© Viceversa letteratura, 22.06.2022
Recensione – A una voce – Romanzo di Sabina Zanini
di Natalia Proserpi
Pubblicato da Gabriele Capelli nel 2022 dopo aver vinto il Premio Studer/Ganz 2021 come prosa d’esordio inedita, il romanzo di Sabina Zanini A una voce traccia la giornata di un personaggio che ha deciso di vivere in totale solitudine all’infuori della frenesia e dei meccanismi che regolano la società contemporanea. Impiegata di banca in una cittadina non meglio definita, la voce narrante, priva di un nome, riflette attraverso la forma del monologo interiore sul mondo che la circonda, osservando con lucidità e distacco le aberrazioni di uno stile di vita al quale rinuncia con fermezza. Rifiutando completamente i “valori” della società occidentale ed estraniandosi dalla logica del consumo, dell’apparenza, dello spreco, si riduce a una vita fatta di routine e di gesti ripetitivi, che le consentono di limitare al minimo i propri contatti con il mondo e di fuggire nella propria immaginazione, luogo primario dove si svolge la sua esistenza. Se la giornata ricostruita nel corso delle centoventi pagine tratteggia quindi un’esistenza banale e ordinaria – nulla avviene all’infuori delle comuni attività giornaliere, come prendere il bus per recarsi al lavoro o fermarsi al supermercato per comperare l’essenziale per sopravvivere –, la vita interiore del personaggio è invece fervida e movimentata, e rappresenta così una via di fuga dalla realtà che la circonda. La scansione del libro in cinque capitoli intitolati Mattina, Mezzogiorno, Pomeriggio, Sera, Notte – forse memore, nella sua dimensione giornaliera, di alcuni noti modelli novecenteschi che alla lentezza e alla limitatezza delle azioni contrappongono la profondità psicologica dei personaggi – sottolinea allora il contrasto tra vita reale ed esistenza interiore, tra attività quotidiane e immaginario, ponendo al centro del libro l’io monologante e la dimensione del soggetto.
Se poco si può dire, quindi, degli eventi e degli snodi narrativi del libro, il suo reale interesse sta nella costruzione di un personaggio estremamente complesso e sfaccettato. A caratterizzarlo è innanzitutto la scelta, radicale, di isolarsi da tutti, che lo porta per esempio a infilarsi le cuffiette per non dover parlare con i passeggeri sul bus, o ancora a dichiarare di non apprezzare il caffè per evitare di trascorrere le pause con i colleghi d’ufficio. L’isolamento viene poi perseguito attraverso l’annullamento di qualsiasi segno distintivo che possa attirare l’attenzione, a cominciare dall’abbigliamento, sempre sobrio e ordinario: «La mia tendenza alla semplificazione mi ha fatto selezionare tre cambi invernali e tre estivi. Sono su per giù della stessa foggia, con tonalità del tutto simili, ma non uguali. Dev’essere chiaro che mi presento con abiti puliti e in ordine, sempre per non suscitare sospetti di incuria. Però preferisco non discostarmi troppo dal modello discreto che ho scelto, perché la gente percepisce soprattutto le variazioni. Se dovessi presentarmi al lavoro indossando qualcosa di inconsueto, subito sarebbe notato e scatterebbe, inevitabile, l’osservazione» (p. 15).
Anche sul lavoro lo sforzo del personaggio è volto a non destare interesse; fa infatti in modo di non eccellere per non suscitare invidie, ma al tempo stesso si impegna a non risultare svogliato o impreparato per evitare rimproveri: «Ancora una volta mi conforta l’idea che è meglio non avere ambizioni, rimanere a galla negli strati bassi di questa piramide. È un regalo non essere notati, non infastidire nessuno. Però bisogna lavorare per guadagnarsi un simile statuto. […] E non bisogna mostrarsi demotivati» (p. 31); «non lavoro per virtù, ma per non farmi notare. È ovvio, se il capo non ha bisogno di riprendermi, mi lascia in pace» (p. 65). In ogni ambito della vita, privata e lavorativa, l’obiettivo dell’io narrante sembra quindi essere quello di non richiamare l’attenzione e di rimanere solo. Gli unici contatti, brevi e impersonali, avvengono allora con colleghi, vicini e commessi dei supermercati, delle figure che compaiono tra le pagine senza diventare veri personaggi, e che non riescono a relazionarsi con lui per il suo carattere sfuggente e lo sforzo, sempre rinnovato, di passare inosservato.
Se un simile atteggiamento potrebbe far pensare a un personaggio debole, il suo stile di vita – o forse meglio la sua filosofia di vita – sembra in realtà essere scelto più che subito. A contraddistinguere questa figura, ben distante dai molti personaggi di inetti che costellano la letteratura, è l’estrema razionalità con cui osserva e si posiziona nel mondo. È proprio dalla riflessione lucida e distaccata sul suo funzionamento, più che dall’incapacità di adattarvisi, che sembra nascere la decisione di isolarsi e di rifiutare i ritmi e le consuetudini della società. Il personaggio si presenta quindi come un personaggio forte, fedele a sé stesso e alle proprie convinzioni. Parlando della sua solitudine, afferma per esempio con decisione: «Non ho segni particolari. E ringrazio tutti quelli che partecipano alla messa in scena del non riconoscersi. Benedetto anonimato. Non capisco perché ci siano sociologi che si affannano a descrivere con toni allarmanti questa società parcellizzata e incapsulata. Non mi sembra sbagliato occuparsi della propria solitudine senza tenere altri in ostaggio. L’anonimato è libertà» (p. 21). E ancora, alla fine del libro: «La solitudine è una sciagura se ti frana addosso, non se la costruisci come condizione per essere liberi di votarsi a un ideale. Ho capito che è possibile nascondersi in un mondo di sogno, popolato ad arte» (p. 121).
D’altro lato, il rifiuto delle logiche del mondo contemporaneo e dei rapporti umani non è quello di un personaggio freddo e insensibile; dietro la posizione dell’osservatore distante e solitario si intravvede infatti il dolore dovuto alla perdita della madre – la quale viene evocata, con una certa brutalità, sin dalla prima pagina («Non vorrei morire di cancro come mia madre. Una vita sbiadita nel solo dolore», p. 11) –, come pure la consapevolezza di non riuscire a sormontare le delusioni e a perdonare chi lo ha fatto soffrire. È quindi anche per evitare di provare di nuovo il sentimento di disinganno sperimentato più volte che la voce narrante si risolve a vivere con sé stessa astraendosi dal mondo e tenendo lontano da sé ciò che potrebbe causarle dolore.
Nel corso del libro prende allora forma un personaggio ricco di sfumature, che, se per la sua profondità psicologica viene delineato con grande precisione e sottigliezza, risulta d’altro lato ambiguo e poco definito per la limitatezza di informazioni che lo riguardano – il lettore non sa come si chiama, dove vive e, fino a poco prima della fine del libro, se è un uomo o una donna. Si crea così uno scarto tra l’accurata costruzione introspettiva del personaggio e l’indeterminatezza dei suoi tratti esteriori, la quale sembra rispecchiare la mancanza di peculiarità che dichiara e il suo tentativo di non farsi notare. Allo stesso modo in cui chi gli sta attorno non sa quasi nulla di lui, il lettore rimane all’oscuro di molti aspetti della sua vita, con la differenza che, seguendo le sue riflessioni, può conoscerne a fondo i pensieri e le emozioni. L’autrice riesce allora nel difficile compito di costruire un personaggio che, pur rivelando il proprio io profondo, conserva una parte di mistero.
Pure interessanti sono la sua postura e il suo modo di guardare il mondo. Esaminando con minuzia i gesti e le abitudini delle persone che lo circondano, l’io narrante adotta la posizione, tutt’altro che scontata, dell’osservatore distante. Questa sorta di filtro, di sguardo dall’esterno, che potrebbe ricordare lo scienziato che esamina la realtà attraverso una lente, è come dichiarata in un passaggio del libro in cui il personaggio si definisce come una sorta di “etologo”: «La mia però non sarebbe indagine morale, ma etologia umana» (p. 91). Se pure non mancano osservazioni pungenti, spesso sarcastiche, sulla società contemporanea e critiche molto esplicite che ne mettono in luce assurdità e disfunzionamenti – si ricorda, a titolo di esempio, il commento tagliente che fa quando parla dell’apparente benessere di cui godono gli impiegati della banca: «È più libero un pinguino in un giardino zoologico a cui hanno ricostruito attorno una parodia di banchisa polare. Ha il diritto incontestabile di tuffarsi e rituffarsi tutto il giorno nella sua vaschetta di pochi metri quadrati» (p. 32) –, lo sguardo quasi analitico del personaggio consente all’autrice di tenersi a distanza dal genere dell’invettiva o della critica polemica. Pur consegnando un ritratto lucido e penetrante della società, la riflessione serve soprattutto a definire il personaggio e a chiarire le ragioni della sua evasione nel proprio mondo interiore.
Se è quindi nei propri pensieri che l’io narrante si rifugia per astrarsi da questa realtà che osserva con distacco, la vera via di «fuga» (pp. 33, 57) è però rappresentata dalla musica, una «porta aperta verso un mondo libero, illuminato di bellezza e armonia» (p. 50). È nella musica per violino di Niccolò Paganini, vero e proprio leitmotiv che attraversa tutti i capitoli del libro, che esso trova infatti una via per «affrontare la vita» (p. 14), immergendovisi a più riprese. Nel corso del suo monologo si creano così delle sorte di pause, dei momenti di sospensione in cui l’io descrive con una lingua immaginifica e distesa i movimenti della musica e le sensazioni provate. In coincidenza con questi passaggi la lingua diventa lirica, mossa, enfatica. Si percepisce così, rispetto al linguaggio più analitico e riflessivo – anche se non certo impoetico – del resto del libro, un aumento di emotività, un innalzamento di temperatura che riesce a tradurre il significato profondo che la musica di Paganini, unica vera compagna e reale via di salvezza, ha per l’io: «Niccolò Paganini. Non cercavo un eroe, ho solo seguito un pifferaio magico, un incantatore. Un fatato oblio che mi sta esiliando in un tempo e luogo che fu, e che ho imparato a far riapparire come in un trucco da fattucchiera. La sua musica mi porta nelle sfere alte dell’esistenza, in uno spazio etereo in cui trovo ristoro» (p. 119).
È dunque una voce potente, per concludere, quella a cui Sabina Zanini dà vita nel suo primo romanzo; una voce sottile e penetrante, a un tempo fredda, animata e partecipe, che colpisce per la sua capacità di mettere in discussione i valori della società e che invita il lettore a prendere una pausa per rifugiarsi in quelle «sfere alte dell’esistenza» raggiungibili grazie al dialogo con sé stessi e con l’arte.
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