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“Merluz Vogn”
Di Isabella Visetti, giornalista RSI

In questi giorni di transizione verso l’ignoto, qualcuno ha scritto che la gran parte dei libri sembra non avere più niente da dire, solo parole in fila, di maniera, quasi menzognere. Un po’ perché la realtà che descrivevano non esiste più, un po’ perché forse si è già risvegliato qualcosa nel profondo di ognuno di noi che fa apparire tutto diverso.

Ho letto “Merluz Vogn” due volte. La prima volta con un’interruzione dovuta all’esplosione dell’emergenza Corona virus in Ticino. Quando ho ripreso in mano il libro, con testa e cuore in allarme, con il sentimento di un’apocalisse incerta e fumosa, ho scoperto che il racconto teneva, le frasi continuavano a parlarmi. E ditemi se questo non è poco. La seconda lettura l’ho fatta nel pieno della crisi e l’effetto è stato quello di avere fra le mani un’opera di fantascienza, proiettata in un futuro lontano, non in un passato scomparso.

“Merluz Vogn” – lasciamo al lettore il piacere della scoperta sul significato del titolo – parla infatti di un mondo che non c’è più e che per i giovanissimi non è mai esistito, tratteggiato in modo efficace senza nessuna concessione al passatismo nostalgico. Un mondo dove “case nuove vengono su in fretta, incalzate da chissà quale sogno improvviso”; dove lo stemmino del Liverpool è “ritagliato alla brutus da una federa lisa”; dove a cena c’è sempre caffè e latte per inzuppare il pane del giorno prima; dove il fotbal è un “jolly buono per tutte le occasioni”, ma per impararne le vere regole occorre andare allo stadio, nel borgo; dove il telefono, attaccato alla parete di una stanza sempre chiusa, non si sente e non serve a niente. Dove però serve l’atlante per individuare i luoghi da dove arrivano le cartoline del papà lontano e dove non c’è alcun supporto per dar voce al dolore dell’assenza materna, che è un buco silenzioso, in cui un undicenne potrebbe annegare e dunque cerca di starci alla larga finché ci riesce. Non c’è il ritornello “si stava meglio quando si stava peggio”, qui vibra anche quello che manca, quello che non c’è, quello che potrebbe addolcire o facilitare la vita pratica, ma anche lenire (il verbo torna spesso) la tristezza cacciata in un angolo del cuore, la paura del mostro sotto il letto, il rimpianto di un abbraccio che non c’è stato.

Terminata “la prigione della scuola”, i due protagonisti, l’io narrante – affidato alle cure dei “noni” per l’estate – e il Nandel occupano spazi di libertà con la foga di chi deve inventarsi tutto per sconfiggere la noia. Ogni giorno un’avventura dal niente: gareggiare con le barchette lungo il fiume, raccattare camere d’aria per fionde infallibili, imitare le epiche battaglie degli eroi dei fumetti del lontano West, incantarsi con narratori da bettola, ridere a crepapelle (meglio in chiesa o ai funerali: dissacranti e anticlericali senza saperlo); ammirare le gesta di Merluz Vogn, che governa una piroga in mezzo alle rapide; giocare a nascondino in piazza, per una volta anche con le bambine… E poi il dono dell’estate, il “giir dala Svizeri”, che rompe la routine di giorni sempre uguali e distribuisce gadget come “un convoglio umanitario in zone sinistrate”.
Del resto, dice il protagonista, “che cosa si poteva fare se non inventare?”. Una domanda che non è retorica ora. L’immaginazione e la fantasia, ingredienti che crescendo dimentichiamo e che sono così vividi nel libro, sono anche quelli che ci tornerebbero utili come forma di resistenza in questo presente strano. Il ricorso all’invenzione, agli espedienti dei due undicenni che “allestiscono dialoghi” e sono una fucina di idee, carica la storia di un’atmosfera straniante, in un’epoca indefinita ed eterna.

“Merluz Vogn” è anche un laboratorio linguistico originale. Merito (ma lo sappiamo già da prima di questo libro) di Giorgio Genetelli, che rifugge da quella lingua che odora di scuola di scrittura. La sua penna freme, nasce come le previsioni meteo nel libro: “osservando le nuvole e misurando il vento nei capelli”. Un’autenticità che stordisce, un’autenticità a cui contribuisce il dialetto e l’uso che Giorgio ne fa, distillandolo in gocce preziose tra le pagine, con la sapienza di chi sa maneggiare benissimo la sua forza espressiva, così fulminante e definitiva. Con coraggio, lui e l’editore sono però andati oltre, introducendo interi paragrafi dialettali. La pagina divisa in due colonne, una per accogliere la traduzione che corre in parallelo al testo italiano, senza così interrompere il flusso narrativo. Una sfida vinta, un regalo al lettore che si concretizza appieno in uno dei passaggi più forti del libro, il discorso al Brusu, “il defunto Brusu Roselli come l’esule socialista, anche se non lo sapevamo”. E così tutti possiamo rimanere “terrorizzati da un incendio di parole”, parole in dialetto pronunciate dal “nono” davanti alla bara dell’amico morto.

I capitoli, contraddistinti da un pesciolino guizzante, sono simili a scene teatrali, già pronte per essere rappresentate, perfette grazie a una narrazione essenziale e mordente. Il capitolo finale del libro è invece una poesia, una lunga poesia dove c’è tutto. Anche quel dolore da capire che nemmeno il Nandel può spiegare e che, lo sappiamo, non basta una vita per venirne a capo.


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