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© Viceversa letteratura, 17.08.2022

Tutto ciò che siamo stati di Olimpia De Girolamo
Recensione di Matteo Ferrari

Si chiama Anna Di Gregorio la protagonista del romanzo d’esordio di Olimpia De Girolamo, Tutto ciò che siamo stati, ed è ormai adulta quando il romanzo prende avvio; l’infanzia trascorsa a Napoli è distante da lei tanto cronologicamente quanto geograficamente, perché Anna nel frattempo si è trasferita e da anni vive altrove. Il passato sembra insomma definitivamente trascorso quando la notizia della sparizione del padre convince Anna a tornare a Napoli per quello che diventa ben presto e senza remissione un viaggio non solo nella terra dell’infanzia e delle origini ma anche nel proprio passato e nella propria storia familiare.

Sono anche le mie parti, queste, solo che da qualche anno mi piace recitare la scena di quella che ha rotto col passato, che si è evoluta culturalmente, riuscendo a mascherare con grazia la naturale inclinazione alla malinconia del vivere. So bene, però, che è sempre e soltanto una l’evoluzione che siamo chiamati a compiere a questo mondo. Quella dalle nostre famiglie. (p. 11)

Dove è finito il padre di Anna, uomo inetto e remissivo che per una vita intera ha scolpito e dipinto statuine del presepe e che da due mesi manca da casa? Vi è qualcosa che la madre e il fratello sanno e non vogliono dire? Qual è il ruolo di Anna in tutto questo? E perché il padre ha lasciato quale unico indizio una lettera sibillina, scritta a mano in un napoletano che viene definito, in maniera ossimorica, «minuzioso e sgrammaticato» (p. 34)? Vi è forse un legame con quanto era successo in passato tra le mura del palazzo nel quale la famiglia ancora vive: la scomparsa del figlio più piccolo dei vicini di casa, Salvatore, poi trovato morto su una spiaggia nei pressi di Posillipo, o il suicidio di sua sorella Ada?

Ah già, il quartiere. A Napoli il quartiere è il depositario della verità di tutti. Voce ‘e popolo, voce ‘e ddio, dice un antico proverbio di queste parti. Non c’è bisogno di indagini della polizia. Il quartiere sa tutto prima che si trovi ogni prova, le prove le crea, le inventa. Soprattutto, il quartiere sa raccontare e nella potenza delle parole sta tutto, fa diventare vera ogni cosa che narra, la sa amministrare con la sapienza di chi conosce il potere delle parole scelte. Più le parole sono grosse, pesanti e colorate, più chi le ascolta crede. (p. 42)

Agli occhi del lettore i misteri s’infittiscono e Anna stessa necessita di tempo per fare ordine; i ricordi che emergono a strappi dalle nebbie dell’infanzia si rivelano più nitidi e vicini di quanto la protagonista non avesse sperato e vanno metabolizzati, come va affrontato il dolore che alcuni di essi portano con sé. È il caso di quanto successo ad Ada, che di Anna era amica e compagna di lunghi pomeriggi trascorsi a prendere il sole sul pianerottolo, ascoltare canzoni alla radio e sognare. All’epoca Anna aveva quasi dieci anni e Ada sedici. Una si affacciava all’adolescenza, l’altra del mondo adulto aveva già scoperto alcuni segreti. Un rapporto certo non paritario ma sincero, che si rompe quando Ada, per la vergogna provocata dalla scoperta dalla sua relazione con un uomo sposato, Giovanni il verdummaio, «si era tolta le scarpe, era salita sulla sedia e si era buttata di sotto» (p. 9). Una scena per altro alla quale Anna aveva involontariamente assistito, e che apre magistralmente il romanzo, a sottolineare come il passato a volte non trascorra, e basti davvero poco per risvegliarne le cicatrici: se è evidente che il trauma abbia segnato la vita della protagonista («Anche io stavo morendo un po’ quel pomeriggio», p. 9), esso non è senza strascichi nel presente. Tornare a Napoli alla ricerca del padre equivale dunque per Anna a reimmergersi nella propria vita precedente e confrontarsi con essa, implacabilmente.
La vicenda si rivela costruita attorno ai rapporti tra bambini e adulti; fra i temi principali, oltre all’infanzia, vi è la famiglia e i segreti che questa può custodire, ben riassunti nell’immagine posta in copertina, nella quale due ragazzine dall’aria candida e pudica si coprono la bocca mentre ridono (complimenti all’editore per la scelta). A questi temi si aggiungono quelli della scoperta della sessualità e dell’importanza, in un simile contesto, delle omissioni e delle mezze parole, ma anche i temi più vasti della colpa e dell’innocenza; tutto ciò, insomma, che ha rappresentato per Anna l’entrata nella vita adulta. Sullo sfondo scorre una Napoli riconoscibile eppure misteriosa, ipogea, lacerata e lacerante, spesso fatalista.

Tutto si svolgeva così. Un mondo di dentro e un mondo di fuori. I vicoli, i muri scrostati, l’umidità del primo mattino, sembravano indifferenti alle vicende povere e scalcinate della gente del mio quartiere. Invece proprio i muri e le loro crepe, sapevano già tutto, conoscevano ogni dettaglio di ogni famiglia, ogni disperazione, croce da portare, povertà e malattia. (p. 8)

Vi sono, nelle vite degli uomini e in particolare delle donne che compongono il romanzo, delle faglie che caratterizzano le esistenze e le attraversano silenziosamente. Si scoprirà ad esempio che anche per Anna la scoperta dell’amore era stata accompagnata da un’umiliazione, quando, diversi anni dopo la morte di Ada, la famiglia aveva fiutato e condannato, in un tribunale surrettizio improvvisato tra le mura domestiche, la prima esperienza della ragazza, allora diciassettenne, con un coetaneo. Come questo, in un libro dove i dettagli sono sapientemente inseriti nella narrazione e hanno la loro importanza, sono tanti i particolari che riaffiorano dalla memoria.

Ada me la ricordavo così, nei suoi sedici anni pieni di potenza creatrice, con gli occhi e le labbra cariche di vita, con le cosce nude sotto la gonna di cotone. Ada aveva avuto coraggio, quello che ti arriva dal ventre dell’amore, dal desiderio, dalle mani che sanno cogliere il piacere. Era troppe facce assieme. Era la sorella mai avuta, la compagna nei pomeriggi vuoti dell’estate, era l’educatrice alle cose del sesso e delle donne. Col tempo si era fatta cupa. La vedevo sempre meno, non usciva più da quando avevano scoperto di lei e di Giovanni. Si spegneva la radio, si sbiadiva l’immagine di lei che cantava allegra Mina e Patty Pravo, si smarginava l’idea che avevo di lei. (p. 81)

Con l’uso, in quest’ultimo brano, di un vocabolo («smarginare», uscire dai margini, ma anche svelarsi per quello che si è, vacillare) caro alla scrittura di Elena Ferrante e alle protagoniste della sua fortunata quadrilogia L’amica geniale, di cui questo romanzo pare aver assorbito con profitto certe fratture che la vita provoca nelle persone, innestate qui su un’atmosfera tanto arcaica da parere quasi magica. Il libro possiede inoltre una lingua che finisce per diventare sua, che usa sapientemente le possibilità dell’italiano e ricorre spesso, per i dialoghi, al dialetto napoletano («Che volete da me. Perché mi guardate? È da ieri che mi guardate. / ‘E femmene belle se guardano signo’, nun ‘o ssapite?», p. 51). La particolarità non sta tanto nel ricorso al dialetto, che gode oggi di vasta fortuna nella letteratura in lingua italiana, quanto nella pregnanza di certe immagini, che sanno accavallarsi in frasi per lo più brevi, dove tuttavia gli elenchi e gli accumuli sintattici, come nell’estratto riportato poc’anzi, non ripetono mai quanto già detto ma ne ampliano la risonanza. L’alternanza e a volte la mescolanza dei due linguaggi risulta convincente, e grazie a essa ritmo e melodia sono sempre percepibili sulla pagina.
La lettura risulta scorrevole e avvincente anche grazie a una costruzione sapiente della narrazione, che dilata oltre misura il presente del soggiorno napoletano di Anna e lo riempie con i ricordi del passato. Unico neo, forse, la scelta di aggiungere personaggi anche quando la trama pare già avviata alla conclusione, come nel caso della figura dello zio, che si rivela presenza ambigua ed evanescente ma tutt’altro che secondaria. Questa scelta può lasciare nel lettore l’impressione che il romanzo, a fronte di un lungo avvicinamento al cuore del mistero, si concluda infine velocemente. Se poi la conclusione corrisponda anche a uno scioglimento, giudicherà il lettore. L’impressione di un finale rapido è tuttavia poca cosa a fronte della ricchezza di spunti e di suggestioni condensati nelle pagine; si inizia a leggere convinti che quella narrata in Tutto ciò che siamo stati sia la storia di Anna e si finisce per capire come in realtà, coerentemente con la prima persona plurale del titolo, la storia è quella di una famiglia, di un palazzo, di un quartiere. Forse, di una città e della sua anima profonda.

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