliferare dei topi in città (infruttuosi anche i tentativi di avvelenamento con l’arsenico), al colmo dell’esasperazione qualcuno avanzò la proposta che si dovesse agire formalmente, secondo le vie legali, al fine di risolvere in modo definitivo quella preoccupante faccenda.
Fu allora che un certo Guglielmo Bohr, possidente terriero e primo commerciante di orzo nella città di Dorenza, cui erano stati completamente depredati alcuni granai, fomentato dall’ira dei suoi contadini venuti da fuori per reclamare con le forche e le zappe brandite a mo’ di spade e lance contro i ratti, si propose di denunciarli in giudizio. Fisico solido, tempra di uomo combattivo, illetterato come tanti ma ottimo calcolatore, si presentò una sera alla porta della canonica, accompagnato da suo fratello Domenico, un contadino robusto dal volto brunito e lo sguardo teso, nonché da un giovane garzone dall’aria allegra chiamato da tutti Il Bragone, poiché tutto l’anno portava delle braghe di tela tagliate al ginocchio, pure d’inverno, ma sempre pulitissime. Spiegò con poche parole la situazione al curato e la conseguente necessità che fosse un uomo di lettere a formalizzare le parole dell’angosciata popolazione.
«Non sono di certo la persona più adeguata per questa mansione», commentò il parroco ottuagenario dopo averli pigramente invitati a sedere in un salotto ampio, ma scarno e freddo. «Sanno tutti che da quando ho scritto, dodici anni orsono, il certificato di buona condotta per l’asina del vescovo, poi assolta dall’ignobile accusa di aver sedotto alcuni alti prelati e quindi scampata alla pena capitale, a Dorenza tutti mi chiamano il consolatore degli animali. Da allora mi sono visto affidare d’ufficio la difesa di parecchie bestie che cercavano di sfuggire alle naturali leggi dell’obbedienza, del rispetto nei confronti del padrone, del lavoro. Ho dovuto scrivere arringhe di difesa memorabili, ma non pochi disgraziati animali hanno subìto orribili punizioni: la fustigazione, il rogo, l’impiccagione e i colpi di mannaia, gli stessi mezzi tremendi che toccano ai peggiori criminali ostili a Dio. Due settimane fa, prima di mandarla al rogo come una strega, hanno mutilato con la mannaia il grugno e la zampa anteriore a una scrofa in pubblica piazza – secondo la legge del taglione tuttora in vigore – rea di aver morsicato un uomo al braccio e al volto. Certi giudizi io non li comprendo proprio più, soprattutto dopo un secolo di rivoluzione culturale e religiosa. Voi sapete di che cosa sto parlando?»
I tre uomini fissavano le labbra del parroco schiudersi e blaterare senza cogliere il senso delle sue oscure parole. Crollavano la testa in segno di approvazione, ottusamente.
«Non parlo di Rinascimento, signori! Non parlo di Riforma cattolica!», continuò quasi febbrilmente l’anziano ecclesiastico. «Qui si parla di antropofagia! Quella povera bestia è stata mandata alla berlina mutilata e grondante sangue; è rimasta appesa per dodici ore prima di finire sul rogo!»
Ora gli uomini parevano intimoriti; iniziava a sorgere il dubbio che il vecchio fosse stato invasato orribilmente.
«Antropofagia!», ripeté l’anziano. «Significa divorare gli uomini!», fece con voce rauca. «Nessun animale creato da Dio divora gli uomini…» continuò il sacerdote, ormai esausto. «Dio ha particolare pietà per tutte le sue creature…»
L’anziano socchiuse gli occhi. Pensarono che si fosse addormentato. I visitatori si guardarono l’un l’altro e fecero per allontanarsi, delusi, ma d’un tratto, rianimato, il parroco parlò di nuovo:
«Nella vicina Svizzera», l’anziano parve recuperare una lontana memoria, «hanno processato un gallo, colpevole di aver deposto un uovo, sfidando così con arroganza le leggi della natura! Fu condannato a morte e mandato al rogo, poiché ritenuto il diavolo sotto mentite spoglie!»
I tre uomini parvero ora perplessi e timorati.
«A chi volete che importi se un diavoletto si mette a covare delle uova!», s’infervorì nuovamente il parroco, paonazzo per lo sforzo. Poi tacque; intercorse un lungo sospeso silenzio prima che riprendesse a parlare.
«Ho visto impiccare cavalli e cani, bruciare vivi maiali e capre, tagliare la testa a un toro imbizzarrito colpevole di aver travolto e incornato il suo padrone. Pensavo di averle sentite tutte, ma ora voi mi parlate di denunciare degli stupidi roditori!»
«Sullo Stelvio hanno processato in contumacia delle talpe che hanno danneggiato i raccolti e causato con ciò la morte di almeno cento individui!», azzardò il possidente terriero.
Il parroco inarcò un sopracciglio.
«È vero!», confermò l’agricoltore serissimo, notando la perplessità del prete.
«Quelle bestiacce hanno portato alla miseria molte persone!», rincarò Guglielmo Bohr.
«Sono state condannate dai Magistrati all’esilio,» si intromise il garzone, «poiché si è dimostrato che a causa dei loro cunicoli erba e ortaggi non potevano più germogliare.»
L’ottuagenario ebbe un sussulto, un brivido che lo percorse lungo le braccia ormai tremanti.
«Sentite», fece emettendo un respiro profondo, «se la situazione è tanto grave quanto dite, io sono bendisposto a trascrivere la vostra missiva di denuncia ai topi, ma non chiedetemi di apporvi il mio sigillo. Per quanto mi riguarda questa lettera potrebbe anche esser stata vergata dal diavolo in persona!»
L’indomani il proprietario terriero, seguito da un nutrito gruppo di agricoltori induriti, depositò formalmente la denuncia presso l’autorità cittadina di Dorenza. Il Cancelliere Jacopo Tommasin lesse in tarda serata la missiva ai signori Giudici del Tribunale distrettuale che il giorno seguente informarono a loro volta il Fiscale, Pio Demottis, incaricato dell’accusa, e agli imputati assegnarono d’ufficio un avvocato difensore.
Prima però di dare avvio ai dibattimenti, il Tribunale – accolta la richiesta dei contadini del Vicariato – fece affiggere alle mura che recingevano la città dei bandi ove si intimava ai topi di allontanarsi da Dorenza e dalle campagne circostanti, lasciando le terre agli agricoltori, a coloro cioè cui spettavano per diritto contrattuale e unici veri responsabili del sostentamento della popolazione. L’intralcio a tale mansione avrebbe comportato l’apertura di una procedura penale a carico dei roditori.
Inutile dire che gli appelli passarono del tutto inosservati; anzi, i ratti si misero sfacciatamente a divorare con avidità la pregiata carta stampata affissa.
Al colmo dell’esasperazione i Magistrati decisero allora di passare alle vie di fatto e di emettere una denuncia formale che fu letta per tre giorni di seguito da un banditore – all’alba, a mezzogiorno e al tramonto – in tutte le piazze pubbliche:
L’illustrissimo Tribunale di Dorenza, nelle persone dei cinque eminentissimi Giudici, Gustavo Emmen, Lorenzo Martin, Emmanuele Kreise, Samuele Grosse e Piero Langenthal, emette il seguente atto di citazione in giudizio di una rappresentanza di topi provenuti dalle vicine terre del Tirolo, e intromessisi senza autorizzazione in città: ai sensi di legge dello Statuto civile e criminale cittadino s’impone agli imputati, che potranno costituirsi in gruppo autonomamente, di presentarsi alla magnifica Camera del Tribunale entro una settimana dalla lettura della citazione suddetta, per depositare la giustificazione della loro condotta operata deliberatamente ai danni della popolazione di Dorenza. Scaduto il termine di comparizione in Tribunale, si procederà con la requisitoria dello stimatissimo Fiscale che avanzerà le sue richieste di sanzione, le quali saranno coscienziosamente valutate dagli eminentissimi Giudici che, nel volgere di un massimo di dieci giorni, emetteranno la loro sentenza.
Anche il secondo appello cadde nel vuoto. Il banditore si era sgolato durante i giorni prefissati e da subito aveva notato una scarsa disponibilità da parte dei topi che spadroneggiavano incontrastati per le vie e le piazze, rosicchiando e divorando febbrilmente, rovesciando e insozzando alimenti e suppellettili con le loro immonde feci, indifferenti alla citazione degli illustrissimi Giudici.
Scaduto il termine per la comparizione in aula, si aprì dunque il processo un martedì mattina dell’aprile del 1612.
Nella sala del magnifico Tribunale di Dorenza si radunarono i cinque illustrissimi Giudici, il Cancelliere, il Fiscale, altri funzionari garanti del corretto decorso della requisitoria e dello svolgimento del processo, nonché una nutrita schiera di cittadini agguerriti, capitanati da Guglielmo Bohr e da suo fratello Domenico.
Il Giudice Gustavo Emmen diede la parola al Fiscale Pio Demottis che riassunse e precisò i capi d’accusa nei confronti dei topi.
«Il 18 marzo dell’anno del Signore 1612 nella città di Dorenza si è verificato un evento del tutto straordinario, causato dall’incessante pioggia che ha imperversato per settimane: il fiume Tobler è esondato e ha invaso la città; ogni via, ogni angolo, cantina, taverna e negozio, ogni singola abitazione e devastando le scorte dei raccolti già ridotte per l’annata siccitosa. Sfruttando al meglio l’ingrossamento delle acque, migliaia di topi provenienti dalle limitrofe campagne (verosimilmente originari del Tirolo) hanno approfittato di questa sciagura per raggiungere la nostra magnifica città provocando altra devastazione. L’illustrissimo Podestà di Dorenza, il signor Valentin Vonsalis, spinto dall’esasperazione dei suoi concittadini ridotti in miseria a causa di questa devastante invasione, ha fatto intervenire degli addomesticatori di felini per eliminare i fastidiosi roditori dal suolo municipale, temendo anche per un imminente ampio contagio di peste. Nonostante gli sforzi profusi e i molti soldi investiti, la municipalità ha riconosciuto la tenacia di questi esseri e, bendisposta, ha accolto la denuncia da parte di un gruppo di abitanti di Dorenza nei confronti dei roditori, agendo nel pieno rispetto delle leggi, affiggendo dei bandi di avvertimento e, in seguito, citando in giudizio gli imputati. Ignorati sia i bandi sia le citazioni in Tribunale, gli illustrissimi Giudici hanno deciso di aprire in data odierna il processo ai topi, affidando all’umile servo e sottoscritto Fiscale Pio Demottis di formulare il decreto di accusa e di proporre una sanzione ai sensi degli Statuti civili e criminali in vigore. Dando seguito alla distinta richiesta del Tribunale e dei signori Giudici, enumero di seguito le colpe degli imputati:
– i topi, sfruttando abilmente l’esondazione del fiume Tobler, e senza autorizzazione alcuna, hanno violato i confini politici del ministero di Dorenza, introducendosi nella città in modo del tutto illecito;
– i topi si sono resi colpevoli di numerosissime e gravissime infrazioni all’interno della città: vandalismo, depredazione di oggetti e abitazioni, furto di ogni sorta di genere alimentare, aggressione ai danni indistintamente di bambini, giovani, donne, uomini, anziani, trasmissione del contagio di malattie infettive tra cui la temutissima peste, omicidio intenzionale di simili, di felini, di uomini e anziani indifesi;
– i topi sono rimasti indifferenti nei confronti di tutti gli appelli e dei bandi affissi che li esortavano a lasciare la città e a ritornare alle loro tane nelle discoste province da cui derivavano; nonostante la bontà della proposta che non comportava punizione alcuna essi hanno, al contrario, bistrattato con arroganza tali annunci, divorandoli;
– i topi non hanno risposto ad alcuna citazione, né si sono mai presentati presso il magnifico Tribunale di Dorenza per giustificare la loro condotta, come intimato per mezzo del banditore dagli illustrissimi Giudici per tre giorni consecutivi, tre volte al giorno.
Elencate le colpe di cui si sono macchiati i topi, si formula la richiesta di punizione commisurata ai fatti menzionati: ai sensi dell’articolo 37 degli Statuti criminali della giurisdizione di Dorenza, per i reati di intrusione non autorizzata, vandalismo, saccheggio, contagio, aggressione, omicidio intenzionale, si propone la pena capitale per affogamento nel fiume Tobler di una rappresentanza di cento topi adulti in buona salute.»
Espletata la richiesta formale di condanna dei topi da parte del Fiscale si passò alla fase dell’esame testimoniale. Il Giudice Emmen convocò ad uno ad uno i testi e diede avvio all’interrogatorio secondo la formula canonica del diritto civile e penale. Il primo cittadino chiamato alla sbarra fu il depositario della denuncia.
«Nome e cognome.»
«Mi chiamo Guglielmo Bohr.»
«Età?»
«Trentanove anni.»
«Residenza?»
«Abito a Dorenza, in Larna.»
«Pseudonimo o soprannome?»
«Mi chiamano Lo Zecca.»
«Per quale ragione?»
«Perché reco sempre con me alcune monete nuove di zecca.»
Ne recuperò un paio dal taschino e le fece tintinnare nella sua mano destra, con un ampio sorriso di compiacimento.
«Stato civile?»
«Maritato, ho sette figli.»
«Professione?»
«Commerciante di orzo per la città di Dorenza.»
«Dove svolge la sua attività?»
«Principalmente nella mia bottega in Larna.»
«Possiede beni patrimoniali?»
«Sì.»
«Può elencarli?»
«Posseggo dodici appezzamenti di terra fuori Dorenza, quattro stallaggi e la casa in cui abito.»
«È già stato interrogato in altri processi civili o penali?»
«No.»
«Ha già subìto accuse o condanne nel corso della sua vita?»
«No, signore.»
«Ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche?»
«No.»
«Si dà atto» stabilì il Giudice in tono deciso e formale «che il signor Guglielmo Bohr si è presentato a testimoniare spontaneamente per riferire circa le accuse rivolte ai topi. Si proceda alla sua deposizione.»
Il Fiscale si avvicinò allo scranno dove sedeva il commerciante. Lanciò un’occhiata frettolosa all’avvocato difensore dei roditori e sbuffò, quasi beffardamente:
«Può deporre la sua testimonianza.»
Dopo un breve silenzio, rotto dal brusio di sottofondo provocato dalla curiosa frenesia dei presenti, Bohr parlò:
«Mi sono presentato a testimoniare a nome dei miei contadini e della popolazione tutta, stanchi di vivere nella miseria e di farsi depredare ingiustamente. Da sempre queste terre ci hanno fornito il nutrimento necessario a sfamare i nostri figli e nessuno si era mai lamentato finora, anche se a volte ci siamo trovati in situazioni assai precarie. Sappiamo che il clima è spesso inclemente, le tasse da versare ai Signori sono cresciute in questi anni e, che Dio ce ne scampi, dalla Natura abbiamo subìto ragguardevoli danni; basti ricordare la tempesta nell’estate dell’anno passato che ha sradicato i boschi di Faroppa, oppure le numerose frane abbattutesi sui latifondi di Gannen e le innumerevoli esondazioni del fiume Tobler, tra cui quella del mese scorso che ha devastato la nostra magnifica città con le conseguenze avversissime che tutti noi conosciamo e che siamo qui oggi a denunciare.»
Guglielmo Bohr fece una pausa e misurò l’attenzione della Giuria, del Fiscale, del Cancelliere – che stava appuntando le sue note – e quella della gente indignata accalcata sul fondo della sala.
«Sono i topi la nostra disgrazia!», riprese con tono severo nel silenzio ora pesante dell’aula. «Questi esseri immondi hanno progettato già da mesi di distruggerci! I miei contadini, che daranno conferma di quanto dico, mi hanno segnalato una situazione intollerabile. Con le loro tane e gallerie i topi di campagna hanno divorato le radici, distruggendo buona parte delle giovani pianticelle che non daranno più frutto alcuno. Sfruttando la piena del Tobler e la sua esondazione si sono poi riversati a Dorenza e hanno continuato imperterriti a divorare fino all’ultimo granello di cibo…»
«Dica cosa hanno portato via a lei!», s’intromise l’avvocato difensore, balzando in piedi agitato, roteando in modo strano i suoi bulbi oculari. «Delle generalità sappiamo già tutti!»
Il possidente terriero s’innervosì.
«Come ho già ripetuto più volte, nei miei stallaggi sono stati depredati ben quaranta sacchi di orzo. I ratti si sono subdolamente intrufolati da un’apertura consumata nel legno più tenero e si sono arrampicati con destrezza sino alle impalcature più alte, rosicchiando tutto. Hanno infine insozzato le mietiture coi loro escrementi lasciando unicamente desolazione e fetore!»
«E in città? E in città?», chiese febbrilmente l’avvocato.
«In città è accaduta la stessa cosa!», s’infuriò Guglielmo Bohr, paonazzo, rimboccandosi le maniche sgualcite. «Sono penetrati nella mia cantina e hanno devastato tutto; hanno divorato mobili, tappeti, tessuti, carte stampate, svuotato le credenze di ogni alimento che possedevo: pane, ortaggi, pesci essiccati, salsicce… Non è rimasto più nulla! Ed è tutta colpa di quei mostri!», concluse scompigliandosi con un gesto nervoso i lunghi capelli cinerini.
Dal fondo della sala si alzarono dei buh di ribrezzo e di scherno. Il locale fu presto saturo di voci e richiami, grida e proteste, lamentele, insulti, pernacchie, peti e qualche bestemmia sussurrata.
«Silenzio! Silenzio!», gridò subito imperioso il Giudice, ergendosi in tutta la sua autorità togata. «O faccio sgomberare l’aula del Tribunale!»
Ritornò una calma precaria.
«Ha altro da aggiungere?», chiese il Fiscale.
«Ho terminato», dichiarò Bohr.
Un vivace seppur breve applauso accompagnò il suo rientro tra il pubblico.
«È chiamato a testimoniare Rudolf Demattei», proruppe con autorità il Magistrato, infastidito dal rumoreggiare della folla accorsa in aula.
Si avvicinò un giovane dal volto segnato dalla fatica, serio, con la barba incolta rossastra, le spalle larghe e squadrate, le gambe snelle e nervose, il cappellaccio di paglia calcato in testa.
«Se lo tolga prima di testimoniare…», gli ingiunse il Giudice.
Il giovane, non uso agli interrogatori, un rospo in gola, si sedette e si levò il cappello con mano tremante.
«Nome e cognome.»
«Rudolf Demattei.»
«Età?»
«Ventiquattro anni.»
«Residenza?»
«Abito a Dorenza, in Menn.»
«Pseudonimo o soprannome?»
«Per tutti sono Il barba giovin.»
«Per quale ragione?»
L’uomo si accarezzò con un sorriso beffardo la folta barba rossastra.
«Stato civile?», proseguì il Giudice senza dargli peso.
«Ho moglie e una bambina.»
«Professione?»
«Contadino.»
«Dove svolge la sua attività?»
«Nelle terre dell’eminentissimo Guglielmo Bohr.»
«Possiede beni patrimoniali?»
«No.»
«È già stato interrogato in altri processi civili o penali?»
«No.»
«Ha già subito accuse o condanne nel corso della sua vita?»
«No.»
«Ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche?»
«No.»
«Si dà atto» concluse con la stessa formula il Magistrato «che il signor Rudolf Demattei si è presentato a testimoniare spontaneamente per riferire circa le accuse rivolte ai topi. Si proceda alla sua deposizione.»
«Può parlare» lo invitò Demottis, notando il suo impaccio a riferire.
«Io posso solo confermare…» iniziò titubante il giovane contadino, «quanto appena detto dall’onorevolissimo signor Bohr. I ratti hanno sterrato ovunque, in campagna. Hanno fatto delle tane profonde neanche fossero talpe. Hanno scavato gallerie, divorato le radici delle nostre semine… Quest’estate non raccoglieremo nulla!»
Fece una pausa e osservò i volti dei signori Giudici, impassibili. Tra la folla invece ci fu un fremito scomposto.
«Molti di noi moriranno di fame… ve lo garantisco!», affermò con durezza, le ciglia folte increspate. «Quelle bestiacce ci hanno condannati… a una morte lenta!»
«Perché ha deciso di presentare la sua accusa?», chiese l’avvocato difensore dei ratti.
«Perché… perché…» blaterò goffamente il contadino, «perché mi è stato chiesto…» aggiunse con timidezza.
Ci fu un sussulto dell’avvocato.
«Le è stato chiesto… da chi?», fece aggrottando la fronte.
«Da chi vuole quelle bestiacce tutte… morte!»
Questa volta scoppiò un applauso fragoroso. Fischi e ululati si mescolarono alla cagnara. Il Giudice ebbe un bel da fare per riportare l’ordine in aula, benché coadiuvato da alcune guardie municipali che allontanarono i più facinorosi.
«A lei cosa hanno distrutto in città?», chiese il difensore appena ritornò un po’ di calma.
«Mi hanno rovinato tutta la farina.»
«Null’altro?»
«No.»
Dopo la deposizione di Rudolf Demattei fu ascoltata ancora una decina di testimoni. Tutti contadini, giovani e anziani, scottati dal sole e bruciati dalla miseria, che esponevano con gesti insulsi e un vocabolario approssimativo quanto già ripetuto: i topi erano la causa della disgrazia di tutti, avevano divorato le messi in campagna e questo, di lì a poco, avrebbe comportato la miseria in città; inoltre, i ratti si erano macchiati pure di molteplici saccheggi e aggressioni domestiche, portando alla disperazione se non alla morte più cittadini.
A fine di giornata il Giudice Gustavo Emmen chiamò a deporre un’anziana signora, vedova da poche settimane. Si presentò ingobbita, come se un pesante fardello le gravasse fatalmente sulle spalle; vestita di nero, con una lunga gonna smessa che nascondeva ogni forma del corpo macilento, l’anziana parlò guardandosi sempre le scarpe smunte.
«Sono la vedova Samman, fu Roman Samman», dichiarò.
«Cosa la spinge a testimoniare qui oggi in questo processo», chiese il Fiscale.
«L’omicidio di mio marito.»
Si levò un brusio inquietante, una ventata gelida.
«Quando accadde?»
«Il venerdì di due settimane orsono.»
«E com’è avvenuto?»
«Il mio povero marito è stato aggredito e ucciso.»
Mormorio concitato.
«Da chi?»
«Dai topi.»
«Come fa a esserne certa?», intervenne l’avvocato difensore dei roditori.
«Mio marito non aveva nemici…», affermò con fierezza la donna. «Era un buon uomo. Buon marito. Buon padre. Lavoratore instancabile.»
«Nessuno dubita di ciò, signora», giudicò l’avvocato difensore inarcando in modo impercettibile il labbro superiore, «ma da lì a credere che…»
«Non offenda la memoria del mio compianto marito!», s’accalorò l’anziana in un moto di stizza, pur continuando a guardarsi le scarpe, il peso della vecchiaia sulle spalle. «Io so di cosa sto parlando…»
«La prego», intervenne il Fiscale, «ci spieghi come sono andati i fatti…»
«Due settimane or sono», iniziò a narrare la vedova, «mio marito non è rientrato la sera dalla taverna, dove era solito consumare qualche bicchiere di vino prima di cenare coi dodici figli. Io mi sono allarmata e ho mandato i più grandi a cercarlo…»
La donna ebbe un leggero cedimento e il suo discorso fu rotto da alcuni singulti.
«Mio marito è stato trovato…» disse con uno sforzo supremo, «agonizzante, addossato alla parete esterna della taverna, fatto a pezzi dai ratti che… lo stavano ancora divorando mentre i suoi occhi disperati chiamavano aiuto…»
«E i suoi figli cosa fecero?», chiese il difensore.
«Hanno allontanato i topi col fuoco delle torce e… hanno trasportato a casa il padre morente.»
«Quando è morto suo marito?», chiese Demottis.
«L’indomani mattina… dopo una notte di tremenda agonia…»
«Ha detto qualcosa prima di morire?.»
La donna trattenne a fatica lacrime amare.
«Ha detto… che non esiste giustizia alcuna su questa terra.»
Il pubblico rumoreggiò di nuovo dal fondo della sala, ma più compostamente. La vedova si alzò dal suo scranno e si allontanò, lo sguardo rivolto al suolo, incurante delle commiserazioni degli abitanti di Dorenza.
Il Giudice attese pazientemente che l’anziana fosse uscita e che la folla di curiosi si fosse placata, poi diede la parola al patrocinatore dei topi.
«L’avvocato difensore può disporre.»
«Chiamo a deporre Hernest Maierfranz», dichiarò con un ghigno l’avvocato.
Il Magistrato e tutti i membri della Giuria ebbero un sussulto. Il pubblico si zittì a quell’annuncio, gli astanti si guardarono l’un l’altro increduli; Hernest Maierfranz era tra di loro! Che diavolo avrebbe detto quel vecchio pazzo?
Il testimone emerse da un angolo buio – come se uscisse da un abisso invisibile, un altro mondo fatto di mistero – e si trascinò fiero sotto lo sguardo attento di tutti verso lo scranno riservato agli interrogati. Si sedette composto e rispose con inquietante flemma ai primi appelli di Demottis.
«Nome e cognome.»
«Hernest Maierfranz.»
«Età?»
«Cinquantotto anni.»
«Residenza?»
«Abito a Dorenza, fuori le mura, in una capanna.»
«Ha uno pseudonimo o un soprannome?»
«Gli amici mi chiamano El Marin, poiché adoro le onde del mare, anche se qui non c’é; ma la maggior parte di questi», e additò la folla in fondo alla sala, «alludono a me col nome di Grifón.»
«Per quale motivo?»
«Sembra che io sia molto… graffiante», disse il vecchio con tono cinico.
«Stato civile?», proseguì il Giudice.
«Vivo da solo.»
«Professione?»
«Mi piace definirmi un pensatore libero.»
La folla rise. Maierfranz indicò col dito l’uno e l’altro, a caso, che aveva riso, senza proferir parola; allora nell’aula piombò un silenzio gravido di timore.
«Possiede beni patrimoniali?»
«La mia capanna è l’unico bene di cui dispongo.»
«È già stato interrogato in altri processi civili o penali?»
«Sì.»
«Ha già subito accuse o condanne?»
«Sì.»
«Ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche?»
«Sì, ma come l’illustrissima Giuria saprà, sono stato allontanato…»
Il Giudice sorvolò su quest’affermazione sarcastica e pronunciò la formula rituale:
«Si dà atto che il signor Hernest Maierfranz si è presentato a testimoniare spontaneamente per riferire circa le accuse rivolte ai topi. Si proceda alla sua deposizione.»
Il vecchio pensatore lasciò passare alcuni istanti prima di parlare; assaporò la riverenza turbata di tutti i presenti, avvocati compresi. Sembrava respirare a fatica, ma tutti sapevano che stava solo riscattando energie da un baratro profondo al quale solo lui aveva misteriosamente accesso.
«Proceda!», si spazientì allora Gustavo Emmen, in nervosa attesa.
«I topi sono dei fierissimi nemici dell’uomo», esordì con tono franco Maierfranz.
Dal fondo della sala si levarono dei timidi buh, zittiti subito dallo sguardo fulminante del pensatore italiano.
«Sono esseri che perseguitano accanitamente l’uomo da migliaia di anni, dandogli una caccia spietata. Coi loro denti aguzzi e la loro implacabile ingordigia, questi esseri così minuscoli e apparentemente indifesi hanno la capacità di suscitare la peggiore ferocia, una collera indefinibile negli uomini, forse perché sono più abili di noi a procacciarsi il cibo, a proteggere la propria prole, a superare le avversità dell’ambiente che li circonda, ad adattarsi a condizioni estreme, a ingannare facilmente i loro predatori, a sopravvivere con scaltrezza fuori dal comune.»
Maierfranz s’interruppe: un topolino stava attraversando furtivamente la sala per scomparire dentro una fenditura della parete dietro il tavolo della Giuria, totalmente ignara – come pure il pubblico presente – di quell’episodio bizzarro. Maierfranz s’interruppe, sorpreso anche da un altro fatto del tutto inconsueto: l’arrivo del parroco, il consolatore degli animali, che se ne stette in disparte, guardingo e fiero, attirando tuttavia su di sé l’attenzione della gente e dei giudici.
Il teste, compiaciuto, rise beffardamente e proseguì:
«Malgrado ciò, chi di voi potrebbe contestare la leggiadria di un topolino, il suo aspetto elegante, la sua indole briosa, la sua scaltrezza? C’è persino chi ne tiene in gabbia alcuni per esibirli agli amici potenti, ai commercianti ricchi, alle vicine di casa bizzarre. E allora cosa temiamo veramente da questi esseri col loro musetto appuntito, i baffetti sensibili, il bel pelame grigiastro, le zampette armoniose e scattanti? Temiamo i loro denti? La loro ingordigia? Oppure temiamo il… contagio?»
I presenti trattennero il fiato, preoccupati, e iniziarono a scrutarsi l’un l’altro, a esaminare la carnagione olivastra, a ispezionare in tralice la colorazione dei bulbi oculari dei vicini, a subodorare gli eventuali fetori della malattia… Persino i Giudici non si trattennero dall’esaminare manifestamente i propri colleghi.
«Non allarmatevi, signori!», affermò Maierfranz con fervore. «Anche se vi fosse un contagio effettivo le autorità non direbbero nulla, i medici vi rincuorerebbero per non rischiare di venir fatti a pezzi; tutti negherebbero l’evidenza pur di non veder crollare l’attività economica della città. Siete tutti sani!, griderebbero i banditori per le piazze. Non vi è nulla da temere! Se l’epidemia dilagasse, i corpi dei cadaveri si ammucchierebbero nelle strade che diverrebbero deserte, si chiuderebbero le botteghe, le osterie, le chiese, e nessuna legge sarebbe più rispettata. Imperverserebbe il panico; il timore dei vivi e dei morti, la paura dei vicini e dei mendicanti, perfino dei propri figli e dei propri vestiti. Persone di cuore diverrebbero di marmo, allontanerebbero senza pietà qualsiasi ammalato, persino i propri cari, relegandoli fuori le mura come i lebbrosi, a morire di una morte silenziosa e dimenticata. Tutto diverrebbe proibito, fuorché per i topi!»
L’aula fu percorsa da un brivido che s’impossessò di membra e di corpi, persino dell’ambiente spettrale che si era venuto a creare con la testimonianza del vecchio pensatore; scricchiolavano le travi di legno dell’aula penale, cigolavano le ante degli armadi addossati alle pareti, gemevano le imposte alle finestre scosse da improvvise folate di favonio.
«Voi sapete bene, signori», si rivolse ai Giudici il vecchio pensatore con palese ironia nella voce, «che un animale piccolo consuma più energia di un animale grande, ed è per questa ragione che deve nutrirsi continuamente, ingurgitando cibo quasi pari alla metà del proprio peso. Per tale motivo, tuttavia, il piccolo roditore vivrà meno, ma metterà al mondo molti più suoi simili salvaguardando la specie con sempre nuove generazioni di topi…»
«La prego, sia più conciso, signor Maierfranz», intervenne infastidito uno dei Giudici, l’eminentissimo Emmanuele Kreise. «Questa è una sala di udienze, non di dissertazioni accademiche.»
«Sarò certamente breve», rispose il vecchio pensatore con un sorrisetto sarcastico, «se non fosse che…» e fece una pausa teatrale, leggendo raccapriccio e preoccupazione sui volti di tutti i presenti, «ai fini della giustizia è necessario conoscere significativamente gli imputati del reato denunciato; tutto ciò a onor del vero!»
L’avvocato Kreise scosse il capo e si morse un labbro.
«I topi sono stati i più fedeli compagni dell’uomo fin da tempi antichissimi», continuò quasi come se esordisse con una nuova divagazione e ostentazione di eloquenza. «Sono sempre stati accanto all’uomo, l’hanno seguito quand’era nomade nelle più remote terre conosciute. Sono degli esseri intelligenti, si nutrono dello stesso cibo dell’uomo ritenendolo il più adatto alla loro sopravvivenza, ma non disdegnano nemmeno i rifiuti abbandonati, ricoprendo così anche l’importante ruolo di spazzini. Hanno sapientemente sfruttato i fuochi accesi, intuendo che questi tenessero lontano i loro predatori, le civette e i gufi. Nonostante siano territoriali, in assenza di sostentamento la loro astuzia li ha spinti a seguire l’uomo e a insediarsi con lui nei villaggi e nelle città, dove hanno proliferato non tanto grazie alle loro abilità, ma a causa della sua stoltezza, non essendo in grado di proteggere adeguatamente le proprie riserve alimentari. È dunque per nostra colpa che siamo stati invasi dai topi…» si avviò alla conclusione Maierfranz. «Questi si sono spinti dove Natura li ha indirizzati… dove vi era cibo facile da procacciarsi e nessun predatore pericoloso da cui difendersi… Dorenza è stata, ed è tuttora, la loro meta dorata…!»
La voce cominciò a mancargli, il fiato a farsi spezzato, irregolare.
«Io non so» terminò il libero pensatore chiamando a raccolta tutte le sue ultime energie, «se sia giusto o meno condannare a morte questi topi. So soltanto che, e spero di averlo adeguatamente dimostrato, a noi cittadini di Dorenza spetta una buona parte di responsabilità in tutta questa miseria…»
Detto ciò tacque, si levò dallo scranno con grande fatica e s’incamminò nel silenzio ovattato della sala verso l’uscita. Quando passò davanti al parroco s’arrestò per un istante e lo scrutò nei suoi occhi velati.
«Testimonierete a favore dei ratti?», gli chiese con un soffio.
«Le creature di Dio», rispose oscuramente il religioso, «a dispetto delle creature del male non hanno alcun interesse a danneggiare gli uomini.»
Il Giudice Emmen, ascoltati i vari testimoni, con un gesto autoritario richiamò l’attenzione dell’aula. Levò la mano destra e invitò l’avvocato difensore dei topi ad alzarsi.
«Sia data infine la parola alla difesa.»
«Insigni Giudici, membri della Giuria», esordì ampollosamente l’avvocato, rischiarandosi più volte la voce rauca, «gli animali sono nostri pari, possiedono una ragione e una morale e quando si macchiano di un crimine essi sono sottoposti ai medesimi processi che spettano agli uomini. Sin dai tempi della Dieta di Worms, risalente all’anno 829, la Giurisprudenza ha punito gli animali con la stessa misura degli uomini. Cani, gatti, conigli, pecore, capre, galli, corvi, merli, ecc. sono stati mandati al rogo poiché rassomiglianti per le loro penne o il pelame neri; per questa ragione gli inquisitori hanno creduto che in essi si travestisse il demonio. Ora, cosa ci trattiene dal condannare a morte dei topi ritenuti “fastidiosi e irragionevoli”, giacché si sono macchiati di molti crimini, portando la distruzione, la miseria e la morte nella città di Dorenza? Nulla, sembrerebbe. I testimoni che si sono avvicendati oggi hanno tutti confermato l’accusa del Fiscale: dopo aver distrutto le messi, i topi sono penetrati illegalmente in città dove hanno diffuso il contagio, dilapidato ogni scorta alimentare e persino aggredito e ucciso dei passanti…»
La voce dell’avvocato difensore si era fatta grave, drammatica.
«Sugli Appennini un cane lupo è stato impiccato poiché aveva assalito e divorato un bambino; in Svizzera, nella Valle Leventina, un cavallo è stato decapitato poiché aveva disarcionato il suo cavaliere ammazzandolo; nella Schwarzwald in Germania, un cinghiale è stato mandato a morte per atti di devastazione in non pochi terreni agricoli; in Francia una scrofa accusata di aver aggredito dei contadini, mutilandoli, è stata appesa alla berlina e poi condotta al supplizio abbigliata con un abito maschile, panciotto e cappello, secondo la Giurisprudenza del luogo, e affidata alle mani del boia che la squartò a colpi di mannaia. Ciò nonostante…», dichiarò l’avvocato mutando il tono della voce: «in questo caso il lodevole collegio giudicante, consigliato dalla ragione e dal buon senso caritatevole, risparmiò dalla morte i suoi sette porcellini a causa della loro tenera età e perché ritenuti vittime del cattivo esempio materno.»
Tra il pubblico corse un sospiro di sollievo frammisto a stupore. Alcuni gridarono addirittura «È giusto!», «Bene così», «Bravi i Giudici!», «Che gran cuore!»
Il Giudice Emmen levò ancora la mano in aria e la sala si zittì quasi d’incanto. Il difensore continuò seguendo la logica del suo ragionamento.
«Con il permesso del Consiglio vorrei qui ricordare altri casi in cui questa si è distinta per ragionevolezza e umanità.»
S’inumidì le labbra, si rischiarò più volte la voce rendendola ora più acuta, penetrante, limpida.
«Nel 1499 in Germania la popolazione denunciò un orso per atti di vandalismo e saccheggio di alcuni villaggi. Il Fiscale formulò l’accusa e propose la pena di morte per impiccagione. Malgrado ciò, per un cavillo legale il bravo avvocato difensore dimostrò che l’animale aveva il sacro diritto di essere giudicato dai suoi pari, cioè da una Commissione composta esclusivamente da orsi, vincendo così la causa.»
Alcuni dei presenti scoppiarono a ridere, mentre i membri della Giuria si fissarono interdetti, fiutando la scaltrezza dell’argomentazione difensiva.
«Silenzio!», strillò il giudice Langenthal. «Questa non è una taverna!»
Quando fu ritornata la calma, ringalluzzito, l’avvocato proseguì:
«Nel 1519 a Stelvio i contadini denunciarono delle talpe che avevano consumato le radici di tutte le pianticelle degli ortaggi fuori città. Esse furono condannate all’esilio e non a morte, come – al contrario – richiesto dall’accusa. Rammento anche il processo apertosi in Valtellina nel 1559 contro alcuni vermi, ritenuti dei delinquenti poiché avevano violato molte proprietà, danneggiandole. Ad essi fu intimato di rientrare immediatamente nei boschi astenendosi dal devastare i raccolti. Nel 1570 una comunità di monaci francescani denunciò una colonia di termiti poiché si erano scorpacciate delle provviste monasteriali e avevano ridotto in polvere mobili antichi pregiatissimi. In questo caso, il difensore dimostrò che le termiti erano ben più operose degli stessi frati e che questi avrebbero dovuto vergognarsi di citarle in giudizio. Pertanto fu sentenziato che entrambe le parti dovessero mantenere una buona condotta: le termiti non dovevano più infastidire i monaci, mentre questi non dovevano a loro volta più molestare le operose antiche residenti. Nel 1587, a Magonza, i viticoltori intentarono invece una causa contro mosche, pidocchi e bruchi, rei di distruggere le vigne. Grazie al senno dei Giudici, essi furono banditi in una riserva, ove poterono proliferare in libertà lontano dalle coltivazioni locali.»
Dal fondo della sala partì un fischio di esultanza. Tutti sogghignarono, tranne il parroco consolatore degli animali. Nella sua testa mulinavano i più disparati sentimenti: stupore, raccapriccio, ansia, incredulità. A che pro tutta quella messinscena?, si chiedeva segretamente. Anche se uccidessero tutti i topi di tutte le città del mondo la miseria umana non cesserebbe…
«Tutti questi casi, che ho riportato alla memoria dell’eminentissimo Tribunale, convalidano la mia obiezione all’accusa dei cittadini e del Fiscale.»
La folla ritornò a rumoreggiare, questa volta in maniera più manifesta.
«Nessuno di noi sfugge alla devastazione causata dai topi invasori», proclamò l’avvocato difensore, temendo la reazione dei contadini in sala. «Ciò nonostante voglio ricordarvi quanto segue: i topi hanno lavorato e lavorano frequentemente per il bene della comunità; essi mangiano le larve degli insetti e altri animali nocivi che distruggono le colture, arricchiscono il terreno con i loro escrementi, smuovono e arieggiano la terra come le talpe. I topi, soprattutto quelli campagnoli, offrono altri benefici all’uomo: accumulano nei loro rifugi sotterranei una grande quantità di semi, di scorte invernali, che contribuiscono alla proliferazione delle piante. I topi non ostacolano la germinazione delle pianticelle, anzi la favoriscono. Inoltre, come già accennato, ci liberano dai rifiuti immondi.»
Il depositario dell’accusa, il possidente terriero Bohr, fu ora osservato con sospetto da tutti i presenti. Egli rise beffardamente e sussurrò che quel difensore di ratti era solo un affabulatore, un povero diavolo che non aveva mai tenuto una zappa in mano in tutta la sua vita.
«Ora chiediamoci, signori», proseguì l’avvocato. «Sono più irritanti i topi oppure è più fastidioso riconoscere che siamo noi a non essere in grado di salvaguardare i nostri alimenti? I topi sono esseri intelligenti, ragionevoli, sociali; sanno intrufolarsi dappertutto quando fiutano qualcosa da mangiare, non indietreggiano di fronte a nulla, dimostrano una tenacia e una forza notevoli, sanno affrontare diverse notti di duro lavoro pur di sfamarsi e di sfamare la propria prole. Sono astuti e accumulano abbondanti scorte per proteggersi dai periodi di carestia, di miseria, di freddo, dimostrando intelligenza e lungimiranza. Nei loro nascondigli profondi sono stati trovati immensi mucchi di noci e nocciole, stoffe e tessuti, accumulati da esseri così minuscoli e indifesi. Siamo dunque corresponsabili», affermò l’avvocato, dopo un altro sorso d’acqua, «dell’arrivo dei roditori. Siamo incapaci di nascondere e proteggere il nostro cibo; inoltre, siamo produttori di una grande quantità di rifiuti che abbandoniamo ovunque, attirando molti animali, tra cui i famelici ratti. Oltre a ciò, siamo lerci! Puzzolenti! Fetidi!», affermò con asprezza.
I presenti si scrutarono l’un l’altro, fiutandosi con circospezione e un certo disprezzo.
«È perciò illogico pensare che siano i topi a portare il contagio della peste. Se così fosse, la peste sarebbe sempre stata con noi. I topi vivono nelle nostre abitazioni da millenni, così come le pulci. Per quale ragione, dunque, non morirebbero anche i topi? Non è loro la colpa. Il morbo è una punizione dell’Onnipotente! La causa risiede nei nostri peccati, direbbe la Chiesa. Se temiamo il contagio dobbiamo eliminare il nostro fetore, le pulci e… tutti i gatti! Sono infatti questi esseri ad avere più familiarità con il demonio! Prima di terminare la mia arringa», continuò l’anziano avvocato, sempre più fiero della sua difesa, «voglio raccontarvi una storia. Nel 1284, nella città di Hameln, nella Bassa Sassonia, gli abitanti furono costretti a barricarsi nelle loro case a causa dell’invasione di una moltitudine di topi voracissimi. La municipalità, preoccupata per le scorte alimentari che venivano distrutte dai roditori, si riunì più volte senza trovare una soluzione alla questione. Fu allora che si presentò ai funzionari della città un giovane di bell’aspetto, chiamato Hans Buntig, suonatore di piffero, che si offrì di liberare la città dai topi contro il pagamento di venti monete d’oro. La sua proposta fu subito accettata. Hans s’incamminò per le vie della città di Hameln suonando il piffero, ben sapendo che i roditori sono particolarmente sensibili alla musica. Fu così che questi topi, udendo la melodia, si misero a seguirlo fin fuori le mura della città, dove il giovane s’immerse nelle acque impetuose del fiume Weser che trascinò via, uccidendoli, tutti i roditori. Rientrato in città, il Podestà si oppose al pagamento delle venti monete d’oro e anzi si mise a canzonare il pifferaio. Umiliato, il giovane pianificò la sua vendetta: ritornò a suonare per le vie della città e, questa volta, fu seguito da tutti i bambini che lo tallonarono sparendo per sempre nel nulla…»
Qualcuno, tra i presenti in fondo alla sala, si mise a zufolare intonando una canzonetta popolare. Tutti risero.
«Vi ho raccontato questa storia per rendervi attenti, signori», concluse indirizzandosi ai Giudici: «È giusto non sottovalutare il problema, ma è doveroso agire secondo rettitudine, affinché non si commetta lo stesso errore operato dal Podestà di Hameln. Sono gli uomini stessi che li attirano rendendosi corresponsabili. Questi animali non sono vendicativi né dimostrano alcun interesse a danneggiare gli uomini; ciò sarebbe per loro controproducente. Ho spiegato che spesso essi operano in favore della comunità; per queste ragioni io chiedo agli eminentissimi Giudici del Tribunale di Dorenza di annullare la richiesta di pena capitale avanzata dal Fiscale e postulare anzi, quale avvocato difensore dei topi, un salvacondotto per i miei clienti: che sia data loro l’opportunità di vivere, di lasciare Dorenza e di raggiungere nuove residenze al di fuori dei nostri confini politici; bisognerà a tal fine provvedere ad accompagnarli fuori città e a trovar loro una nuova patria. Questa è in sintesi la richiesta avanzata dal sottoscritto.»
L’avvocato difensore tacque e si sedette, compiaciuto della propria perorazione. Ora regnava un silenzio lugubre, rotto dalla voce possente del giudice Gustavo Emmen.
«Ascoltati il Fiscale, i depositari dell’accusa nei confronti dei topi, svariati testimoni e l’arringa dell’avvocato difensore, l’onorevolissima Giuria si ritira a disquisire sul caso e annuncia che darà regolare sentenza entro i limiti pattuiti dalla Giustizia, vale a dire al massimo entro dieci giorni a partire da questo momento.»
Nel tempo che intercorse tra la fine delle testimonianze, delle arringhe e la sentenza definitiva, Dorenza fu di nuovo dominio dei topi. Spopolavano incontrastati, beffardi, indifferenti alla sorte che si stava decidendo dentro le aule del Tribunale. S’intrufolavano in ogni interstizio, ogni cavità, angolo oscuro in cerca di qualsiasi scarto, rifiuto, anticaglia, avanzo, rimasuglio, per cibarsene con avidità insaziabile. La gente osservava impotente, spaesata, intimorita; cercava di sprangare porte e finestre, balconi, terrazzi, pertugi nelle cantine seminterrate, per evitare l’invasione di quelle fameliche fiere, temendo oltremisura l’epidemia di peste.
In quell’attesa spasmodica c’era anche chi impazziva; caricava il fucile a pallettoni e sparava appena un’ombra si muoveva; altri, ben più disperati, si gettavano dal ponte vecchio dentro il Tobler, con un grido lacerante. Molti, inoltre, cercavano rifugio fuori le mura della città, come aveva fatto il pensatore italiano Hernest Maierfranz trovando la libertà illusoria e vivendo del suo; seminando, raccogliendo, cacciando.
Il settimo giorno, nell’agitazione generale, un banditore comunicò l’annuncio della sentenza per il giorno seguente. La lettura del verdetto fu eseguita nella piazza maggiore alla presenza degli eminentissimi Giudici del magnifico Tribunale di Dorenza. Rasente ai muri della piazza scorrazzavano schiere di ratti che, squittendo, parevano passarsi dei segreti comandi; a volte si fermavano, fissavano la folla accorsa con sinistra curiosità per un attimo – immobili, attenti – prima di riprendere il loro misterioso cammino.
Pur sospettando agguati da parte dei ratti, temendo oltremodo d’essere parimenti contagiati dal morbo invisibile, tutta la popolazione si radunò sfidando apertamente il fato e la volontà del demonio.
Il banditore strappò il sigillo di ceralacca del Tribunale, srotolò con maestria d’attore navigato la pergamena e lesse con voce tonante il verdetto:
L’illustrissimo Tribunale di Dorenza, rappresentato dai cinque eminentissimi Giudici, Gustavo Emmen, Lorenzo Martin, Emmanuele Kreise, Samuele Grosse e Piero Langenthal, dopo aver attentamente ascoltato il Fiscale Pio Demottis pronunciare la sua accusa e i testimoni che ne giustificavano l’atto, nonché dopo aver dato la parola all’avvocato difensore degli imputati, vagliando tutti gli indizi favorevoli e contrari all’operato dei topi nella magnifica città di Dorenza, emettono la seguente sentenza:
I topi, pervenuti dalle limitrofe campagne situate al di fuori dei confini politici di Dorenza, accusati da una moltitudine di contadini preposti al sostentamento della città, sono colpevoli dei seguenti crimini: intrusione non autorizzata, saccheggio, vandalismo, aggressione. Si accettano così parzialmente le imputazioni avanzate dal Fiscale. Sono invece rigettate le accuse più gravi di omicidio intenzionale, non corrispondenti ai fatti, giacché i topi non hanno mai veramente mostrato alcuna volontà di uccidere degli uomini, ma unicamente di saccheggiare i suoi averi per salvaguardare la propria esistenza in un periodo di carestia che ha interessato parimenti uomini e animali. Sono accolte anche le argomentazioni della difesa che reclamavano maggiore equità nella rappresentanza giuridica da parte dei pari imputati, cioè la presenza di topi in seno alla Giuria.
In virtù di ciò, si condannano tutti i topi al bando perpetuo dalla città di Dorenza. Per tutti questi sono stati elargiti un libero salvacondotto e una moratoria di quattordici giorni, periodo entro cui essi dovranno andarsene, portando con sé i figli ancora piccoli, le femmine gravide e gli ammalati, che saranno scortati da un funzionario responsabile adibito a tale mansione, il Maestro di Giustizia di Dorenza, il quale si assicurerà che lungo il tragitto, che li condurrà nella loro nuova residenza oltre i confini politici della città, tutti i cani, i gatti e qualsiasi altro animale ostile ai topi sia rinchiuso o tenuto lontano, altrimenti sarà abbattuto a colpi di mannaia. È inoltre istituito che per eseguire la condanna e dunque poter superare il fiume Tobler, onde evitare che i topi finiscano di nuovo fuori controllo, sia eretto uno speciale ponte di legno ad unico uso dell’espatrio. Tale sentenza entrerà in vigore all’annuncio della stessa nella piazza municipale di Dorenza.
La città venne così finalmente liberata dai ratti. Il boia di Dorenza li scortò attraverso il ponte di legno sul Tobler fin fuori la circoscrizione comunale, a chilometri di distanza, in un rifugio adibito a loro nuova residenza: una zona di campagna disabitata, costellata di ruderi abbandonati travolti un secolo prima da una monumentale frana, ricca di arbusti e pianticelle giovani che davano bacche dure e indigeste agli uomini, ma gradite ai famelici roditori.
Il carnefice li accompagnò con passo marziale, indossando il consueto abbigliamento che esibiva durante le condanne sul patibolo: il mantello purpureo, il cappello di feltro nero decorato con una striscia diagonale dello stesso colore sanguigno, stivali neri alti fino al ginocchio di cuoio. Brandì lungo tutto il tragitto la sua mannaia affilatissima che riluceva sotto i raggi del sole tardo pomeridiano.
Era un uomo robusto, nel pieno dell’età, ligio al dovere e servizievole, temutissimo in città. Bastava un suo sguardo per mettere in fuga le persone incontrate quando si recava a comprare il pane – che trovava sempre capovolto sul bancone – riservato esclusivamente a lui. Il suo nome era Kasper Abadeus. E questa fu la sua ultima condanna eseguita a Dorenza e commissionata dal magnifico Consiglio capitanato da Gustavo Emmen, prima di lasciare per sempre quella città e recarsi a offrire il suo officio, in maniera del tutto casuale, in una valle attigua alla Valtellina, chiamata Comungrande di Val Mesolcina, in Isvizzera, che si estendeva dal fondovalle – limitato dai maestosi Castelli di Bellinzona sino all’antico Mons Avium dei Romani – entro cui imperversavano da anni criminali spietati che la giurisdizione faticava a controllare e soprattutto a punire dopo il ritrovamento in un fossato del carnefice locale.
continua…
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