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Sabina Zanini
A una voce
Romanzo
15×21 cm, ca. 128 pp, ca. 16,00 Euro
ISBN 978-88-31285-19-3

Premio Studer/Ganz 2021

Disponibile anche in versione digitale su più piattaforme.


Intervista a Sabina Zanini di Natascha Fioretti, Alice, RSI RETE DUE, 23.04.2022

“Per gentile autorizzazione della RSI Radiotelevisione svizzera di lingua italiana.”

La scelta dell’esilio dai ritmi e dai riti della società contemporanea di un personaggio che rivendica il diritto di sottrarsi alla logica imperante dell’apparire.
In un flusso di coscienza travolgente, che diventa critica profonda all’oggi e agli stereotipi di genere, Zanini sa trasformare la narrazione di una noiosa giornata tipo in un incredibile viaggio nella mente umana che non può lasciare indifferenti. La mancanza di avvenimenti, metafora della voluta assenza di relazioni, diventa azione attraverso l’osservazione, l’indagine, il respingimento della realtà circostante e il personaggio protagonista, paradossalmente, si rivela portatore di un colpo di scena finale costruito con esatta misura.


Sabina Zanini è nata a Sorengo nel 1972 e ha studiato Lettere moderne a Pavia. Lavora come redattrice per la Radiotelevisione svizzera. Con il romanzo “A una voce” vince il “Premio Studer/Ganz 2021 per una prosa inedita d’esordio”.


RECENSIONI/SEGNALAZIONI

© Circolo dei libri, 09.09.2022

Voglia di chiamarsi fuori
“A una voce” di Sabina Zanini
Di Michele Fazioli


© Convenzionali

Libri

“A una voce” di Sabina Zanini
di Gabriele Ottaviani

A una voce, Sabina Zanini, Gabriele Capelli editore.

Suggestivo sin dalla splendida copertina che ricorda certe sequenze di Agnès Varda (Je disparais dans le flou…), il testo pluripremiato, e con ogni evidenza con pieno merito, di Zanini, in un flusso di coscienza trascinante che si fa critica sostanziale della contemporaneità ipocrita, vacua e superficiale, infarcita di stereotipi, sa tramutare il racconto di una giornata senza alcunché di significativo in un’escursione nella mente umana che ha i tratti dell’agnizione.
Imprescindibile.

Link: Convenzionali


© Viceversa letteratura, 22.06.2022

Recensione – A una voce – Romanzo di Sabina Zanini
di Natalia Proserpi

Pubblicato da Gabriele Capelli nel 2022 dopo aver vinto il Premio Studer/Ganz 2021 come prosa d’esordio inedita, il romanzo di Sabina Zanini A una voce traccia la giornata di un personaggio che ha deciso di vivere in totale solitudine all’infuori della frenesia e dei meccanismi che regolano la società contemporanea. Impiegata di banca in una cittadina non meglio definita, la voce narrante, priva di un nome, riflette attraverso la forma del monologo interiore sul mondo che la circonda, osservando con lucidità e distacco le aberrazioni di uno stile di vita al quale rinuncia con fermezza. Rifiutando completamente i “valori” della società occidentale ed estraniandosi dalla logica del consumo, dell’apparenza, dello spreco, si riduce a una vita fatta di routine e di gesti ripetitivi, che le consentono di limitare al minimo i propri contatti con il mondo e di fuggire nella propria immaginazione, luogo primario dove si svolge la sua esistenza. Se la giornata ricostruita nel corso delle centoventi pagine tratteggia quindi un’esistenza banale e ordinaria – nulla avviene all’infuori delle comuni attività giornaliere, come prendere il bus per recarsi al lavoro o fermarsi al supermercato per comperare l’essenziale per sopravvivere –, la vita interiore del personaggio è invece fervida e movimentata, e rappresenta così una via di fuga dalla realtà che la circonda. La scansione del libro in cinque capitoli intitolati Mattina, Mezzogiorno, Pomeriggio, Sera, Notte – forse memore, nella sua dimensione giornaliera, di alcuni noti modelli novecenteschi che alla lentezza e alla limitatezza delle azioni contrappongono la profondità psicologica dei personaggi – sottolinea allora il contrasto tra vita reale ed esistenza interiore, tra attività quotidiane e immaginario, ponendo al centro del libro l’io monologante e la dimensione del soggetto.

Se poco si può dire, quindi, degli eventi e degli snodi narrativi del libro, il suo reale interesse sta nella costruzione di un personaggio estremamente complesso e sfaccettato. A caratterizzarlo è innanzitutto la scelta, radicale, di isolarsi da tutti, che lo porta per esempio a infilarsi le cuffiette per non dover parlare con i passeggeri sul bus, o ancora a dichiarare di non apprezzare il caffè per evitare di trascorrere le pause con i colleghi d’ufficio. L’isolamento viene poi perseguito attraverso l’annullamento di qualsiasi segno distintivo che possa attirare l’attenzione, a cominciare dall’abbigliamento, sempre sobrio e ordinario: «La mia tendenza alla semplificazione mi ha fatto selezionare tre cambi invernali e tre estivi. Sono su per giù della stessa foggia, con tonalità del tutto simili, ma non uguali. Dev’essere chiaro che mi presento con abiti puliti e in ordine, sempre per non suscitare sospetti di incuria. Però preferisco non discostarmi troppo dal modello discreto che ho scelto, perché la gente percepisce soprattutto le variazioni. Se dovessi presentarmi al lavoro indossando qualcosa di inconsueto, subito sarebbe notato e scatterebbe, inevitabile, l’osservazione» (p. 15).

Anche sul lavoro lo sforzo del personaggio è volto a non destare interesse; fa infatti in modo di non eccellere per non suscitare invidie, ma al tempo stesso si impegna a non risultare svogliato o impreparato per evitare rimproveri: «Ancora una volta mi conforta l’idea che è meglio non avere ambizioni, rimanere a galla negli strati bassi di questa piramide. È un regalo non essere notati, non infastidire nessuno. Però bisogna lavorare per guadagnarsi un simile statuto. […] E non bisogna mostrarsi demotivati» (p. 31); «non lavoro per virtù, ma per non farmi notare. È ovvio, se il capo non ha bisogno di riprendermi, mi lascia in pace» (p. 65). In ogni ambito della vita, privata e lavorativa, l’obiettivo dell’io narrante sembra quindi essere quello di non richiamare l’attenzione e di rimanere solo. Gli unici contatti, brevi e impersonali, avvengono allora con colleghi, vicini e commessi dei supermercati, delle figure che compaiono tra le pagine senza diventare veri personaggi, e che non riescono a relazionarsi con lui per il suo carattere sfuggente e lo sforzo, sempre rinnovato, di passare inosservato.

Se un simile atteggiamento potrebbe far pensare a un personaggio debole, il suo stile di vita – o forse meglio la sua filosofia di vita – sembra in realtà essere scelto più che subito. A contraddistinguere questa figura, ben distante dai molti personaggi di inetti che costellano la letteratura, è l’estrema razionalità con cui osserva e si posiziona nel mondo. È proprio dalla riflessione lucida e distaccata sul suo funzionamento, più che dall’incapacità di adattarvisi, che sembra nascere la decisione di isolarsi e di rifiutare i ritmi e le consuetudini della società. Il personaggio si presenta quindi come un personaggio forte, fedele a sé stesso e alle proprie convinzioni. Parlando della sua solitudine, afferma per esempio con decisione: «Non ho segni particolari. E ringrazio tutti quelli che partecipano alla messa in scena del non riconoscersi. Benedetto anonimato. Non capisco perché ci siano sociologi che si affannano a descrivere con toni allarmanti questa società parcellizzata e incapsulata. Non mi sembra sbagliato occuparsi della propria solitudine senza tenere altri in ostaggio. L’anonimato è libertà» (p. 21). E ancora, alla fine del libro: «La solitudine è una sciagura se ti frana addosso, non se la costruisci come condizione per essere liberi di votarsi a un ideale. Ho capito che è possibile nascondersi in un mondo di sogno, popolato ad arte» (p. 121).

D’altro lato, il rifiuto delle logiche del mondo contemporaneo e dei rapporti umani non è quello di un personaggio freddo e insensibile; dietro la posizione dell’osservatore distante e solitario si intravvede infatti il dolore dovuto alla perdita della madre – la quale viene evocata, con una certa brutalità, sin dalla prima pagina («Non vorrei morire di cancro come mia madre. Una vita sbiadita nel solo dolore», p. 11) –, come pure la consapevolezza di non riuscire a sormontare le delusioni e a perdonare chi lo ha fatto soffrire. È quindi anche per evitare di provare di nuovo il sentimento di disinganno sperimentato più volte che la voce narrante si risolve a vivere con sé stessa astraendosi dal mondo e tenendo lontano da sé ciò che potrebbe causarle dolore.
Nel corso del libro prende allora forma un personaggio ricco di sfumature, che, se per la sua profondità psicologica viene delineato con grande precisione e sottigliezza, risulta d’altro lato ambiguo e poco definito per la limitatezza di informazioni che lo riguardano – il lettore non sa come si chiama, dove vive e, fino a poco prima della fine del libro, se è un uomo o una donna. Si crea così uno scarto tra l’accurata costruzione introspettiva del personaggio e l’indeterminatezza dei suoi tratti esteriori, la quale sembra rispecchiare la mancanza di peculiarità che dichiara e il suo tentativo di non farsi notare. Allo stesso modo in cui chi gli sta attorno non sa quasi nulla di lui, il lettore rimane all’oscuro di molti aspetti della sua vita, con la differenza che, seguendo le sue riflessioni, può conoscerne a fondo i pensieri e le emozioni. L’autrice riesce allora nel difficile compito di costruire un personaggio che, pur rivelando il proprio io profondo, conserva una parte di mistero.

Pure interessanti sono la sua postura e il suo modo di guardare il mondo. Esaminando con minuzia i gesti e le abitudini delle persone che lo circondano, l’io narrante adotta la posizione, tutt’altro che scontata, dell’osservatore distante. Questa sorta di filtro, di sguardo dall’esterno, che potrebbe ricordare lo scienziato che esamina la realtà attraverso una lente, è come dichiarata in un passaggio del libro in cui il personaggio si definisce come una sorta di “etologo”: «La mia però non sarebbe indagine morale, ma etologia umana» (p. 91). Se pure non mancano osservazioni pungenti, spesso sarcastiche, sulla società contemporanea e critiche molto esplicite che ne mettono in luce assurdità e disfunzionamenti – si ricorda, a titolo di esempio, il commento tagliente che fa quando parla dell’apparente benessere di cui godono gli impiegati della banca: «È più libero un pinguino in un giardino zoologico a cui hanno ricostruito attorno una parodia di banchisa polare. Ha il diritto incontestabile di tuffarsi e rituffarsi tutto il giorno nella sua vaschetta di pochi metri quadrati» (p. 32) –, lo sguardo quasi analitico del personaggio consente all’autrice di tenersi a distanza dal genere dell’invettiva o della critica polemica. Pur consegnando un ritratto lucido e penetrante della società, la riflessione serve soprattutto a definire il personaggio e a chiarire le ragioni della sua evasione nel proprio mondo interiore.

Se è quindi nei propri pensieri che l’io narrante si rifugia per astrarsi da questa realtà che osserva con distacco, la vera via di «fuga» (pp. 33, 57) è però rappresentata dalla musica, una «porta aperta verso un mondo libero, illuminato di bellezza e armonia» (p. 50). È nella musica per violino di Niccolò Paganini, vero e proprio leitmotiv che attraversa tutti i capitoli del libro, che esso trova infatti una via per «affrontare la vita» (p. 14), immergendovisi a più riprese. Nel corso del suo monologo si creano così delle sorte di pause, dei momenti di sospensione in cui l’io descrive con una lingua immaginifica e distesa i movimenti della musica e le sensazioni provate. In coincidenza con questi passaggi la lingua diventa lirica, mossa, enfatica. Si percepisce così, rispetto al linguaggio più analitico e riflessivo – anche se non certo impoetico – del resto del libro, un aumento di emotività, un innalzamento di temperatura che riesce a tradurre il significato profondo che la musica di Paganini, unica vera compagna e reale via di salvezza, ha per l’io: «Niccolò Paganini. Non cercavo un eroe, ho solo seguito un pifferaio magico, un incantatore. Un fatato oblio che mi sta esiliando in un tempo e luogo che fu, e che ho imparato a far riapparire come in un trucco da fattucchiera. La sua musica mi porta nelle sfere alte dell’esistenza, in uno spazio etereo in cui trovo ristoro» (p. 119).

È dunque una voce potente, per concludere, quella a cui Sabina Zanini dà vita nel suo primo romanzo; una voce sottile e penetrante, a un tempo fredda, animata e partecipe, che colpisce per la sua capacità di mettere in discussione i valori della società e che invita il lettore a prendere una pausa per rifugiarsi in quelle «sfere alte dell’esistenza» raggiungibili grazie al dialogo con sé stessi e con l’arte.

Link: Viceversa


© Naufraghi.ch, 27.06.2022

Una voce che dice senza parlare, e ci interroga, fra un capriccio e l’altro (di Paganini)

“A una voce” di Sabina Zanini è un esordio letterario che lascia il segno
Di Enrico Lombardi

“Apro gli occhi su un mattino appena abbozzato. Le giornate cominciano sempre alla stessa ora ma la luce diurna si accende secondo il capriccio delle stagioni. Il tragitto della Terra prosegue incurante dell’alternarsi tra riposo e veglia. Che poi questo globo ospiti uomini o dinosauri è del tutto indifferente.” Si apre così, con gli occhi di chi parla, o piuttosto pensa, un libro davvero notevole, un esordio d’eccezione per una scrittrice, Sabina Zanini, che da quasi vent’anni è giornalista alla RSI ma che solo ora ha deciso di uscire allo scoperto come autrice letteraria con il bel libro “A una voce”, edito da Gabriele Capelli e già insignito di un premio, lo Studer/Ganz 2021, destinato proprio ad un’opera d’esordio.

E che esordio! Già lo si percepisce da quelle prime righe, i primi di molti pensieri che si sommano, affastellano, si susseguono, dal mattino a notte inoltrata, e che condensano la giornata dell’io narrante, in un costante interrogarsi sulla propria inadeguatezza verso un mondo di relazioni che paiono sfuggirgli, inafferrabili.

Un personaggio talmente difficile da classificare, talmente proteso verso una sorta di volontaria e rarefatta autosufficienza, che neanche si può dire se sia un protagonista o una protagonista. Insomma, lungo le centoventi pagine di “monologo interiore”, senza un solo dialogo, fra le tante magie di una scrittura sorvegliatissima, lavorando per sottrazione, l’autrice riesce addirittura ad evitare ogni possibile aggettivo o participio che del narratore qualifichino il sesso.

Il suo protagonista è, “semplicemente” (per modo di dire) un essere umano, che vive una vita normalissima, fra piccole necessità quotidiane, un lavoro presso un istituto di credito (dove svolge diligentemente i propri compiti non per passione o piacere, ma “per non farmi notare”, che non ha alcuna vita sociale se non quella di misurarsi silenziosamente con il mondo circostante, fatto di sguardi, di chiacchiere, di banalità, cercando di non interferire, di non farsi notare.

È una sorta di “ombra”, che si muove, se deve, per sfuggire all’attenzione altrui, e, a poco a poco, con un gesto, un passo, un pensiero, pagina dopo pagina, comincia misteriosamente a camminarci accanto e ad interpellarci.

Il suo monologo interiore è fatto di osservazioni furtive come di riflessioni filosofiche, in un alternarsi di stati d’animo che sono i nostri, frutto di quotidiani rovelli, di angosce anche, come ad esempio quelle relative al rapporto con una madre che, in un decorso terribile e crudamente rievocato della malattia, con la propria scomparsa lascia il personaggio definitivamente solo, di fronte allo scandalo del degrado fisico e della nostra finitezza, fatale e inesorabile.

Calato dentro il brusìo indistinto di un mondo cui non riesce o non si sente di appartenere, l’Io narrante di rifugia appena può dentro il suono prodotto dagli auricolari con cui ascolta, incessantemente (ma con programmatico rigore) la musica di Niccolò Paganini, in particolare i “Capricci”.

La passione per il violino e per la musica rappresentano così una sorta di antidoto verso il mondo e le sue cacofonie, cui non riesce (più) ad aderire, in cui non si sente di potersi riconoscere. Non è questione di ribellione, una prospettiva del tutto assente nel suo orizzonte, ma piuttosto di progressiva ed inesorabile introversione, che per il lettore fanno del personaggio, nel suo essere ineffabile, assente, una presenza fortissima.

Il suo aggirarsi fra i corridoi e gli uffici durante le ore di lavoro, la sua costante propensione a “scomparire” dietro le carte, i dossier, per non dare fastidio, per non creare (e crearsi) imbarazzo, ne fanno una figura da cui, infine, è difficile congedarsi. Ci accompagna, forse perché è dentro (e parte di) ciascuno di noi.

“Se riuscire a rimanere soli è un’arte, ho coltivato quest’arte ai massimi livelli. Alla fine ho eliminato ogni possibilità di intesa con i miei consimili. A cercarlo colpevolmente, si trova un motivo di delusione in chiunque. Un piccolo sgarbo, o una mancanza. Quindi il mio pensiero si avvita lì, in maniera deliberata, certo, in modo che non sia possibile perdonare. E non si frequenta chi non è stato perdonato. Semplice. Ma è altresì complicato trovare sempre lieviti freschi per far prosperare queste vecchie muffe.

Beninteso, non mi lamento se anche chi ho attorno coltiva lo stesso risentimento nevrotico nei miei confronti. Preferisco non destare interesse, è più sicuro. Le indagini accendono la curiosità e la necessità di avvicinarsi. No, grazie, ci ho messo una vita a raggiungere questo grado di rarefazione.”

“A una voce” è un libro che parla di solitudine, ma lo fa senza retorica, senza compiacimenti, pietismi o autocommiserazione. Quella voce, che tanto sola forse non è, ci parla e ci interroga sul nostro essere dentro un mondo in cui si fatica a specchiarsi e a riconoscersi; un mondo che si è spinti, non di rado, a rifiutare, ma in silenzio, fra le mura di casa, in una muta consapevolezza della nostra effimera e fugace esistenza.

Link: Naufraghi


© Internazionale 03.06.2022

Segnalazione di “A una voce” – Internazionale del 03.06.2022


© LaRegione, 21.05.2022

Chiamarsi fuori: ‘A una voce’ di Sabina Zanini
Un romanzo d’esordio stupefacente su un bancario un po’ Bartleby, un po’ Fantozzi, ma con dentro un giardino incantato. E poi c’è Paganini.
di Lorenzo Erroi

Un colletto bianco apre gli occhi “su un mattino appena abbozzato” e su quel che lo aspetta. Un po’ Bartleby, un po’ Giobbe, un po’ anche Fantozzi e Gregor Samsa. L’anonimo e solitario bancario – o bancaria, vai a sapere – racconta la sua giornata-tipo come se la osservasse da dietro a un vetro, quasi non facesse parte dell’acquario che descrive e nel quale deve pur sempre nuotare, peraltro a due dita dal fondale. Ne sgorga un paradossale monologo binario, in cui al ‘fuori’ della routine, del lavoro e della corsa a ottenere chissà cosa si oppone un giardino interiore, popolato dal violino di Paganini – la playlist potete ascoltarla scansionando il QR o digitando il link qui sopra – e dischiuso da una prosa attenta a dettagli solitamente trascurati, capace di redimere una quotidianità che è sempre anche la nostra. ‘A una voce’ di Sabina Zanini, appena pubblicato da Gabriele Capelli, è un esordio stupefacente scritto all’insaputa di tutti, che si è meritato il premio Studer/Ganz 2021. Uno di quei libri che fa venir voglia di parlare con la sua autrice.

“È più libero un pinguino in un giardino zoologico a cui hanno ricostruito attorno una parodia di banchisa polare”. Nel suo romanzo breve il (la?) protagonista è lucidamente consapevole del ‘sistema’. Accetta supinamente questa “asettica messinscena digitale” nella quale riconosce “l’universo infinito della mia rassegnazione”, eppure vi si dimostra caparbiamente irriducibile: ci lavora, però non ci vive. La sua è critica sociale?

In realtà è un po’ come nei documentari naturalistici che poi guarda la sera: c’è lo spirito d’osservazione distaccato dell’etologo, quando scruta le strategie di sopravvivenza della fauna. Però non c’è un giudizio morale, semmai l’idea che “il mondo funziona così, io però cerco di restarne fuori”. Una scelta deliberata, razionale, che parte dal riconoscimento di non disporre delle armi per questa competizione, ma che non comporta un atteggiamento di lotta. L’aspetto più forte di critica – e di sofferenza – emerge piuttosto quando torna a casa e vede la sua tana minacciata dalle pretese e dalle invadenze del vicinato.

“Voglio essere la prima insignificante pedina allontanata sull’orlo della scacchiera, quella che il contendente sacrifica a cuor leggero solo per aprire un po’ il gioco”. Viene in mente il Bartleby di Melville, solerte “scrivano” d’ufficio che oppone agli incarichi il suo sommesso “preferirei di no” e alla fine si lascia morire d’inedia. Però qui non c’è neppure resistenza passiva, se non tutta interiore.

A dir la verità non ho scritto pensando a un modello in particolare: la mia titubanza nell’uscire allo scoperto scrivendo deriva anche dal fatto di aver studiato letteratura, quindi di essermi confrontata con capolavori un po’ “schiaccianti”, che inibiscono la volontà di pubblicare qualcosa di proprio. L’idea iniziale era quella di lavorare su una trama più rarefatta possibile usando lo strumento del ‘monologo’ entro il recinto di una singola giornata, per descrivere il contrasto tra la quotidianità sociale e il mondo interiore. Col senno di poi, forse un’ispirazione inconscia viene piuttosto dall’autoesilio descritto in ‘À rebours’ di Huysmans, che avevo letto da ragazza, fatte ovviamente le dovute proporzioni.

Il ‘tono’ del romanzo fa pensare a una vita rassegnata – “mi riesce più facile sognare di vivere che vivere” –, ma senza troppe tristezze. Una solitudine in cui si accetta anche la mancanza di senso, sicché, come diceva Camus, “bisogna immaginare Sisifo felice”. Possiamo chiamarlo stoicismo?

Sì, assolutamente. Il protagonista si impegna razionalmente a tenere in mano il suo destino nell’unica dimensione che ritiene di poter davvero dominare: il mondo del pensiero, che coincide con la sua identità. All’accettazione di questo sdoppiamento rimanda anche l’accenno al termine ebraico ‘chaim’, vita, la cui desinenza mi piace interpretare come un’allusione al plurale duale. I due piani dell’esistenza però non sono in contrasto schizofrenico, anche se ci può essere un aspetto un po’ nevrotico.

I riferimenti al mondo ebraico sono molteplici, specie quando il protagonista si confronta con l’assurdo.

Si tratta di vecchi ‘sedimenti’ culturali che sono riemersi mentre scrivevo, visto che si prestavano a una dimensione fondamentale del romanzo: dibattere, interrogarsi anche a costo di non venire a capo di nulla, come nel Talmud o in certe allegorie ‘in cortocircuito’ di Franz Kafka.

Nel giardino interiore regna la musica, ascoltata ad ogni occasione: colazione, pausa pranzo, piccoli intervalli rubati – in senso anch’esso musicale – alla routine d’analista di mutui, quindi dei sogni e delle illusioni di famigliole e piccoli imprenditori. Esclusivamente musica di violino, esclusivamente Paganini. Perché?

Concretamente, ho scoperto il violino dovendo seguire mia figlia a lezione fin da molto piccola. Ho accumulato volente o nolente una certa conoscenza in materia e me ne affascina l’aspetto lirico, anche ambiguo: è lo strumento che vediamo in mano agli angeli e ai demoni. Nel contesto del racconto, ho trovato che si trattasse dello strumento ideale per fare da contrasto al grigiore della quotidianità, così come Paganini – uomo di spettacolo, amante della ribalta, secondo alcuni egli stesso demoniaco – costituisce il rovescio perfetto per un’individualità per molti versi anonima, dimessa, reticente. Il suo repertorio mi ha permesso di creare riferimenti adatti a ogni momento della giornata, dai capricci per la colazione alla preghiera, passando per il moto perpetuo, fino al cantabile di congedo.

“Caino uccide il fratello e risponde sfrontatamente a Chi lo interroga. Un esordio che lascia intuire il seguito”. Un’idea di umanità che porta poco lontano: “Alla fine ho eliminato ogni possibilità di intesa con i miei consimili. A cercarlo colpevolmente, si trova un motivo di delusione in chiunque”. Siamo sicuri che il dualismo vissuto dal protagonista sia davvero ‘risolto’?

Anche in questo senso il protagonista cerca di razionalizzare il suo deliberato distacco dal prossimo, di legittimarlo. Sotto la costruzione razionale, però, resta comunque l’aspetto nevrotico del suo ritiro, che si scontra col fatto che volenti o nolenti siamo animali sociali. D’altronde le sue scelte appaiono fortemente condizionate da un trauma, la morte della madre, che descrivo nelle primissime pagine e che provoca la sua reazione: si tratta della parte di esistenza che non ha potuto controllare, alla quale reagisce con la sua scelta di vivere una vita sdoppiata.

È la scena più cruda di tutto il libro: la madre corrosa dal cancro finisce per vomitare le sue feci, “un percolato scuro”. Da lì in avanti il confronto con la caducità e la morte è costante, è l’imponderabile che fa da contrappunto al surreale autocontrollo del protagonista, e ogni volta che se ne parla sono stilettate per il lettore.

Ho fatto fatica a scrivere quelle pagine, nelle quali chiaramente parlo della morte di mia madre. D’altronde puoi inventarti tante cose, ma difficilmente puoi descrivere qualcosa del genere se non ci sei passata. Però non si trattava solo di elaborare, di ‘buttare fuori’ un dolore.

Qual è il rapporto del personaggio con la morte?

Non so se saprei dirlo davvero. Forse c’è una sorta di rassegnazione, di fatalismo. Come quando vede la gente correre e affannarsi, e pensa subito che basta una diagnosi nefasta per chiudere i loro giochi. C’è anche una sorta di pessimismo, sebbene non nichilista, e in questo la sua lucidità diventa anche un po’ castrante.

Il contrasto tra accettazione e fuga si riflette anche nelle fugaci connotazioni geografiche della storia, che d’altronde è difficile non immaginare ambientata nella Lugano delle banche, delle pause pranzo al parco, delle pensiline e degli assicuratori da palestra. “Noi dichiariamo solo abbondanza. Rannicchiati in un massiccio montagnoso, ci teniamo al riparo da qualsiasi evento”. Eppure si sogna di scappare.

Anche questo è un modo per enfatizzare il dualismo tra il mondo esterno e quello interiore. Si tratta di un desiderio di fuga mai realizzato: la tentazione di scartare dal percorso quotidiano, di allontanarsi dalla banca, si risolve in un’azione mancata. Basta un collega che chiede se si decide a entrare – l’unica brevissima interazione con un altro individuo – per risucchiare di nuovo il destino nella routine.

Una trovata geniale del romanzo: non si riesce a capire quale sia il genere del protagonista.

È una sorta di burla e mi ci sono molto divertita. Confesso che è stata dura riuscirci, visto che mi vincolava a evitare participi e aggettivi che non finissero in ‘e’. Ma mi piaceva l’idea di invogliare il lettore a confrontarsi con un individuo e basta, per quel che pensa e che prova, al netto del genere. Questo naturalmente chiama in causa anche i condizionamenti inconsci di ciascun lettore, che proietterà un genere sul personaggio anche alla luce di convinzioni e stereotipi.

Infine, lo stile: la cura del dettaglio, la generosa puntualità lessicale, sempre misurata e cesellata, diventa fondamentale per far emergere la ricchezza nascosta da una vita apparentemente banale. Dove sta il trucco?

Essendo cresciuta con genitori che non erano di madrelingua italiana, l’italiano ho dovuto impararlo piuttosto fuori casa, soprattutto leggendo. Questo mi ha portato a coltivare una lingua un po’ particolare. Nel romanzo ho cercato di giocarci per distinguere il piano della quotidianità, descritto in modo più asciutto, da quello dell’interiorità, nel quale il lessico si fa più variegato. Devo dire che è stato comunque fondamentale il lavoro dell’editor, che mi ha aiutato a liberarmi di certe artificialità e arcaismi. Lo scopo del registro, alla fine, è un po’ quello dell’opera in generale: guardare nelle minuzie, nell’infinitamente piccolo, per scoprire che non esiste una giornata davvero noiosa. E neppure una persona veramente insignificante.

Link: LaRegione


© Cooperazione n. 19, 10.05.2022

Tempo libero/Bestseller

A una voce di Sabina Zanini e Corpuscoli di Krause di Fabiano Alborghetti


© Alice, RSI RETE DUE, 23.04.2022

Intervista a Sabina Zanini
di Natascha Fioretti

Sabina Zanini, giornalista RSI, con il suo romanzo d’esordio si è aggiudicata quest’anno il Premio Studer/Ganz. Il protagonista di “A una voce” è un personaggio solitario che sceglie di vivere una vita ritirata senza velleità e ambizioni. La sua quotidianità scandita dai soliti gesti e ritmi abitudinari ha però un punto luce importante: la musica.


© La Lettrice assorta, 30.04.2022

A UNA VOCE di Sabina Zanini

Sotto lo sguardo indifferente del mondo, una donna riflette sul significato della vita a partire dalla perdita della madre. Guardata con sospetto e talvolta con compassione perchè una donna non può amare l’isolamento, descrive la banalità delle sue giornate sempre uguali e la lucidità mentale, come unico capitale. La protagonista a prima vista appare cinica, ma forse è semplicemente priva di conformismo di facciata…

Attraverso un veemente flusso di coscienza, racconta in prima persona le sue strategie per evitare il prossimo, l’isolamento e il desiderio di anonimato, concepito come lusso e libertà di osservare. L’impressione che se ne ricava è di spaccatura: da una parte l’inquietante monotonia del microcosmo che la circonda, dall’altra un pensiero travolgente e profondo.

Unica salvezza la passione per la musica classica, in particolare il violino, viaggio nel tempo e fuga presso una zona franca:

“Quando posso indossare le mie cuffie-salvagente, guardo questo ambiente dall’alto come in un’esperienza extrasensoriale di evasione dal corpo.”

Ho trovato limpide e struggenti le considerazioni della protagonista sullo stare da soli:

“La solitudine è una sciagura se ti frana addosso, non se la costruisci come condizione per essere liberi di votarsi a un ideale”.

La trovo una decisione più che legittima, soprattutto perchè operata scientemente, anche se a livello sociale genera una certa diffidenza e magari viene scambiata come segno di depressione.

Scritto molto bene, ha ottenuto il Premio Studer/Ganz 2021 per una prosa inedita d’esordio.

Link: La Lettrice assorta


© Il Quotidiano del Sud (ed. Irpinia), 30.04.2022

A una voce di Sabina Zanini


© Turné, Radiotelevisione svizzera LA1, 09.04.2022

Servizio televisivo a cura di Claudia Iseli dedicato al romanzo “A una voce” di Sabina Zanini, Premio Studer/Ganz 2021. Turné, RSI LA1, 09.04.2022.

“Per gentile autorizzazione della RSI Radiotelevisione svizzera di lingua italiana.”

© il manifesto, 06.04.2022

“A una voce” di Sabina Zanini

Link: il manifesto

2 thoughts on “Sabina Zanini “A una voce”

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