Begoña Feijoo Fariña Per una fetta di mela secca
Romanzo 15×21 cm, 144 pp, Euro 16,00 – ISBN 978-88-97308-90-4
Targa speciale della Giuria – Premio Stresa di narrativa 2021
Disponibile anche in versione digitale su più piattaforme.
Fra l’inizio degli anni Quaranta e quello degli anni Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. I numerosi collocamenti che avvennero in quel lunghissimo periodo interessarono bambini provenienti da famiglie povere, figli illegittimi o appartenenti a situazioni familiari precarie, ragazzi considerati difficili, scomodi o ribelli. Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni. Per una fetta di mela secca racconta la storia di una di queste bambine: Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata la storia di molti.
TRAMA. In seguito al divorzio dei genitori, Lidia resta a vivere con sua madre a Cavaione (un piccolo borgo della Svizzera orientale). Stanca delle prese in giro da parte di alcuni dei suoi compagni un giorno ruba la merenda a Piero. Accusata dai genitori di lui e a causa della povertà in cui lei e la madre vivono, viene mandata in istituto, dove subirà maltrattamenti da parte di alcune delle suore che lo gestiscono e sarà poi data in affidamento a un contadino. Nella nuova “casa” c’è anche Anne, la moglie malata e costretta a letto del contadino, unico spiraglio d’amore per Lidia. Alla morte di Anne, Lidia, ormai diciannovenne e prossima alla maggiore età, può finalmente liberarsi dall’orrore di quella vita e tornare a Cavaione. Da questo ritorno al villaggio, che ormai non sente più suo, parte il tentativo di rifarsi una vita. Con non poche difficoltà costruirà una nuova sé cercando di tenere a bada il dolore dei ricordi. Nel 2018 e in seguito all’istituzione del fondo di solidarietà istituito dalla Confederazione e dai Cantoni a sostegno di ex vittime delle cosiddette “misure coercitive a scopo assistenziale”, Lidia si troverà a dover compilare il modulo di richiesta, rievocando tutto ciò che le è stato rubato e scoprendo in sé la forza di vivere il presente.
ESTRATTO Il mio letto si trova in mezzo a molti altri letti. Sopra il materasso ci sono le lenzuola, una coperta di lana grigioverde e un piccolo cuscino. Le parole escono dalla bocca di Arietta con un’intonazione nuova. La voce è decisa e il ritmo lento. Mentre spiega compie le azioni che descrive. Poi disfa il letto e mi chiede di rifarlo. Ad ogni sbaglio mi corregge, con pazienza. Dopo vari tentativi dice brava e sorride di nuovo. E in quel sorriso io la vedo, ora per la prima volta. Il viso è grazioso, i seni sono rotondi come quelli della mamma e i capelli, rossi e ricci, raggiungono appena le spalle ossute. È magra, molto alta. Ed è bellissima. Restiamo a guardarci per qualche secondo. Fra poco scenderemo nell’ampio atrio, le altre saranno ancora in piedi e sarà in piedi anche Madre Sofia. Allora verrò istruita su tutte le altre regole della casa e accadrà attraverso un interrogatorio serrato, come un’interrogazione a scuola ma senza la grande lavagna. Madre Sofia porrà domande e le bambine risponderanno, spesso in coro. Talvolta una sola, se così vorrà chi avrà appena fatto la domanda. Alla fine dello spettacolo istruttivo mi verrà spiegato, mentre a fatica trattengo le lacrime poiché allora saprò che piangere fa parte delle cose vietate, perché sono lì. Verrà spiegato a me e ricordato a tutte le altre che siamo ragazze incivili, che abbiamo bisogno di essere istruite. Ci verranno elencati i nostri difetti e ci verrà ricordato che siamo lì perché fuori nessuno ci vuole, perché le nostre madri sono incapaci di gestire bambine così maleducate, così impure, così lontane da Dio e dalle sue leggi. Io non capirò quasi nulla di quel discorso, non quel giorno.
Biografia Begoña Feijoo Fariña. Nata a Vilanova De Arousa (Galicia, Spagna) il 7 marzo 1977, a 12 anni si trasferisce in Svizzera, dove tuttora vive. Dopo la laurea in Biologia, lavora per alcuni anni in ambito entomologico. Nel 2015 abbandona definitivamente la professione di Biologa, lascia il Ticino e si trasferisce in Valposchiavo. Da allora si dedica quasi esclusivamente a teatro e scrittura. È cofondatrice della compagnia teatrale inauDita, per cui si occupa prevalentemente di drammaturgia e regia. Ha all’attivo due romanzi: Abigail Dupont (Demian edizioni, Teramo, 2016) e Maraya (AUGH!, Viterbo, 2017). Suoi racconti sono stati pubblicati su Almanacco del Grigioni Italiano (Almanacco del Grigioni Italiano 2018, pp. 128-130) e Carie Letterarie (Speciale bianco e nero, ottobre 2019, pp. 42-46). Nel 2018 ha vinto la borsa letteraria di Pro Helvetia e il Concorso Grandi Progetti del Cantone dei Grigioni, entrambi riconoscimenti per il progetto di questo romanzo. Sempre per questo progetto è stata ospite della Residenza Franz Edelmaier per la letteratura e i diritti dell’uomo (Merano, Italia). È presidente della sezione Valposchiavo della Pro Grigioni Italiano e direttrice artistica della stagione teatrale I MONOLOGANTI di Brusio (Grigioni)
RECENSIONI/SEGNALAZIONI
© La Provincia/Cremona, 18.05.2022
Cultura e Spettacoli
3 MINUTI 1 LIBRO
Una vita rovinata «per una fetta di mela secca».
Begoña Feijoo Fariña, nata in Galizia e trasferitasi in Svizzera, racconta l’orrore di uno Stato che per 40 anni ha strappato bambini e bambine alle famiglie per “ri-educarli” in istituti paragonabili a carceri.
Di Paolo Gualandris
CREMONA – Le chiamavano «misure coercitive a scopo assistenziale» (che già in sé, come definizione, è foriera di sviluppi orribili), in realtà erano sequestri di Stato di bambine e bambini strappati alle loro famiglie, mandati in istituzioni che alle carceri non avevano nulla da invidiare. Gestite da suore, vi venivano consumate violenze inaudite ai danni degli «orfani» per forza, che spesso prevedevano anche la sterilizzazione, perché se son dissociati da bambini, non meritano certo di poter essere degli adulti prolifici, il ragionamento sotteso. Tutto questo è accaduto per quarant’anni nella «felice» Svizzera, dove tutti sapevano, ma si voltavano dall’altra parte mentre decine di migliaia di bambini venivano distrutti così.
Begoña Feijoo Fariña nata in Galizia e trasferitasi in Svizzera, racconta questo orrore nel romanzo «Per una fetta di mela secca», opera dura nei contenuti, ma non priva di delicatezza e poesia perché «questa è stata la vera sfida: rendere questa storia dura comunque ‘bella’ da leggere, perché con un po’ di delicatezza sarebbe stato più facile farla conoscere, farla ‘digerire’», come spiega lei stessa. La storia è quella di Lidia, bambina «rapita» perché aveva rubato a un compagno una fetta di mela secca (tanto bastava per venire considerati reietti dalla società «civile»!), e l’autrice la racconta nella videointervista per la rubrica «Tre minuti un libro», curata da Paolo Gualandris, in rete da oggi sul sito http://www.laprovinciacr.it.
La bella Svizzera tra gli anni ’40 e ’80 del secolo scorso rischiò di essere un grande carcere, dunque. «Esattamente questo è successo. C’era la prassi per cui i figli di famiglie povere, quasi sempre di coppie separate o divorziate, o bambini e ragazzi con problemi comportamentali venivano chiusi in istituti per rieducarli, almeno questa era la loro idea, alla giusta vita nella società svizzera o dati in custodia in adozione, senza il consenso dei genitori, ad altre famiglie. E questo ha portato spesso ad abusi fisici e sessuali». La protagonista è Lidia Scettrini, nome e storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata l’esperienza di molti. In seguito alla separazione dei genitori, resta a vivere con la madre. Stanca delle prese in giro di alcuni compagni, un giorno ruba una merenda. Una fetta di mela secca, appunto. Accusata dai genitori del bambino, e a causa della povertà in cui lei e la madre vivono, viene mandata in istituto, dove subirà maltrattamenti da parte di alcune suore e sarà poi data in affidamento a un contadino che abuserà di lei.
Lidia, ormai diciannovenne, può finalmente liberarsi dall’orrore di quella vita e tornare al suo paese per rifarsi una vita cercando di tenere a bada il dolore dei ricordi. Una storia tipo, narrata in prima persona: è solo fantasia letteraria? «Ho fatto ricerche, parlato con vittime di questa situazione, sentito testimonianze, letto libri scritti da alcune dei loro – ricorda la scrittrice -. E da tutte queste informazioni ho creato questa storia che in alcuni punti richiama delle vicende reali, in altri c’è un po’ di fantasia, ma fondamentalmente è quello che è successo». Ma davvero si poteva essere internati per aver rubacchiato una fetta di mela? «Evidentemente sì. Questo in realtà è un elemento che io ho creato perché volevo sottolineare che la causa scatenante potesse essere davvero insignificante. Chiaramente era un pretesto, perché in realtà la problematica è molto più vasta. Il furto del pezzo di mela secca diventa per le istituzioni il pretesto per dire: ma allora è vero che questa bambina non era educata bene e dobbiamo qualche modo prendercene cura noi».
L’istituto dove Lidia è stata reclusa innanzitutto si fondava sull’abuso di potere, le ragazze venivano educate a credere di non essere state desiderate a casa loro, di essere ‘sbagliate’, di dover essere purificate sulla strada di Dio per diventare buone cittadine. Per far questo si passava dalle botte, al mangiare poco, al vivere al gelo. «Ricordiamoci – spiega ancora Feijoo Fariña -, che si trattava di bambini piccoli, spesso addirittura neonati, quindi bisognosi di accudimento. Ebbene: venivano spesso abbandonati negli stanzoni senza la cura e l’amore di cui un bambino necessita anche per imparare a interfacciarsi con l’altro, a imparare l’amore verso l’altro. In realtà venivano educati in un clima di competizione e diffidenza l’uno verso l’altro; potevano essere picchiate per la minima mancanza, come una posata caduta di mano o non aver fatto bene il letto o la fila ordinata quando c’era da lavare le stoviglie. Insomma, veniva castrata la loro infanzia».
A un certo punto la Svizzera fa un esame di coscienza, il governo decide di mettere fine a questa orrenda pratica aprendo a un contributo economico alle vittime. Ci sono due aspetti che vengono raccontati nella maturità della nostra protagonista: quello del perdono e quello del valore economico assegnato al massacro personale subito. «Sono aspetti fondamentali per lo sviluppo di una serenità interiore. Il perdono è un aspetto sul quale ho riflettuto molto a lungo, e con me lo ha fatto anche Lidia, che scopre cose lungo il suo percorso. Sappiamo tutti che il perdono aiuta più chi lo concede che chi lo riceve. Lidia ha una evoluzione che la porta in qualche modo a perdonare, ma non a dimenticare. Ho avuto occasione di conoscere chi non ha mai perdonato e nel mio rapporto con queste persone mi sono detta: sarebbe meglio che si perdonasse, poi mi sono un po’ vista costretta a cambiare idea e decidere di concedere loro almeno la libertà di non perdonare».
Il contributo di solidarietà, chiamato proprio così perché non poteva essere chiamato risarcimento, è offensivo: «Lascio ai lettori la sorpresa sull’importo, ma era veramente indegno anche solo per risarcire un anno di vita. Una nuova offesa per le vittime: renderlo così irrisorio ha avuto il significato di sminuire la propria colpa istituzionale. Però è certamente disumanizzante e vergognoso». Una nuova umiliazione.
Link: La Provincia
Radio Nostra
Maurizio Nappa parla del romanzo di Begoña Feijoo Fariña “Per una fetta di mela secca”.
Dal minuto 00.56.14
Programma speciale per la giornata della memoria, con:
ALBERTO BALLARIN: assessore comunale di CavallinoTreporti.
SERGIO COSTA: Gen Carabinieri Forestali e Ex Ministro dell’Ambiente.
MAURIZIO NAPPA: “Per una fetta di mela secca”.
LORENZO GIROFFI: reporter, giornalista e regista.
MINIMAL KLEZMER: Gruppo Musicale con Enrico Milan
13^ Puntata II^ serie – del Giro del Mondo in 80 Giorni
© pappeceblog.it, 18.01.2022
L’altra faccia della Svizzera: Per una fetta di mela secca
Di Maurizio Nappa
Cosa vi viene in mente quando pensate alla Svizzera? Probabilmente, oltre a cioccolato, formaggi e orologi, la precisione dei treni e dei mezzi di trasporto in generale. Ma anche eccellenze come il CERN, le ottime università, le tante aziende impegnate della ricerca. Tutto vero. Ma la Svizzera, come qualsiasi altro Paese, ha anche i suoi lati oscuri, che vengono scoperti più facilmente quando ci si vive.
Mi capitò di imbattermi in uno di questi diversi anni fa, poco dopo il mio arrivo a Horgen. Un ragazzo, che avevo appena conosciuto, mi confidò che, da bambino, era stato tolto alla madre perché quest’ultima era povera. Era cresciuto in un istituto e, da adolescente, era stato adottato da una famiglia locale. Solo dopo la maggiore età aveva potuto incontrare la madre, che non lo aveva mai dimenticato, e ricostruire un rapporto con lei. Non feci domande, la situazione mi sembrava troppo dolorosa per chiedere, e allo stesso tempo io ero troppo estraneo per fare domande confidenziali. Devo ammettere però che non credetti a tutta la storia: doveva esserci sicuramente dell’altro, per aver tolto un bambino alla sua mamma.
Dimenticai questo episodio fino all’aprile 2013, quando, al telegiornale, ascoltai la Consigliera federale Simonetta Sommaruga scusarsi, a nome non solo del Governo elvetico ma dell’intero Paese, con le vittime delle misure coercitive a scopo assistenziale. Pronunciò, tra le altre, le seguenti parole: “Sono cose realmente accadute, ma che non dovranno accadere mai più. Perché sono ferite che non rimarginano mai del tutto; ferite insanabili”. Decisi di saperne di più, e così scoprii che, fra l’inizio degli anni ’40 e quello degli anni ’80 del XX secolo, in Svizzera c’era la prassi di affidare, contro la volontà degli interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. I bambini colpiti da questo provvedimento appartenevano a famiglie povere, oppure vivevano situazioni familiari precarie, o ancora erano figli illegittimi, o avevano semplicemente caratteri scomodi, difficili, ribelli. In altre parole, non si combatteva la povertà, ma il povero, non il disagio, ma il disagiato. Questo fenomeno prendeva il nome di “collocazione a servizio e misure coercitive a scopo assistenziale”. Molte delle vittime di tale prassi furono mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o subirono, a loro insaputa, sterilizzazioni. Una volta uscite da questo incubo, le persone raramente parlano. Perché preferiscono dimenticare? Forse, ma soprattutto perché hanno sviluppato un forte senso di colpa (sei un bambino cattivo, perciò tua madre non ti ha voluto) fin dalla tenera età. Pensano che ci sia qualcosa di sbagliato in loro, si vergognano, e pertanto preferiscono tacere.
Per fortuna ne ha parlato Begoña Feijoo Fariña, scrittrice spagnola, che vive in Svizzera fin dall’età di dodici anni. Con il suo libro “Per una fetta di mela secca”, pubblicato dall’editore Gabriele Capelli, ha dato luce a questi drammi nascosti o dimenticati. L’autrice non ha riportato testimonianze, così difficili da condividere, ma ha messo in un romanzo le disavventure patite dalle diverse vittime raccontando la storia di una di loro, Lidia Scettrini, personaggio inventato che rappresenta tutti. Lidia nasce e cresce nel canton Grigioni, amata da entrambi i genitori, che conducono una vita povera ma dignitosa. Il rapporto tra i suoi genitori dopo qualche anno si esaurisce, e così di Lidia si occupa solo la mamma. A scuola, Lidia viene continuamente presa in giro perché figlia di divorziati; un giorno, per vendicarsi, decide di rubare, a uno dei compagni che più la prendono in giro, il fazzoletto con la sua merenda. In realtà il bambino ha già mangiato la merenda, e nel fazzoletto è rimasta solo una fetta di mela secca. La marachella di Lidia viene comunque riportata al preside, che la denuncia alle autorità. E’ per una fetta di mela secca che Lidia viene allontanata dalla madre. Crescerà in un istituto, e poi verrà mandata a servizio in casa di un contadino; dovrebbe occuparsi principalmente della moglie, che giace a letto malata, ma leggendo il libro scopriremo che non sarà così.
Non vi racconto tutti i dettagli dell’infanzia e dell’adolescenza di Lidia, ma vi invito a leggere questo libro, per diversi motivi: dal punto di vista letterario, per la scrittura limpida e scorrevole, ma anche perché, attraverso un romanzo, si viene a scoprire una pagina nera della storia elvetica, che va assolutamente conosciuta, per evitare di ripetere gli stessi errori in futuro. Soprattutto, questo libro va letto per quello che scrive Fabiano Alborghetti in apertura: “E dicendo di quell’uno, di quanti altri avrai parlato?”
Link: pappeceblog.it
Premio Stresa di narrativa 2021
Le Targhe speciali della giuria
La Giuria dei Critici ha deciso di attribuire una “targa speciale” a:
“Per una fetta di mela secca” di Begoña Feijoo Fariña – Gabriele Capelli
editore – Mendrisio (Svizzera)
© L’Adigetto.it, 14.07.2021
Begona Feijoo Farina, «Per una fetta di mela secca» – La sua scrittura è rigorosa: ogni periodo è costruito affinché incida nella mente di chi legge
di Luciana Grillo
Titolo: Per una fetta di mela secca
Autrice: Begoña Feijoó Fariña
Editore: GCE 2020
Genere: Letteratura contemporanea, dopo il 1945
Pagine: 144, Rilegato
Prezzo di copertina: € 16
Pochi romanzi mi hanno coinvolto emotivamente e mi hanno fatto riflettere sulla malvagità umana come questo che racconta la storia amara di una bambina strappata alla madre (scandalosamente divorziata, in realtà abbandonata dal marito) e, con la scusa del furto di una fetta di mela secca e di un fazzoletto, affidata alle cure – si fa per dire – di suore che accoglievano nei loro squallidi istituti bambini difficili, di famiglie povere o illegittimi.
Negli ultimi anni, indagini, ricerche, film hanno mostrato di cosa fossero capaci gli adulti che vedevano in questi ragazzi sventurati soltanto individui da umiliare, da sfruttare, persino da sterilizzare perché potessero subire violenze senza la conseguenza di una gravidanza.
Lidia Scettrini è la protagonista, una bambina che ha visto il padre abbandonare sua madre, che ha capito la riprovazione dei paesani ed ha accettato l’isolamento che la mamma le ha proposto.
Ha intuito la sofferenza di sua madre, e a lei si è legata ancora di più…negli anni successivi ricorderà i gesti affettuosi, le canzoni che cantavano insieme, le torte che preparavano, gli abbracci e i sorrisi della sua mamma.
Poi, lo strappo: «Mamma urla contro un uomo che, con un quaderno in mano, gira per la nostra casa e scrive… scrive nell’aia, scrive in cucina, scrive davanti al sempre più piccolo mucchio di legna e scrive anche guardando me…allora faccio un’altra cosa che so che non dovrei fare. Vado sotto la finestra della cucina e ascolto. E mentre lo faccio sono certa che mamma sa che sto ascoltando, perché non urla. Ascolta, prova a ribattere e implora, ma non urla più…e così facendo m’insegna ancora una volta che non si possono combattere le battaglie perse».
Suor Margherita la accompagna nella sua nuova casa, Arietta – una ragazza più grande di lei – le dice: «non dire mai di no. Non rispondere, non disubbidire. Non sporcare il letto… non chiedere altro cibo», Madre Sofia è nell’atrio, istruisce le ragazze ripetendo «che siamo ragazze incivili, che abbiamo bisogno di essere istruite… che siamo lì perché nessuno ci vuole, perché le nostre madri sono incapaci di gestire bambine così maleducate, così impure, così lontane da Dio e dalle sue leggi».
Per Lidia comincia la discesa all’inferno, nonostante padre Giovanni quattro volte al giorno vada a benedire le ragazze.
Lidia si guarda intorno, fa amicizia con il cane Shatten dandogli un pezzo di pane, nonostante abbia fame; cuce, rammenda, attacca e stacca bottoni velocemente e aiuta la tenera Piera dalle piccole mani; va a giocare con Shatten insieme ad Arietta.
Intanto, passano gli anni, a volte Lidia è punita severamente, è picchiata, è costretta a trascorrere la notte insieme ai maiali, anche se ha imparato a obbedire: «Sono disciplinata, non per paura, per tristezza, per fame e forse per intelligenza, o furbizia, come dice suor Margherita… mai mi sono lamentata… mai ho risposto in modo irrispettoso».
Quando diventa grande, viene affidata a Robert perché si occupi di sua moglie malata; in realtà deve occuparsi di tutto, casa stalle cucina, e anche di quell’uomo rozzo che abusa di lei.
Unico conforto è sapere che Anna, benché allettata e apparentemente incosciente, le sorride e qualche volta, con una lacrima, le dimostra la sua comprensione.
Alla morte di Anna, Robert la manda via e Lidia ritorna a casa.
Tutto è cambiato, la mamma è morta, ma altre persone la accolgono e la sua abilità nel cucito le permette di conquistare l’indipendenza e di affittare una piccola casa.
Non che tutto sia passato e dimenticato, però, sente un vuoto incolmabile, si rimpinza di cibo e vomita: «illusione di cibo fra i denti, giù per la gola, dentro lo stomaco. Riempirmi lentamente e lentamente riempire ogni vuoto che hanno creato in me. Il vuoto dell’amore da riempire con il cibo, il vuoto del rispetto da riempire con il cibo, il vuoto dell’autostima da riempire con il cibo. Cibo che crea altro vuoto. Corrode. Annulla la volontà… Il vuoto di una madre andata, senza la possibilità di un ultimo saluto…»
Una caduta casuale nel bosco le cambia la vita… e per Lidia finalmente la vita diventa degna di essere vissuta.
L’autrice, nata in Spagna, vive ora in Svizzera, è biologa, ma ama scrivere e occuparsi di teatro. La sua scrittura è rigorosa, ogni periodo è costruito perché incida nella mente di chi legge.
Link: L’Adigetto
© Vivo perché leggo, 30.06.2021
Per una fetta di mela secca
A cura di Maristella Copula
Autore: Begoña Feijoó Fariña
Genere: Narrativa
Pagine: 144
Data di pubblicazione: 2020
Casa editrice: GCE
“Fra gli anni Quaranta e Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare – contro la volontà dei diretti interessati – bambini e giovani a istituti o contadini. Molte delle vittime di tali decisioni sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito sterilizzazioni.” Questa è la storia di Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata l’esperienza di molti. In seguito al divorzio dei genitori, Lidia resta a vivere con sua madre a Cavaione. Stanca delle prese in giro da parte di alcuni suoi compagni un giorno ruba la merenda a Piero. Accusata dai genitori del bambino – e a causa della povertà in cui lei e la madre vivono – viene mandata in istituto, dove subirà maltrattamenti da parte di alcune suore e sarà poi data in affidamento a un contadino. Nella nuova “casa” c’è anche Anne, la moglie malata del contadino, unico spiraglio d’amore per Lidia. Alla morte di Anne, Lidia, ormai diciannovenne, può finalmente liberarsi dall’orrore di quella vita e tornare a Cavaione per rifarsi una vita cercando di tenere a bada il dolore dei ricordi.
Tra gli anni quaranta e gli anni ottanta del XX secolo, in Svizzera, erano state stabilite delle “misure coercitive a scopo assistenziale” che lo Stato elargiva, pensando di far bene, a tanti bambini e adolescenti che per vari motivi (povertà, inadeguatezza educativa, divorzio o perdita dei genitori, ribellioni o accuse spesso inesistenti) venivano strappati alla famiglia d’origine per essere condotti, contro ogni loro volontà, in istituti religiosi, penitenziari o psichiatrici e da qui mandati a servizio presso aziende agricole e/o sottoposti ad adozioni forzate.
Tanti di questi bambini, troppi, trovarono non un aiuto ma un’infanzia negata, piena di orrori e umiliazioni, di ingiustizie e di punizioni dure e ingiustificate.
Talmente esteso fu il fenomeno, talmente ignorate le nefandezze commesse a danno di questi bambini, spesso molto piccoli, che la Consigliera federale Simonetta Sommaruga, a nome del governo svizzero, porse nel 2013 le scuse per le tante atrocità da loro subite insieme ad un risarcimento monetario, facendo il primo passo per un’approfondita ricerca e ricostruzione di questa triste pagina del Paese, comprensiva dei tanti aspetti giuridici, storici e finanziari di competenza.
In “Per una fetta di mela secca” (Gabriele Capelli Editore 2020), l’autrice Feijoo Fariña Begoña, nata in Spagna nel 1977 ma residente in Svizzera dall’età di 12 anni, racconta la storia di una bambina di Cavaione (borgo della Svizzera orientale), Lidia Scettrini, un nome di fantasia che darà però voce a quello che migliaia di altri bambini sopportarono.
Scopriremo la terribile storia di Lidia fin da bambina, i danni fisici e morali subiti, il suo divenire giovane donna e poi adulta sempre più in lotta con un passato che le divora l’anima e di cui non riesce a scacciare i fantasmi che la inseguiranno senza sosta per tutta la vita.
Picchiata, offesa, profanata, violentata fisicamente e a sua insaputa privata della sua femminilità più profonda, Lidia dovrà piano piano reagire per ricostruirsi e ricostruire, anche quando si troverà finalmente libera nel mondo sentendo ancora tirare le corde di un destino e di una vita passata in cui anche “Dio non c’è o ha deciso di non esserci”.
Libro bello e coinvolgente, scritto con uno stile pulito e agevole, talvolta venato di tocchi di pura poesia ma realisticamente ancorato alla realtà dei fatti agghiaccianti che racconta, è un pugno nello stomaco per una colpa che è di tutti (nessuno ha visto, nessuno ha parlato, nessuno ha controllato) ma che inevitabilmente, essendo di tutti, si trasforma in una colpa di nessuno.
Link: Vivo perché leggo
© Corriere del Ticino, 02.03.2021
Se l’innocenza non basta
Il nuovo struggente libro di Begoña Feijoo Fariña trascina il lettore nella devastante esperienza vissuta da una donna vittima delle “misure coercitive a scopo assistenziale” che pesano sulla coscienza svizzera del Novecento.
di Luca Orsenigo
Questo è un romanzo bellissimo. Si potrebbe dire un romanzo che unisce il vero, l’utile e l’interessante se con ciò, per quanto in realtà sia proprio così, non ci si nascondesse dietro una scontata formula manzoniana.
E allora diciamo ancor più semplicemente che ascoltare una storia – e che razza di storia, questa – è la maniera più intelligente per capire se stessi e il mondo che ci circonda: saper ascoltare è la conditio sine qua non di ogni dialogo sincero e profondo, sia che si tratti di prestare orecchio all’interior intimo nostro, sia che si dia spazio alla voce dell’altro da noi.
E qui, in questo Per una fetta di mela secca, l’arte di Begoña Fariña non solo ascolta e non imita la vita, ma la interroga e si fa narrazione di lei. L’una si nutre dell’altra e la storia, vera, verissima, più che verosimile, riassume in una sola vicenda le tante uguali che ancora bruciano sulla pelle di molti e condannano coloro che le hanno permesse.
Siamo infatti dalle parti del non sapevo e del non credevo, il che, dopo gli orrori del secolo breve, non si può neppure pensare senza farsi complici di quelle nefandezze. Alla fine del romanzo viene infatti da domandarsi quale mente perversa, quale lucida pedagogia alla Pol Pot abbia partorito un simile piano di «misure coercitive a scopo assistenziale» per i bambini della Confederazione, coniando tra l’altro un ossimoro che dovrebbe scuotere la coscienza al solo pronunciarlo. Del resto, la vicenda di Lidia Scettrini, tra spersonalizzazione e malnutrizione, sterilizzazioni e abusi sessuali, carnefici e indifferenti, ricorda altre e ancor più tragiche vicende della Storia.
Una sorta di voragine che tutto inghiotte. La voragine dell’abitudine a distogliere lo sguardo e la voragine del giudizio perbenista. «Le ingiustizie sono ovunque nel mondo, le compie anche chi crede di volerci fare del bene. O forse è solo una maschera dietro cui si nascondono. Portare via una figlia a una madre perché il mucchio della legna non è abbastanza alto da resistere fino alla fine dell’inverno? Portargliela via perché i suoi vestiti non sono abbastanza puliti? O solo perché la bambina giorni prima ha rubato una fetta di mela secca? No, non è per questo che l’hanno fatto. L’hanno fatto solo perché qualcuno ha potuto farlo e nessuno si è opposto. Perché a qualcuno non piaceva che mamma fosse divorziata, povera e ribelle». Gli avvenimenti sono facili da riassumere nella loro logica malvagia e
persecutoria.
Terra di nessuno
Lidia vive a Cavaione, un villaggio della Valposchiavo, nei pressi di Brusio. E già questo – sia detto per inciso – è segnale di diversità, trattandosi di una comunità che ancora dopo la metà del XIX secolo non era né italiana né svizzera. Il padre poi abbandona la moglie e si trasferisce altrove, lasciando Lidia e sua madre povere e preda delle maldicenze. Due donne sole e per di più povere, qualche peccato devono averlo ben commesso, no? Se poi come avviene a causa dei continui sberleffi dei compagni, Lidia ruba una fetta di mela secca ad un altro bambino, il teorema ha una sua definitiva dimostrazione: la madre incapace di educare, la figlia abbandonata a se stessa, preda degli istinti più aberranti.
Da qui inizia il calvario delle misure di assistenza, coercitive of course. Prima in un istituto diretto da suore non meglio identificate, presso le quali sembra di assistere alla pantomima inscenata nei campi di concentramento a favore degli ispettori della Croce Rossa e qui invece a beneficio degli ispettori governativi che dovrebbero vigilare sulla correttezza e l’utilità di quelle misure decise arbitrariamente. È per loro infatti che le sorelle allestiscono un castello di falsità, mentre magari Lidia e compagne sono castigate, per un sì o per un no, a trascorrere notti nel porcile dell’istituto. Poi, all’età di quattordici anni, Lidia è assegnata all’amorevole educazione di una famiglia contadina presso la quale viene ripetutamente abusata e trattata come nemmeno un cane alla catena, letteralmente, salvo poi doversi occupare della moglie del proprietario gravemente ammalata, unico momento di quella cupa vita di internata, in cui fa capolino un briciolo di umanità. E infine certo, con la maggiore età, arriva anche la libertà. E con questa il ritorno a Cavaione. La scoperta della morte della mamma, mai incontrata in tutto l’arco della rieducazione forzata. La conoscenza della compagna del padre, anch’egli ormai morto, al quale era stato impedito di rivedere l’unica figlia. La faticosa ricostruzione di una vita sulle le macerie della buona educazione. E finalmente un amore. Un amore adulto e rispettoso, gratuito e inaspettato.
Ma non ci si azzardi a dire che se la storia è cominciata male, alla fine è andato tutto bene. Non si tratta di commedia, ma di vita vera. Non solo per la Lidia del romanzo, ma per i tanti giovani che hanno subito queste misure coercitive a scopo assistenziale, per il semplice fatto che «il mondo fuori dalla porta pensa che se sei stato punito hai commesso degli errori. Il mondo fuori dalla porta vuole credere che la giustizia, per il nome che porta, sia giusta».
Link: CdT
© Il Passaparola dei Libri, 22.02.2021
PER UNA FETTA DI MELA SECCA Feijoo Fariña Begoña
di Maristella Copula
Tra gli anni quaranta e gli anni ottanta del XX secolo, in Svizzera, erano state stabilite delle “misure coercitive a scopo assistenziale” che lo Stato elargiva, pensando di far bene, a tanti bambini e adolescenti che per vari motivi (povertà, inadeguatezza educativa, divorzio o perdita dei genitori, ribellioni o accuse spesso inesistenti) venivano strappati alla famiglia d’origine per essere condotti, contro ogni loro volontà, in istituti religiosi, penitenziari o psichiatrici e da qui mandati a servizio presso aziende agricole e/o sottoposti ad adozioni forzate.
Tanti di questi bambini, troppi, trovarono non un aiuto ma un’infanzia negata, piena di orrori e umiliazioni, di ingiustizie e di punizioni dure e ingiustificate.
Talmente esteso fu il fenomeno, talmente ignorate le nefandezze commesse a danno di questi bambini, spesso molto piccoli, che la Consigliera federale Simonetta Sommaruga, a nome del governo svizzero, porse nel 2013 le scuse per le tante atrocità da loro subite insieme ad un risarcimento monetario, facendo il primo passo per un’approfondita ricerca e ricostruzione di questa triste pagina del Paese, comprensiva dei tanti aspetti giuridici, storici e finanziari di competenza.
In “Per una fetta di mela secca” (Gabriele Capelli Editore 2020), l’autrice Feijoo Fariña Begoña, nata in Spagna nel 1977 ma residente in Svizzera dall’età di 12 anni, racconta la storia di una bambina di Cavaione (borgo della Svizzera orientale), Lidia Scettrini, un nome di fantasia che darà però voce a quello che migliaia di altri bambini sopportarono.
Scopriremo la terribile storia di Lidia fin da bambina, i danni fisici e morali subiti, il suo divenire giovane donna e poi adulta sempre più in lotta con un passato che le divora l’anima e di cui non riesce a scacciare i fantasmi che la inseguiranno senza sosta per tutta la vita.
Picchiata, offesa, profanata, violentata fisicamente e a sua insaputa privata della sua femminilità più profonda, Lidia dovrà piano piano reagire per ricostruirsi e ricostruire, anche quando si troverà finalmente libera nel mondo sentendo ancora tirare le corde di un destino e di una vita passata in cui anche “Dio non c’è o ha deciso di non esserci”.
Libro bello e coinvolgente, scritto con uno stile pulito e agevole, talvolta venato di tocchi di pura poesia ma realisticamente ancorato alla realtà dei fatti agghiaccianti che racconta, è un pugno nello stomaco per una colpa che è di tutti (nessuno ha visto, nessuno ha parlato, nessuno ha controllato) ma che inevitabilmente, essendo di tutti, si trasforma in una colpa di nessuno.
Link: Ilpassaparoladeilibri
© Mangialibri, 15.02.2021
Per una fetta di mela secca, Begoña Feijoo Fariña
Articolo di: Alessia Bellebuono
La prima neve della stagione si presenta all’inizio di novembre proprio quando Lidia, sebbene prematura, nasce. I primi anni della sua vita sono caratterizzati da un sentimento di felicità misto al tormento: i giorni trascorsi con la madre riempiono i suoi ricordi di dolcezza e dell’inconfondibile odore del suo pane di segale, ma quando il padre decide di andarsene di casa e chiedere il divorzio le cose iniziano a cambiare.
La bambina sconta le conseguenze di questa situazione a scuola: improvvisamente i suoi amici si allontanano, nessuno vuole più giocare con lei, neanche Renata, la sua migliore amica e il maestro la incolpa e la mette in punizione per qualsiasi motivo. Una volta durante la lezione Lidia prende di nascondo dalla borsa del suo compagno Piero il fazzoletto con la sua merenda: al suo interno c’è solo una fetta di mela secca. La bambina viene additata come ladra, e anche la madre viene messa sotto accusa per non riuscire a crescere la figlia con i giusti valori.
Il prezzo da pagare è altissimo: Lidia viene allontanata dal suo paese e viene spedita in un istituto diretto da alcune suore. Qui è sottoposta a trattamenti coercitivi e violenti che privano di dignità i bambini presenti e che hanno lo scopo di farli sentire indegni di ogni privilegio. Il loro destino sarà quello di essere affidati a delle famiglie e quindi non rivedranno mai più i loro genitori. Lidia deve riuscire a sopravvivere a tutto questo orrore…
Per una fetta di mela secca è una forte testimonianza raccolta dalle varie esperienze di quelle persone che, nella Svizzera degli anni Ottanta, sono state sottoposte a misure coercitive a scopo assistenziale e addirittura a sterilizzazioni. Lidia dà voce a tutti loro.
I principali destinatari di queste atrocità erano i bambini poveri o illegittimi che quindi erano stati sottratti alle loro famiglie d’origine per essere “riformati”. In questi istituti i bambini entrano in un mondo alternativo dove le regole comuni non valgono: perciò qui è ammesso far passare la notte ad un bambino ribelle in una gelida stalla insieme agli animali affamati. In questo modo il passato non rimane tale ma si ripercuote prepotentemente e senza pietà anche sul presente della vittima, incapace ora di vivere una vita normale. È il prezzo da pagare per essere stati considerati diversi o inadatti per la società, per aver osato alzare la testa e reagire ad un’ingiustizia.
La protagonista, Lidia Scettrini, afferma di essere stata concepita e di essere nata con la neve, nello stesso clima freddo e gelido che ritroverà spesso nella sua vita. La violenza, la solitudine, la vergogna, la voglia di fuggire e la paura sono le caratteristiche principali della sua infanzia.
Nel 2013 Simonetta Sommaruga, consigliera federale della Svizzera, tenne un discorso durante un evento commemorativo chiedendo perdono a nome del governo per le atrocità commesse in questi istituti. Ma al di là di ogni parola rimangono solo quelle ferite insanabili di quell’infanzia violata che nessuno potrà mai restituire.
Link: Mangialibri
© Rocca, anno 80° – 15.01.2021
Begoña Feijoo Fariña
Per una fetta di mela secca
Di Agata Diakoviez
«E dicendo di quell’uno/di quanti altri avrai parlato?».
Questo verso di Fabiano Alborghetti è stato scelto da Begoña Feijoo Fariña come esergo alla storia di Lidia Scettrini, una bambina svizzera, vittima delle misure coercitive a scopo assistenziale che in Svizzera, fino al 1981, hanno permesso nefandezze e obbrobri ai danni di bambine e bambini.
Lidia è stata una bambina che ha pagato con tutto il suo corpo per qualcosa che non sapeva potesse essere una sua colpa, la povertà e le scelte dei grandi.
Il suo papà lascia la sua mamma per un’altra donna. La sua mamma è presto stigmatizzata per la sua condizione di divorziata, di donna che non cerca né pietà, né aiuto. Non riceve alcun sostegno economico ma solo giudizi che come trincee invisibili le precludono una vita normale, per sé e sua figlia.
Presto Lidia diviene solo la figlia della divorziata. Sarà inghiottita in quel buco nero in cui sono cacciati quelli che in qualche modo rappresentano una minaccia alla linearità dell’idea comune della vita. Bullizzata da Pietro, un suo piccolo compagno di scuola, cui sottrae una mattina «una fetta di mela secca», pagherà con tutta la sua vita quella fetta di mela secca. Sottratta per dispetto e rabbia e pagata con la fame cui sarà condannata.
Fame di bene, di carezze e parole. Per più di quarant’anni in Svizzera i bambini provenienti da famiglie povere, i ragazzi ribelli, quelli difficili, venivano tolti alle loro famiglie per essere collocati in istituti o presso contadini che ne facevano lavoranti senza diritti, schiavi e, se ragazze, erano costrette a subire violenze sessuali. Bisognerà attendere il 1981 perché questo «sostegno» immondo avesse fine e per iniziare a sapere e conoscere quel che accadeva a quei bambini. Le bambine erano a volte anche sterilizzate a loro insaputa, ridotte in schiavitù, subivano punizioni tremende: bastava poco per vedersi negare pasti miserabili, o per essere costretti a dormire in una stalla con una scrofa che protegge i suoi piccoli. La notte era più lunga del giorno.
La Svizzera ha scelto di fare i conti con questo capitolo orrendo della sua storia recente. Sono state approvate delle misure di sostegno psicologico ed economico per l’indennizzo delle vittime di questi collocamenti, che non potranno certamente ripagarli, né cancellare le cicatrici.
Certo, conoscere quel che è stato, potrà aiutare a riconoscere gli errori che si fanno e che non possiamo permetterci come uomini.
È una storia, quella narrata da Begoña Feijoo Fariña, la storia di una bambina che racconta la storia di tanti bambini vissuti in Svizzera.
Link: Rocca
© Rockerilla 485, 01/2021
Per una fetta di mela secca di Begoña Feijoo Fariña
Link: Rockerilla
© L’Indice dei libri del mese, n. 1, gennaio 2021
Sbagliate e sporche
di Silvia Nugara
Link: L’Indice dei libri del mese
© Almanacco del Grigioni Italiano, pp 153,154,155 – Pgi
La profonda ferita dell’internamento amministrativo
Di Fabrizio Lardi
Con un’intervista a Begoña Feijoo Fariña
Si ringrazia la Pgi per le immagine riprodotte.
Link: Almanacco del Grigioni Italiano
© Alice, RSI RETE DUE, 28.11.2020
Ogni famiglia infelice
di Yari Bernasconi
[…] Sarà anche un’occasione per esplorare la dimensione impegnata, della letteratura, con Begoña Feijoo Fariña (Per una fetta di mela secca) […]
Come vuole il famoso incipit di “Anna Karenina”, “ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. Così, quasi naturalmente, “Alice” si troverà in questa puntata fra le maglie di storie familiari più o meno infelici, dall’imponente romanzo “Noi” di Paolo Di Stefano a “Borgo Sud” di Donatella Di Pietrantonio, una sorta di seguito del suo acclamato “L’arminuta”, del 2017. Sarà anche un’occasione per esplorare la dimensione impegnata, della letteratura, con Begoña Feijoo Fariña da una parte e Roberto Saviano dall’altra, ricordando insieme a Stanisław Lem (1921-2006) e a Francesco Cataluccio che la letteratura parla di noi anche quando ci guarda da altre galassie.
Link: Alice
© La bottega dei libri, 26.11.2020
Recensione: “Per una fetta di mela secca” di Begona Feijoo Farina, Gabriele Capelli Editore
di Beatrice Castelli
Fra l’inizio degli anni Quaranta e quello degli anni Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. I numerosi collocamenti che avvennero in quel lunghissimo periodo interessarono bambini provenienti da famiglie povere, figli illegittimi o appartenenti a situazioni familiari precarie, ragazzi considerati difficili, scomodi o ribelli.
Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni.
“Non volendo rincasare subito, e nonostante il freddo, tuo padre decise di darmi il seme da cui saresti nata e io lo accettai e cominciai ad avere cura di te, come si fa con i germogli nell’orto in primavera.”
Lidia Scettrini è ancora una bambina quando viene strappata via da sua mamma dai servizi sociali, per aver rubato un pezzo di mela ad un suo compagno di classe e soprattutto perché figlia di genitori separati, dunque secondo le leggi di quell’epoca, inadatti a crescere una bambina nel modo appropriato. Inoltre la situazione economica della mamma viene riconosciuta insufficiente per poter prendersi cura di una bambina.
Lidia viene tolta dalla madre senza nessun riguardo e portata via in un orfanotrofio gestito da suore malvagie. L’orfanotrofio è popolato da bambini rifiutati dalle madri oppure da famiglie giudicate troppo povere o inadatte da poter farli crescere adeguatamente. In questo luogo freddo e inospitale, cibo e affetto scarseggiano; i bimbi ritenuti più grandi hanno l’obbligo di non piangere mai, non dire mai di no, non sporcare il letto….
I neonati vengono lasciati piangere, attaccati al biberon e ignorati fin quando qualcuno si accorge di loro. L’unica atmosfera che avvolge l’istituto è la tristezza infinita di ogni bambino e la nostalgia di casa.
Bambine addestrate come soldati eternamente in fila, da suore senza scrupoli convinte di lavarsi la coscienza durante le ore dedicate alla messa. In quell’orribile posto, le bambine sono private di ogni cosa, sia fisica che umana e rese disciplinate solo per paura delle botte… ignare che ad attendere ognuna di loro c’è anche l’atroce e irreversibile sterilizzazione, sfregio eterno nella loro esistenza.
Se hai paura delle botte è difficile ridere, anche di fronte alle cose buffe.
Le punizioni per le disobbedienze sono disumane; la fame, il freddo, l’essere derise e le percosse sono all’ordine del giorno e la piccola Lidia deve imparare presto le dure leggi di questa sua nuova vita, anche se in cuor suo vive sempre la speranza di poter presto ritornare dalla sua mamma, fino al giorno in cui tutte le ragazze dell’istituto, raggiunta un’età giudicata “adeguata” saranno consegnate a famiglie per lavori domestici e dove continueranno ad essere maltrattate e persino violentate. La stessa sorte toccherà a Lidia la quale coraggiosamente affronterà questo suo percorso di vita… riuscendo in età adulta a ritornare nei luoghi della sua infanzia. Purtroppo la sua mente resterà definitivamente ferita con cassetti difficili da chiudere, chiedendosi se tutti questi anni di brutture siano state giustamente meritate per aver rubato una fetta di mela secca.
Grazie alla sua notevole maestria, l’autrice proietta il lettore sin dalle prime righe, nel mondo di Lidia, coinvolgendolo totalmente, facendogli provare la tristezza, l’angoscia di un percorso difficile da vivere.
Un racconto intelligente, minuziosamente curato in tutta la sua struttura, uno stile narrativo crudo, commovente e a dir poco impeccabile. Con grande capacità, l’autrice ci presenta una concreta e triste realtà non troppo lontana dai giorni nostri, sotto forma di racconto brillante dalla forma raffinata e dal forte impatto emotivo.
Tutti i personaggi sono molto ben costruiti e l’autrice arriva nel cuore e nell’animo del lettore provocando rabbia, tristezza infinita ma anche grande speranza dettata dall’intelligenza della protagonista.
L’autrice
Begoña Feijoo Fariña, nata a Vilanova de Arousa, nel nordovest della Spagna, vive in Svizzera dall’età di 12 anni ed è laureata in scienze biologiche. Trasferitasi a Brusio nel 2015, ha fondato, con Chiara Balsarini, la compagnia «inauDita» e ha pubblicato il suo primo libro, una raccolta di racconti dal titolo “Potere possesso dello Zahir e altre storie”. Nel corso del 2018 Begoña ha ricevuto la borsa letteraria della Fondazione Pro Helvetia, è stata nominata organizzatrice di eventi in seno alla commissione Casa Besta del Comune di Brusio, ha collaborato con la Pgi per la rappresentazione di alcuni spettacoli teatrali per e con ragazzi, sta curando la rassegna teatrale “i monologanti”, e recentemente ha messo in scena la pièce “Maraya, dell’amore e della forza”, di cui è autrice e attrice unica.
Link: La bottega dei libri
© Leggere distopico, 22.11.2020
Distopie Sociali
Recensione: “Per una fetta di mela secca” di Begoña Feijoo Fariña.
Di Elisa R
Recensione:
Oggi si aggiunge un nuovo romanzo alla nostra rubrica “Distopie sociali”.
Stavolta – solo per voi di Leggere Distopico – sono uscita dalla mia rassicurante confort-zone, perché, dovete sapere, quando si parla di storie di vita vera ho come una sorta di “avversione”. Preferisco puntare sulle storie di fantasia che seppur capaci di sconvolgere ho la piena consapevolezza che siano il frutto di una fervida immaginazione.
Sono stata seminata con il freddo e con il buio ed è con il freddo e con il buio che avrei dovuto fare i conti per molto tempo.
Lidia ha appena sette anni quando la sua vita raggiungerà il punto di rottura e tutto avrà inizio “Per una fetta di mela secca”.
Ripercorrendo passo dopo passo le tappe fondamentali della sua esistenza a partire dalle umilissimi origini, agli anni passati in collegio – caratterizzati da miseria e crudeltà – per essere poi affidata a una coppia di contadini e così via. Narra di quelle punizioni impietose e umilianti, spesso violente, che hanno irrimediabilmente lasciato un trauma, del suo tornare con la mente al passato, al ricordo dolce e rincuorante di sua madre, della voglia di ricercare la propria identità e il suo posto nel mondo. Riscattarsi in qualche modo e cercare di riprendersi ciò che le è stato tolto.
In questo caso, Begoña Feijoo Fariña prende in prestito la voce magnetica di Lidia Scettrini; un personaggio sì di fantasia, ma del quale si serve per raccontare un’altra pagina nera di storia che non tutti conoscono. Quanto uno Stato che ruba la dignità delle donne e smembra le famiglie, vantandosi di nobili intenti non tenendo conto della scia di devastazione emotiva e non che si lasciava dietro, abbia incentivato la cattiveria dell’uomo.
Un romanzo – a metà tra cronaca e buildungsroman – che spicca per la misuratezza tanto nello stile quanto nel contenuto, tratta sì di temi forti ma senza mai valicare quel sottile confine tra il perverso piacere di scandalizzare e la pura realtà dei fatti.
[…] siamo soli, ciascuno con le personali e invisibili cicatrici. Sono soli tutti, come sola sono stata anch’io. Dio non c’è o ha deciso di fingere di non esserci.
L’autrice riesce nell’intento di dipingere un personaggio femminile per cui è impossibile non parteggiare, ispirando nel cuore quel sano desiderio che Lidia trovi finalmente un po’ di serenità.
“Per una fetta di mela secca” è il duro ritratto di una rinascita e dell’impellente bisogno di verità che sopito per tutti quegli anni la travolgerà come un uragano, un grido d’aiuto bisbigliato, una storia semplice e al contempo capace di toccare le corde del cuore.
Trama:
Fra l’inizio degli anni Quaranta e quello degli anni Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. I numerosi collocamenti che avvennero in quel lunghissimo periodo interessarono bambini provenienti da famiglie povere, figli illegittimi o appartenenti a situazioni familiari precarie, ragazzi considerati difficili, scomodi o ribelli. Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni.
Per una fetta di mela secca racconta la storia di una di questi bambini: Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata la storia di molti.
Link: Leggere distopico
© Le Monde diplomatique – il manifesto, novembre 2020
Per una fetta di mela secca di Begoña Feijoo Fariña
di David Lifodi
© Graziana Giròvaga, 7.11.2020
Per una fetta di mela secca di Begoña Feijoó Fariña
Per una fetta di mela secca è il racconto vivido e sconvolgente della vita di Lidia. In realtà è la storia di migliaia di bambini svizzeri che, tra gli anni ’40 e l’inizio degli anni ’80, hanno subito le cosiddette “misure coercitive a scopo assistenziale”. Purtroppo i bambini venivano tolti forzatamente alla famiglia o perché povera, o perché considerati illegittimi; poi venivano affidati ad istituti, dove subivano maltrattamenti d’ogni tipo e a volte la sterilizzazione. Da adulti agli occhi dello Stato erano figli di nessuno.
Lidia è nata a Cavaione e strappata alla madre dall’infanzia per essere internata in un istituto religioso, poi messa a servizio e sfruttata da un contadino, dove ha vissuto in condizioni disumane, diventando bersaglio della frustrazione e della bestialità del suo affidatario.
La protagonista è cresciuta tra fame e violenza, ha vissuto una sottrazione e di identità e di legami affettivi. Dopo anni spesi ad imparare il silenzio, l’obbedienza e i sensi di colpa a vent’anni è finalmente “libera”.
Per tutta la vita vive col peso di un passato fatto di costrizione, violenza, disumanità e accompagnata dal perenne e tormentoso ricordo dell’amata madre, a cui è stata tolta perché divorziata. Quindi non si sente veramente libera, perché vive con i fantasmi dell’orrore vissuto così a lungo. Sarà l’amore di suo marito ad aiutarla a pensare al futuro, fino ad una tragica sorprendente scoperta che la getterà nuovamente addosso l’ombra della violenza dell’istituto in cui è stata costretta a crescere.
Ormai è diventata una donna consapevole, saprà perdonare e accettare le scuse dello Stato pronto a riconoscerle il torto inflitto?
Link: Graziana Giròvaga
© Internazionale, 06.11.2020
“Per una fetta di mela secca” segnalata su “Internazionale” del 6 novembre 2020.
© Radio Lombardia, 05.11.2020
Intervista alla scrittrice Begoña Feijoo Fariña, autrice del romanzo “Per una fetta di mela secca”.
Link: Radio Lombardia
© RAI RADIO 3, Lettera 3, 05.10.2020
Pagina3 con Nicola Lagioia
Segnalazione “oltre la diretta” del libro “Per una fetta di mela secca” di Begoña Feijoo Fariña.
Classici | Mentre in tempi di pace leggiamo Omero, in tempi di crisi torniamo a sfogliare l’Eneide. Lo sostiene Andrea Marcolongo su Domani. “Enea non smette di avanzare […] si sforza, cataloga, ricompone il magma indefinito del caos con il rigore della razionalità”.
Moda | E’ morto all’età di 81 anni Kenzo, lo stilista che ha portato il Giappone in Europa. Beatrice Manca lo ricorda sul Fatto Quotidiano.
Immagini | Fotograferemo tutto e saremo incapaci di ricordare. Lo scrisse Italo Calvino nel 1970, una previsione che Isabella De Silvestro commenta su The Vision.
Incontri | Josep Massot su Repubblica racconta la storia dell’amicizia tra il poeta Robert Graves e l’attrice Ava Gardner, una lunga “cospirazione amorosa” nata a Maiorca.
Musica | Jhon Lennon avrebbe compiuto 80 anni tra pochissimi giorni. La Lettura del Corriere della Sera celebra il musicista con un articolo di Michele Primi.
Oltre la diretta 5/10/2020
Storia | Tra gli anni ’40 e gli anni ’80 del secolo scorso la Svizzera affidava spesso bambini e ragazzi di famiglie povere, precarie, o reputati difficili o ribelli, a famiglie di contadini o a istituti, contro la volontà dei diretti interessati. Di questo narra “Per una fetta di mela secca”, romanzo della scrittrice spagnola Begoña Feijoo Fariña di cui Globalist pubblica un estratto.
Storia/2 | L’ultimo numero della rivista Una città ospita diversi contributi sul ’68. Noi vi segnaliamo, tra gli altri, un articolo di Guido Crainz su cosa accadde in quell’anno nell’Europa centrale.
Cinema | Dopo il cortometraggio “Il potere deve essere bianconero”, poi confluito in un più ampio documentario audiovisivo sulle curve della Juventus e del Torino intitolato “Ragazzi di stadio”, a distanza di 40 anni Daniele Segre torna a indagare il mondo degli ultras, con un lavoro recensito su Carmilla.
© Qgi, Quaderni grigionitaliani – anno 89°, 3/2020, P. 125
Il clamore delle storie silenziose
Di Fabiano Alborghetti
Begoña Feijoo Fariña, “Per una fetta di mela secca”, Gabriele Capelli Editore
La storia sociale e politica di una nazione è sempre una lettura complessa e molto sfaccettata, ma talvolta ci sono periodi che non solo la faccia nascondono, ma cercano di affondarla nell’oblio della dimenticanza volontaria. Gli internamenti coercitivi a scopo assistenziale avvenuti in Svizzera tra gli anni ’40 e gli anni ’80 sono una delle pagine nere di quella Storia (con la S maiuscola) che, se non fosse per il coraggio lungimirante di autori che ne esumano le spoglie, vivrebbero sepolte nel totale anonimato. Un anonimato che non risente neanche dell’azione mossa nel 2013 grazie alla consigliera federale Simonetta Sommaruga che, a nome del Governo nazionale, ha chiesto scusa per i gravi torti subiti. Ma si è chiesto scusa a chi? A quelli che erano bambini, migliaia e migliaia di bambini allontanati dal proprio nucleo familiare e resi i capri espiatori di colpe mai commesse: essere figli di poveri, figli illegittimi, ragazzi difficili o ribelli o appartenenti a etnie ritenute incapaci di educarli in modo “civile”, o più semplicemente l’essere figli di una ragazza madre.
Nel decalogo della tragedia: collocamenti a servizio (presso famiglie o come lavoranti-schiavi in aziende agricole), internamenti amministrativi (ovvero rinchiusi in istituti chiusi, talvolta penitenziari, senza decisione giudiziaria) ma eguale accanimento lo si è avuto anche verso le persone che si sono viste violare i diritti riproduttivi (con sterilizzazioni o aborti forzati), i bambini dati in adozione senza il consenso dei genitori (perché il nucleo familiare non è stato ritenuto, dalle autorità, sufficientemente degno) oppure gli itineranti (su tutti, l’accanimento avuto verso la popolazione nomade Jenish). Sotto il burocratico velo di “collocamento extrafamiliare”, le realtà sono stati gli abusi.
A parlarne nel 2020 è la scrittrice e drammaturga Begoña Feijoo Fariña in Per una fetta di mela secca, un solido e sorprendente libro edito da Gabriele Capelli di Mendrisio. Quasi tre anni di lavorazione, ricerche sul campo in archivi cartacei e audiovisuali, interviste a tre persone che la verità degli abusi l’hanno subita di persona. Una moltitudine di materiali e storie che Begoña Feijoo Fariña assimila, compatta e infine riassume dando vita e voce a Lidia Scettrini, la protagonista. Sarà lei l’emblema, la narratrice, la personificazione. Che l’autrice fosse già addentro – e con grande competenza – nel mondo della parola, si era già rivelato sia con diverse drammaturgie andate in scena che nei precedenti lavori editi. È però grazie a Per una fetta di mela secca che la piena maturità narrativa viene raggiunta. La voce della sua Lidia, la scansione temporale, l’accuratezza storica, un processo di scrittura rispettoso, teso e fortemente compiuto: tutto concorre a consolidare questo libro ponendolo su un piano che, pur rispettando del romanzo le caratteristiche (perché questo è: un romanzo tanto avvincente quanto commovente), diventa al contempo materiale storico.
La trama: Lidia Scettrini è la figlia felice di una famiglia che presto vede il padre scomparso (la madre di Lidia divorzia, in un periodo ove il divorzio è ancora un tabù). Seguiamo Lidia nascere a Cavaione e poi crescere, arrivando sino all’anno 2018. La viviamo nel percorso dell’infanzia dove viene allontanata dalla madre, sino alla sua piena maturità. Nel mezzo, il collocamento in orfanotrofio (gestito da suore affatto caritatevoli leggendo i maltrattamenti e l’infierire sulle ospiti dell’istituto) e poi l’essere assegnata a un contadino per lavori duri e sfiancanti, non ultimo l’accudirne la moglie, donna malata e costretta a letto. Le ulteriori sottotrame danno la carne a quel corpo di bimba che seguiamo, portandoci a commuovere e parteggiare perché accada il riscatto: l’affezione di Lidia verso le altre piccole compagne di sventura, la ricerca indefessa del senso e della gaiezza insite nella vita, l’incomprensione della crudeltà. Alla morte della moglie del contadino, la nostra Lidia, ormai diciannovenne (e prossima alla maggiore età), potrà affrancarsi dagli orrori subiti per tornare a Cavaione. Da questo ritorno al villaggio che ormai le è estraneo, ecco il moto per ricostruire una vita perduta: il ricostruire una casa in primis, cercando di sedare l’immane dolore che i ricordi, inesorabili esattori, ripropongono. Secondo moto, è il ritrovare una propria identità: costante della narrazione è il sotteso messaggio che Lidia non conti nulla, che sia fluttuante perché privata del nome, dell’appartenenza, e privata è di sé stessa (perché asservita non solo alle altrui volontà, ma all’essere braccia atte a svolgere un lavoro, e che tanto basti). Dovrà ritrovarsi, riformarsi, ripartendo daccapo.
Begoña Feijoo Fariña scadenza la narrazione attraverso capitoli ancorati (anche nel titolo) in quel lasso temporale che vede la morte della madre di Lidia, nel prima e nel dopo. Il “durante” è la certezza che mentre Lidia sopravvive – umanamente fragile – a tutti i contrari, a casa un madre l’aspetta e – forse – non ha mai smesso d’amarla di quell’identico amore che nell’infanzia Lidia ha ricevuto. Se la storia intinge i fatti nella sola presenza della figlia, ecco come questa seconda presenza materna non vive solo di ombre ma diventa coprotagonista proprio grazie all’assenza. L’escamotage letterario che Begoña coscientemente mette in atto, è porre l’accento anche sulle figure genitoriali che il dramma dell’estirpazione dell’affetto hanno subito, seppure in diversa forma e maniera, un dire “ci sono anche loro”.
Begoña Feijoo Fariña tratta una materia complessa con l’attenzione e l’umiltà di chi la storia – seppure con le necessarie differenze – potrebbe aver vissuto; per le proprie origini, per i tempi, per quelle coordinate che appoggiano al caso e non alla volontà.
Per una fetta di mela secca non è solo l’illuminate narrazione per comprendere l’esatta incompletezza di un periodo storico, ma un monito necessario e assoluto: per non ripetere è necessario comprendere.
Link: Qgi
© il venerdì – la Repubblica, 30.10.2020
“Per una fetta di mela secca” tra i libri segnalati su “il venerdì” di Repubblica.
© Convenzionali, 12.09.2020
Libri
“Per una fetta di mela secca”
di Gabriele Ottaviani
Non c’è verso. A volte vuoi dire le cose e le cose non vengono.
Per una fetta di mela secca, Begoña Feijoo Fariña, Gabriele Capelli editore. Diciannove anni prima che mamma morisse. Dodici anni prima che mamma morisse. Nove anni prima che mamma morisse. Otto. Sette. Cinque. Tre. Il giorno che mamma morì. Due anni dopo la morte di mamma. Sette anni dopo. Undici anni dopo. Dodici. Sedici. Ventiquattro. Ventinove. Quarantacinque. Bastano i titoli dei capitoli per rendersi conto della potenza intima e universale di questo viaggio nel dolore, nell’elaborazione del lutto e alle radici della vita e del suo proseguire nonostante tutto e grazie a tutto, in primo luogo grazie all’amore.
Un magnifico gioiello incantevole sin dall’immagine di copertina.
Link: Convenzionali
© Corriere dell’Italianità, 21.10.2020
Cultura: letteratura al femminile
Quando in Svizzera i figli erano tolti alle famiglie
Di Valeria Camia
Per una fetta di mela secca: un romanzo di Begoña Feijoo Fariña per ricordare le misure coercitive a scopo assistenziale in Svizzera
A inizio settembre, sulle pagine del Corriere dell’Italianità, abbiamo recensito una recente opera letteraria che compie un coraggioso atto di pubblica denuncia delle misure coercitive a scopo assistenziale in Svizzera attuate tra gli anni ’40 e ’80. Autrice è Begoña Feijoo Fariña, nata in Spagna e residente in Svizzera dal 1989. In Per una fetta di mela secca (Capelli Editore), Begoña Feijoo Fariña narra una storia di fantasia di ispirazione realistica: quella di Lidia Scettrini, strappata dall’amore della mamma (rea di essere stata abbandonata dal marito). Colpevole di essere figlia di una donna senza marito, condizione inaccettabile e vergognosa nella società contadina del tempo, Lidia viene condotta prima in un istituto gestito da suore e poi affidata a una famiglia. In entrambi i casi, la giovane verrà sottoposta a sofferenze psicologiche e fisiche gratuite, vedendo sistematicamente denigrata la propria dignità individuale. Il romanzo, percorso dalla tensione interiore della protagonista, la cui speranza di ritrovare l’amore di una famiglia è protesa verso la ricerca di un equilibrio in un futuro libero da violenze, propone con forza il tema del perdono e della responsabilità collettiva contro le violenze perpetuate ai danni dei singoli (e dei deboli).
Begoña Feijoo Fariña, quando ha iniziato a lavorare al libro?
Il progetto editoriale è iniziato un po’ per caso, guardando il documentario Cresciuti nell’ombra di Mariano Snider realizzato per la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana: sono così venuta a conoscenza dell’esistenza delle “misure coercitive a scopo assistenziale” in Svizzera, che fino al 1981 hanno portato alla sottrazione di migliaia di bambini e bambine alle loro famiglie e contro la loro volontà per venir affidati a istituti o famiglie di contadini. La prassi era giustificata dalla povertà e precarietà dei nuclei familiari originali. Di fronte a tanta brutalità, ho sentito l’esigenza di scriverne. La necessità di raccontare una pagina della storia svizzera così terribile e al tempo stesso a lungo rimossa (almeno fino al 2013 quando l’allora consigliera federale Simonetta Sommaruga, che ora è presidente della Confederazione svizzera) ha chiesto pubblicamente scusa alle vittime). Il romanzo Per una fetta di mela secca è il frutto di oltre un anno di ricerca e lettura di documenti e testimonianze.
Il romanzo è scritto in prima persona, quasi fosse un’autobiografia. Perché questa scelta?
Prima del mio lavoro esistevano già testi di narrativa autobiografici. Scrivere la storia di Lidia − una storia immaginaria ma che sarebbe potuta storicamente accadere − è stato per un me un modo per dare voce alle vittime e per invocare un’assunzione di responsabilità anche da parte di chi non ha vissuto e non è stato toccato personalmente dai fatti di tale ingiustizia. Ma l’ingiustizia, pur in altre forme, è sempre in agguato. Può ripetersi. Nel raccontare la storia di Lidia e delle misure coercitive a scopo assistenziale ho anche voluto sottolineare il pericolo, sempre presente, dei silenzi. Con la mia scrittura, con il ritmo della parola, posso denunciare, ad alta voce, le esperienze di persecuzione ai danni di tante e tanti giovani. La scelta della prima persona mi permette inoltre di avvicinare maggiormente il lettore ai fatti narrati, soprattutto con l’utilizzo del tempo presente.
Un tema costante dell’opera è quello del perdono: Lidia, da bambina strappata alla madre, diventa donna che “si costruisce” in relazione al passato che l’ha segnata. Al lettore, che accompagnerà Lidia in qualità di testimone e giudice, è lasciato di stabilire se gli sforzi intrapresi dalla Confederazione per far luce sul passato bastino per perdonare l’omertà…
Nel romanzo la protagonista, Lidia, da bambina che guarda a quello che le accade e subisce le violenze, diventa una donna anche in virtù delle ingiustizie subite. Le elabora, le fa proprie, appunto, non le dimentica e non le rimuove – alcune violenze, subite fisicamente, non può proprio rimuoverle. I segni sono sul suo corpo. E così sarà proprio facendo costante esercizio di rammendo di sé − di quello che è stata e di quanto ha subito − che Lidia sceglierà liberamente come porsi in relazione al perdono verso le istituzioni e le misure a lei imposte. Credo che le si debba concedere la libertà di scegliere se perdonare chi le ha causato un dolore che non ha risarcimento possibile.
Il tema del perdono è a sua volta legato a quello della famiglia. I capitoli marcano gli anni che separano Lidia dalla morte della madre e così rievocano il senso di abbandono, perdita e vuoto della giovane…
La madre, che per Lidia è il ricordo dell’amore, non viene mai dimenticata, per quanto la sua immagine sbiadisca nel tempo. Così come mai scordati sono i monti attorno al villaggio dove Lidia ha vissuto con la mamma. E sarà a quel paesaggio “materno” a lei familiare che la giovane tornerà una volta riottenuta la libertà. La storia si concentra sulla figlia strappata alla madre. Ma senza dimenticare l’altra faccia della medaglia – e del dolore: le famiglie alle quali sono stati portarti via figlie e figli.
Link: Corriere dell’Italianità
© Modulazioni temporali, 21.10.2020
“Per una fetta di mela secca” – L’orrore raccontato da Begoña Feijoo Fariña
Di Marianna Zito
“Sono stata seminata con il freddo e con il buio ed è con il freddo e con il buio che avrei dovuto fare i conti per molto tempo”.
Nell’aprile del 2013 a Berna, in un evento che commemorava gli ex collocati a servizio e altre vittime di misure coercitive a scopo assistenziale, Simonetta Sommaruga chiedeva scusa a queste persone – a nome del Governo Nazionale Svizzero – per i gravi torti subiti, dicendo: “Non possiamo continuare a far finta di niente”. Perché, ciò che accadeva in Svizzera tra gli anni ’40 e gli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, ha visto più di 700 bambini poveri o figli illegittimi che venivano separati dalle loro famiglie per essere rinchiusi in istituti educativi, dove subivano duri maltrattamenti, misure coercitive a scopo assistenziale e sterilizzazioni, fino ad arrivare in adozione a “nuove” famiglie che li sfruttavano e abusavano di loro.
Con “Per una fetta di mela secca” (Gabriele Capelli Editore, pp. 142 euro 16) Begoña Felijoo Fariña ci racconta la storia di una di queste bambine, Lidia Scettrini. Lidia è una, ma li rappresenta tutti sin dall’inizio, in quel freddo inverno a Cavaione. La vita di Lidia segue quella di sua madre. La segue da vicino quando ancora le vive accanto e la segue da lontano con pensieri, immagini e odori; disegna un arco intorno all’esistenza della donna, contando prima gli anni che precedono la sua morte e poi gli anni che la succedono. In mezzo il tutto e il nulla. L’istituto, le punizioni delle suore, l’angoscia per sé e per le sue amiche, l’affetto di Schatten e poi sempre peggio sia dentro, nell’animo, sia fuori, dove il sangue sgorga ora a morire ora chiedere una nuova rinascita. E tutto per una fetta di mela secca, per questo la sua vita era cambiata.
Begoña Felijoo Fariña ci trasporta in un luogo senza spazio e senza tempo, perché anche se queste sono storie lontane, la loro eco è ancora vicino a noi. Ci rimbombano frustranti addosso, ci lasciano sgomenti e impotenti, impotenti come chi le urla di quelle ragazze e di quei ragazzi le udiva allora, da lontano. Non esiste riscatto per chi ha vissuto questi orrori, forse l’unico riscatto possibile è scriverne, parlarne, raccontarlo affinché non accada mai più. L’autrice lo racconta sì in modo fluente ma non per questo ce ne risparmia l’urto. Ogni sua parola apre in noi una ferita, portandoci a conoscenza di ciò che ignoravamo e di ciò che mai pensavamo potesse essere accaduto; o che, se anche potevamo immaginarlo, eravamo molto lontani da conoscerne i dettagli. Una storia documentata, la cui protagonista fittizia fa parlare 700 altre voci, che urlano infanzie rubate e vite distrutte che niente e nessuno ha avuto o avrà mai il potere di risanare.
Link: Modulazioni temporali
Begoña Feijoo Fariña – RSI RETE UNO e Radio Popolare
La scrittrice Begoña Feijoo Fariña, autrice del romanzo “Per una fetta di mela secca”, intervistata a 360 gradi nella puntata del 17 ottobre 2020 di Mary Poppins (RSI RETE UNO) e, stessa data, su Radio Popolare (Sabato libri).
© RSI RETE UNO, Mary Poppins – 17.10.2020
Presidente della sezione poschiavina della Pro Grigioni Italiano, pubblica romanzi e scrive per il teatro; nella sua prima vita era biologa ed entomologa. La svolta avviene nel 2015 quando a Brusio fonda la compagnia InauDita con Chiara Balsarini. Da allora ogni anno firma regie e drammaturgie di spettacoli inediti, traduce pièce dallo spagnolo, partecipa a rassegne e seminari. Ha vinto la borsa letteraria di Pro Helvetia, il Concorso Grandi progetti del Cantone dei Grigioni e nel 2018 “Il Bernina” l’ha nominata personaggio culturale dell’anno.
Begoña Fejioo Fariña è ospite di “Mary Poppins” per parlare della sua storia d’immigrazione, dei collocamenti forzati al centro del suo romanzo “Per una fetta di mela secca” (Gabriele Capelli Editore, maggio 2020), degli altri libri pubblicati, del lavoro di ricerca teatrale, della rassegna di teatro contemporaneo i Monologanti di cui è direttrice artistica e per rispondere alle domande ricorrenti ispirate alla fiaba di Pamela Lyndon Travers.
Begoña Fejioo Fariña presenta il suo libro il 14 novembre all’Agorà Teatro a Magliaso.
Link: RSI RETE UNO Mary Poppins
© Radio Popolare – Sabato libri, 17.10.2020
Begoña Feijoo Fariña, Per una fetta di mela secca
a cura di Roberto Festa
(Minuto 46.30)
Link: Radio Popolare – Sabato libri
© lankenauta,letteratura & altri mondi, 13.10.2020
Feijoo Fariña Begoña
Per una fetta di mela secca
di Maria Tortora
Le chiamavano “misure coercitive a scopo assistenziale“. Una dicitura che porta in sé il peso di tutto ciò che, per l’appunto, è “coercitivo” ossia forzato, repressivo, costrittivo. Che lo scopo fosse addirittura “assistenziale” appare quasi una beffa. Eppure dietro a quelle “misure coercitive a scopo assistenziale” ci sono state migliaia di infanzie e di vite stravolte, macchiate, umiliate, distrutte. E stiamo parlando dell’apparente immacolata Svizzera, un Paese che, nell’immaginario di tutti, è il luogo della perfezione civile, dell’impeccabilità e del buon vivere. Non è stato sempre così, evidentemente. Begoña Feijoo Fariña con il suo romanzo “Per una fetta di mela secca” fa luce su un fenomeno che, almeno fino al 1981, ha caratterizzato questo piccolo pezzo d’Europa. Per circa quaranta anni, infatti, in Svizzera venivano applicate le suddette “misure coercitive a scopo assistenziale” che consistevano, all’atto pratico, nel sottrarre bambini alle loro famiglie contro la loro volontà. I bambini, a volte anche piccolissimi, venivano poi affidati a istituti di vario genere (religiosi, penitenziari, psichiatrici) e spesso condotti a lavorare presso fattorie o altre famiglie. Storie di distacchi ingiustificati, di soprusi, di violenza fisica e psicologica, di adozioni forzate, di legami spezzati e quasi mai recuperati.
Lidia Scettrini, è questo il nome della protagonista e voce narrante della storia scritta, con delicatezza e intelligenza, dalla Feijoo Fariña. Lidia è molto piccola quando suo padre decide di andarsene. A sua madre resta lo sgomento di essere rimasta sola con una figlia da crescere e lo scandalo di essere una “divorziata”. Basta poco perché Lidia sia messa alla berlina dai suoi compagni di scuola, soprattutto da un bambino che si chiama Piero che la tormenta e la fa soffrire. “Io non sono divorziata. Lui è stupido e non lo sa ma è la mia mamma a essere divorziata e non è nemmeno colpa sua. È papà che l’ha deciso, ho sentito il maestro che ne parlava con la mamma di Renata e ha detto così. Non è colpa sua, ha detto“. La “colpa” dell’essere una madre senza marito è presto uno stigma. Lidia e sua madre vengono evitate da tutti nel piccolo paese di montagna in cui vivono. Qualcosa si spezza il giorno in cui Lidia ruba la merenda dalla cartella di Piero: un fazzoletto che nasconde una fetta di mela secca.
Lidia torna a casa dopo la vergogna di essere stata scoperta e additata come ladra e lì trova sua madre che discute con un uomo. La bambina ascolta da fuori. “Ascolta, prova a ribattere e implora, ma non urla più. Perché sa che la sto ascoltando e così facendo m’insegna ancora una volta che non si possono combattere le battaglie perse. È inutile. Anche se la battaglia è contro chi dice che non puoi più occuparti di tua figlia come dovresti, che non hai un lavoro né abbastanza legna per l’inverno, che la vita che le dai non è dignitosa, che qualcuno l’ha denunciata e che stai crescendo una ladra. Scopro così di essere una ladra. Spiando una conversazione fra due adulti in cui mia madre non perde mai la calma“. Lidia viene portata via da sua madre, dalla sua casa, dalla sua infanzia. Non c’è rimedio né soluzione contro chi applica ciecamente e rigidamente le “misure coercitive a scopo assistenziale”. La bambina viene condotta presso un istituto di suore e lì sarà costretta a crescere tra privazioni, sofferenze, violenze e mortificazioni.
L’invenzione letteraria, nonostante un linguaggio attento e tenue, restituisce un quadro agghiacciante e avvilente di ciò che furono, probabilmente, le situazioni disumane a cui tantissimi bambini svizzeri vennero sottoposti nel corso di quaranta anni. La voce di Lidia sembra raccogliere e amplificare il dolore, il trauma e la colpa di tutti i piccoli strappati alla propria famiglia senza capirne il motivo. Aver rubato una fetta di mela secca può giustificare una punizione così grande? Lidia sarà punita, sarà costretta a fare lavori pesanti, sarà picchiata, sarà scacciata, sarà sterilizzata. Nel suo cuore rimarrà sempre e comunque un amore profondo e immutato per sua madre. Ogni momento del suo divenire donna viene misurato rispetto al giorno in cui sua madre è morta. Il fulcro del suo esistere sarà sempre sua madre, a lei non imputa alcuna colpa, a lei non rimprovera mai nulla.
Da piccola non può capire fino in fondo e non può spiegarselo, ma da donna matura Lidia intercetta il senso di quello che le è successo. “Non è colpa né mia né di mamma, e non è colpa neanche di Piero e della sua fetta di mela secca dentro al fazzoletto. È colpa di tutti. Com’è stata colpa di tutti se alla grande casa per punizione dormivamo con la scrofa e i suoi figlioli rosa. Colpa di chi sentiva le urla senza mai chiedere. Non solo colpa di Madre Sofia. Colpa di tutti. E sarà perché è colpa di tutti che improvvisamente diventa colpa di nessuno. E questa nuova consapevolezza forse mi porterà via anche la possibilità di avere qualcuno da odiare“. Ciò che è stato fatto a quei bambini non può essere risarcito né risanato in alcun modo. Nel 2013 l’allora consigliera federale Simonetta Sommaruga ha pubblicamente domandato perdono alle vittime delle “misure coercitive a scopo assistenziale” dando il via a un percorso in grado di riparare, in qualche modo, i danni arrecati a tanti bambini e tante famiglie. I venticinquemila franchi assegnati, però, non possono cancellare nulla né porre rimedio a una serie di colpe così gravi, profonde e dolorose.
Link: lankenauta
© L’Eco di Bergamo, 11.10.2020
© il manifesto, 11.10.2020
Cultura Quell’infanzia rubata da una pratica brutale e a lungo dimenticata
PASSATO PRESENTE. Intervista con Begoña Feijoó Fariña sul suo romanzo «Per una fetta di mela secca» (Gabriele Capelli editore). In Svizzera, fino al 1981, migliaia di bambine e bambini sono stati tolti alle famiglie perché povere. Di queste «misure coercitive a scopo assistenziale» è stato chiesto scusa alle vittime solo nel 2013. «Ho ascoltato molte testimonianze e studiato i documenti prodotti. Nel mio libro racconto tramite la voce di Lidia Scettrini una vicenda terribile accaduta nel paese in cui vivo»
di Alessandra Pigliaru
Si chiamano «misure coercitive a scopo assistenziale» e rappresentano lo scenario che in Svizzera, fino al 1981, ha segnato la vicenda umana di migliaia di bambine e bambini sottratti alle famiglie contro la propria volontà e affidati a istituti, di varia natura, oppure a contadini. Durata circa 40 anni, la prassi – diffusa non solo in Svizzera, basti pensare allo sfruttamento del servizio agricolo o a quello domestico – era giustificata con la povertà o precarietà dei nuclei di appartenenza fino alla presunta scomodità o eccentricità dei destinatari. La fine che ha fatto quella larga parte di infanzia e prima adolescenza è stata tanto brutale quanto rimossa: internamenti in istituti penitenziari o psichiatrici, lavoro minorile, sterilizzazioni, violenze e adozioni forzate. Esperienze irrimediabili di cui ci si è assunti la responsabilità solo nel 2013 quando l’allora consigliera federale Simonetta Sommaruga (ora presidente della Confederazione svizzera), ha chiesto scusa pubblicamente alle vittime avviando un processo di riparazione, diventato poi legislativo. Il nuovo romanzo di Begoña Feijoó Fariña, Per una fetta di mela secca (Gabriele Capelli editore, pp. 142, euro 16) prende avvio dalla storia personale di una di quelle bambine cui la scrittrice, galiciana ma residente in Svizzera da molti anni, restituisce voce immaginandone la vicenda.
Per motivi banali, Lidia Scettrini, questo il nome di fantasia che le si attribuisce, viene strappata dalle cure della propria madre e affidata a un istituto religioso dove, insieme ad altre, subisce maltrattamenti per poi essere trasferita in un ulteriore alloggio. Perché e quando ha cominciato a lavorare alla storia? La necessità è nata il giorno in cui sono venuta a conoscenza dell’esistenza di questa buia pagina della storia del paese che abito. È accaduto guardando il documentario Cresciuti nell’ombra che Mariano Snider aveva realizzato nel 2015 per la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana. Ho iniziato a cercare informazioni alla fine dell’estate del 2016, man mano che ne arrivavano nascevano nuove domande e la fase di lavoro di ricerca e lettura di documenti e testimonianze si dilatava. Circa un anno e mezzo dopo ho deciso che potevo fermarmi. Avrei potuto andare avanti per molto tempo, basti pensare all’enorme lavoro fatto dalla commissione peritale indipendente (Cpi) che ha prodotto più di dieci volumi sull’argomento. Ma io non sono una storica, il mio lavoro di ricerca è funzionale alla scrittura. Esistevano già testi di narrativa riguardanti l’argomento, ma erano autobiografici. Scrivere la storia di Lidia è stato un modo per dare alle vittime una voce in più, la voce di qualcuno che pur non essendo stato personalmente toccato dai fatti riteneva giusto parlarne. Un’altra motivazione, di carattere più personale, è legata al mio passato. Ero in Svizzera da pochi anni quando i miei genitori si sono separati e mia madre si è trovata, come accadde alla madre di Lidia, a dover provvedere da sola al mantenimento dei figli; quella circostanza ha portato l’intera famiglia a dover fare affidamento sull’assistenza pubblica e questo era uno dei motivi per cui in quegli anni ci si poteva trovare a essere vittime di misure coercitive. Così, mi sono scoperta a chiedermi: se tutta la mia vita fosse accaduta 30 anni prima, dove sarei oggi? Cosa sarebbe stato di me?
La sua scrittura ha un andamento poetico, uno sguardo vicino alle cose come la scommessa su un altro ritmo della parola. Tra i punti poetici più alti, non solo in riferimento alla Svizzera, c’è Mariella Mehr che ha consegnato la sua drammatica e indimenticabile esperienza di persecuzione insieme agli Jenisch, già dilaniati dal nazismo. Quanto l’ha orientata? Devo confessare che ho conosciuto il lavoro di Mariella Mehr solo diversi mesi dopo aver iniziato a lavorare a questo progetto, grazie all’incontro con Anna Ruchat, traduttrice di alcuni suoi lavori in italiano. Non so se la sua poetica abbia dato una direzione al mio lavoro ma sicuramente gli ha dato un valore nuovo e una nuova giustificazione. Il «ritmo della parola» è per me la ricerca principale nella fase finale di scrittura. Quello che scrivo deve innanzitutto funzionare come suono. Rileggo ad alta voce per trovare i nodi e poi cerco le parole in grado di scioglierli. Credo effettivamente che ciò abbia molto a che fare con la poesia, che leggo sempre e solo in spazi che mi permettono di farlo ad alta voce.
Nel suo romanzo compaiono anche Arietta, Inge, Camilla, Grazia. Sono le abbandonate dalla storia più grande. Dal primo esproprio, di cui non conoscono la ragione perché troppo piccole, ne seguono molti altri. Da parte di chi arriva a prenderle. Succede anche a Lidia quando si fanno avanti due uomini che vogliono vederla e parlarle. Allora ha 14 anni, cerca di fuggire ma non le riesce. In che modo ha costruito il suo personaggio che, sia pure con difficoltà, rimane un ritratto di indomita e malinconica sognatrice in cerca di libertà? Ho dovuto decidere quali fossero le cose importanti e necessarie per lei. Tra queste, quelle che ha avuto nei primi anni della sua formazione personale e il cui ricordo non l’abbandona mai sono la madre e i suoi monti. Nasce tutto da lì, il suo reclamare una libertà di cui è stata privata. La madre, soprattutto essendo stata una madre amorevole e di cui dunque conserva un buon ricordo, è ciò a cui Lidia vuole tornare. Pur sapendo che la fuga è sbagliata lei tenta di raggiungere casa sua, la madre e i suoi boschi, perché quelli sono stati gli anni della sua felicità.
I brevi capitoli in cui suddivide il romanzo tengono infatti come punto fermo la madre di Lidia, interlocutrice prediletta. Quanto manca alla sua morte e cosa accade dopo che scompare. Come ha calibrato l’amore intatto con lo sfascio della realtà che vive la sua protagonista? La madre è il ricordo dell’amore. Mai per tutta la lunghezza del testo la accusa di qualcosa. Lidia sa, essendo stata presente nel momento in cui viene deciso che dovrà partire, che sua madre ha fatto quel che era in suo potere, arrendendosi solo quando aveva capito che lottare non sarebbe servito. Lidia aveva già visto questo atteggiamento in sua madre, al momento della separazione dal padre. Anche allora la decisione era altrui e la madre non aveva potuto far nulla per cambiarla. Per questo non mette mai in discussione quella figura e vi si aggrappa nei momenti di maggiore difficoltà. Grazie a quegli anni insieme, Lidia dimostra una capacità di amare che le permette di aiutare le altre ragazze e bambine. Ho deciso di dare ai capitoli una struttura in grado di riportare il lettore alla madre perché, pur avendo raccontato la storia di una figlia, volevo fosse sempre presente l’immagine di una madre a cui quella figlia era stata strappata, come a voler dire «vi racconto di Lidia, ma non dimenticate che altrove qualcuno sta vivendo un dolore diverso». Questo per me era molto importante; fin da principio mi era stato molto chiaro che anche le famiglie rimaste nelle loro case erano delle vittime. Madri, padri e fratelli si erano visti amputati di una presenza in modo improvviso e spesso ingiusto.
Dal profumo dei boschi di una bambina fino alla menta bollente di moltissimi anni dopo, Lidia comincia a fare esercizio di rammendo di sé e torna con la mente alla piccola casa di Cavaione. Quella donna non è più inerme perché può scegliere e ha ottenuto il sostegno delle sue simili? O forse perché ha contezza che ci sono luoghi del dolore che non possono essere risarciti? Lidia ha ottenuto il sostegno di altre donne e ha un suo posto nella comunità allargata del paese, non più la comunità limitata dell’istituto o della fattoria, in cui ha inteso vivere. Scegliere è la principale conquista di Lidia: la possibilità di decidere dove vivere, in che modo farlo, se andare o no in chiesa e tante altre cose. Lidia però, soprattutto dopo l’ultima grande scoperta che fa sulle conseguenze di quegli anni sul proprio corpo e sul futuro, sa anche che ci sono dei danni per cui non esiste rimedio, quel dolore non ha risarcimento possibile e, anche se il perdono potrebbe forse lenirlo un po’, lei si riserva il diritto di non concederlo. Tra le tante libertà negate a tutte le vittime di misure coercitive a scopo assistenziale, non solo ai bambini, ritengo che oggi la società debba loro almeno quella di scegliere di non perdonare.
Breve profilo bio-bibliografico Begoña Feijoo Fariña (1977) è nata a Vilanova De Aurosa, in Galicia. Arrivata in Svizzera all’età di 12 anni, nel 2015 lascia il Ticino per trasferirsi in Valposchiavo dovesi dedica a teatro e scrittura. Pubblica due romanzi: «Abigail Dupont» (2016) e «Maraya» (2017). Con il suo terzo, «Per una fetta di mela secca», ha ottenuto diversi riconoscimenti. Suoi racconti sono presenti in antologie e riviste ed è co-fondatrice della compagnia teatrale «inauDita». La sua attuale ricerca è sul translinguismo. «Lo scopo – ci dice – è quello di trovare una comunità a cui riferire il mio percorso di migrazione e su questa costruire un testo in parte autobiografico che racconti il mutismo linguistico ed emotivo che può presentarsi in seguito alla migrazione da una regione linguistica ad un’altra in giovane età».
Link: il manifesto
© La Bottega del Barbieri, 7.10.2020
Recensione al romanzo di Begoña Feijoo Fariña che racconta la storia dei bambini affidati d’ufficio e contro la loro volontà ad istituti o contadini in Svizzera fra gli anni Quaranta e Ottanta del XX secolo.
di David Lifodi
Venticinquemila franchi per pulirsi la coscienza e mettere a tacere gli anni di prigionia, sofferenze, lavori forzati e umiliazioni. Venticinquemila franchi per risarcire le vittime delle sterilizzazioni forzate, compiute a loro insaputa, come se bastasse una somma pecuniaria per rendere giustizia a quelli che erano figli di famiglie indigenti, o comunque definiti ribelli, affidati, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, a istituti o famiglie di contadini. Questa pratica non risale all’epoca medievale, ma al periodo a cavallo tra gli anni Quaranta e Ottanta del XX secolo nella vicina Svizzera. […] Lidia è la protagonista del romanzo di Begoña Feijoo Fariña, Per una fetta di mela secca. Il nome è di fantasia, ma il racconto è basato su testimonianze dirette. Lidia ruba al compagno di classe Piero la merenda, una fetta di mela secca. Contemporaneamente, la famiglia della bambina si sgretola poiché il padre decide di abbandonare la moglie. Lidia finisce per essere internata in un istituto molto simile ad un carcere. Le suore non ci fanno una bella figura. Madre Sofia e le altre consorelle picchiano duro per ogni minimo atto di ribellione delle loro piccole ospiti-recluse e svolgono un ruolo di intermediazione con le famiglie presso le quali le ragazze, una volta più grandicelle, andranno a servizio, ma in realtà sono loro per prime a sapere che passeranno semplicemente da una forma di schiavitù ad un’altra […]. Grazie ad una forte pressione psicologica esercitata su di loro Lidia e le sue compagne credono di essere ladre, buone a nulla e rifiutate dalla società e si porteranno dietro questo senso di colpa per anni, anche quando, ormai adulte, capiranno di essere state vittime di un vero e proprio lavaggio del cervello. In più di una circostanza Lidia si chiede quale sarebbe stata la sua vita, se solo non avesse rubato una fetta di mela secca al suo compagno di classe. Ad un certo punto la ragazza si domanda: «Posso interessarmi di quel che pensa qualcuno disposto a far strappare una figlia alla madre pur di non vederne la povertà, pur di non accettare che se la legge ha creato la dissoluzione delle regole di Dio non è colpa di una donna che viene abbandonata dal marito? Faranno loro i conti con la propria coscienza o con Dio quando sarà il momento, così come io faccio i conti con il passato tutti i giorni. Con Dio no, sarà lui a farli con me quando verrà il momento e dovrà abbassare gli occhi in mia presenza se davvero quel passato è stato una sua punizione». Le scuse della Consigliera federale Simonetta Sommaruga che, a nome del governo svizzero, chiede perdono a tutti coloro che hanno sperimentato sulla propria pelle le misure coercitive a scopo assistenziale, non sono sufficienti. Come se non fosse bastata la condizione di schiavitù sperimentata suo malgrado in istituto […], per Lidia la situazione peggiora ulteriormente quando giungerà in una famiglia dove ha il compito di assistere l’anziana moglie di un contadino […]. […]
Link: La Bottega del Barbieri
© Culture Globalist, 4.10.2020
La Svizzera rubò l’infanzia a migliaia di bambini. Begoña Feijoo Fariña ce lo racconta
Pubblichiamo un estratto dal romanzo “Per una fetta di mela secca”: la scrittrice spagnola che vive nel paese elvetico ricostruisce una feroce pratica di Stato
Lo sanno in pochi, lo sappiamo in pochi: tra gli anni ’40 e gli anni ’80 del secolo scorso la Svizzera affidava spesso bambini e ragazzi di famiglie povere, precarie, o reputati difficili o ribelli, figli illegittimi, a famiglie di contadini o a istituti, d’ufficio contro la volontà dei diretti interessati. Erano sistemazioni forzate. Di questo narra “Per una fetta di mela secca”, romanzo della scrittrice spagnola Begoña Feijoo Fariña (Gabriele Capelli Editore, pp. 144, euro 16) di cui pubblichiamo un brano per gentile concessione dell’editore. Di quella pratica di Stato scrive la casa editrice che ha sede a Mendrisio: “Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni. Per una fetta di mela secca racconta la storia di una di questi bambini: Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata la storia di molti”.
Il romanzo ha come protagonista Lidia: vive con la madre, divorziata, e per aver rubato la merenda a un ragazzo, e per la povertà della famiglia, viene spedita in un istituto dove viene maltrattata dalle suore e poi affidata a una famiglia di contadini. Diventata maggiorenne, dovendo compilare dei documenti di risarcimento istituito a questi ragazzi dalla Confederazione svizzera e dai Cantoni, si ritrova a ripensare a tutta la sua storia.
Begoña Feijoo Fariña: da “Per una fetta di mela secca”
Qualcuno porta un piccolo cesto di patate, qualcuno salsicce, Frau Hasler porta il marito e il marito porta tre bottiglie di vino, nero come la notte che cala lenta e spietata sulla casa e dentro le mura. Resta solo la candela accesa sul tavolo, le persone intorno e io che cucino e servo, riscaldata dalla stufa accesa. Qualcuno chiede e adesso, che te ne fai di quella? E lo so che parlano di me, perché i loro occhi si girano verso l’angolo buio dentro cui aspetto il permesso di andare a dormire, quasi certa che stanotte nessuno legherà i miei polsi alle assi della stalla e che il fieno e le pulci non tortureranno la mia pelle. Robert non risponde e la domanda resta in me, riempie la testa e diventa l’unico pensiero possibile. Ora cosa ne sarà di me, senza Anne? E così, mentre da ogni lato del tavolo crescono i discorsi su quanto Anne fosse stata una buona moglie, quanto forte prima che la malattia la costringesse a letto, quanto generoso Robert che l’aveva sempre tenuta in casa, qualcuno dice e ti sei anche preso questa poveretta senza madre. Io ce l’avevo una mamma. Una mamma gentile. Me l’hanno portata via. Che ne sapete voi? Io ce l’avevo. Ce l’ho una mamma. Mi hanno mandata via per una fetta di mela secca. Una fetta di mela secca e un fazzoletto! Non sono una poveretta senza madre e non sono più una ragazzina. Sono certa di averlo solo pensato invece lo sto urlando. Lo vedo dalle loro facce prima ancora di sentire la mia voce. Urlo e sono in piedi e mi sento grande come non mi sono mai sentita. Vedo l’immagine di me guardata a lungo nello specchio la mattina e urlo e vorrei ucciderli tutti. La voglia di uccidere si somma alla colpa per la voglia di uccidere e si spegne nel momento in cui la mano aperta di Robert si schianta violenta contro la guancia. Il mio corpo esile cade a terra. Frau Hasler si alza di scatto. Robert! urla. Ma già suo marito le prende il braccio e la costringe a sedersi. Negli occhi di entrambi vedo ciò che accadrà al rientro a casa. Lei chiederà scusa per aver osato e lui tacerà fino all’indomani, quando accetterà le sue scuse ricordandole che non deve farlo mai più. Perché un uomo è padrone in casa sua e una mezza vagabonda venuta dal nulla non deve permettersi di trattare così chi le dà da mangiare. Questo dirà. Lui non lo sa che io non sono una buona a nulla e non sa che non è dal nulla che sono venuta. Sono venuta da Cavaione, Valposchiavo, Grigioni, dove mia madre mi ha cresciuta e amata, finché non ho rubato una fetta di mela secca.
Robert sta in piedi accanto al mio corpo a terra, il rumore del suo respiro copre i respiri altrui. Vattene dice. Vattene da questa casa. Mi alzo lentamente senza mai smettere di guardarlo negli occhi. Vorrei abbassare lo sguardo, come ho imparato presto a fare e faccio da un tempo tanto lungo da non ricordare quanto lungo sia davvero, ma non posso. I miei occhi sono chiodi dentro i suoi occhi e sono bocche aperte che urlano il dolore e il disprezzo. Raccontano il suo corpo sudato sulla pelle nuda, descrivono le mani fra le cosce e i morsi sul collo, sputano sul suo viso e alla fine sono i suoi occhi ad abbassarsi. Si gira e si risiede a tavola. Vattene. Sono parole pronunciate piano, questa volta, parole stanche. Poi prende dal cassetto una scatola di latta, la apre e mette sul tavolo un pugno di monete. La vedova Seller mi fa segno con la testa di raccoglierle e io lo faccio. Guardo ancora una volta Robert prima di voltare a tutti le spalle e mi accorgo di avere davanti un vecchio. È come se in tutti quegli anni non avessi visto il tempo passare né su di lui né su di me. Da bambina a donna, da uomo padrone a vecchio stanco. O forse è invecchiato tutto d’un colpo oggi, trovandosi davanti un’Anne incapace di riaprire gli occhi, partita per un altrove e mai più sua. Nessuno parla, i miei piedi battono lenti e pesanti sul pavimento del corridoio. Per l’ultima volta guardo dentro la stanza di Anne. La luce della luna le illumina il viso. È bella, ogni traccia di dolore è scomparsa. Sono felice di essere stata io a vestirla per domani. Le mie sono le ultime mani che abbiano toccato la sua pelle, il mio tocco l’accompagnerà al cimitero e così potrò essere con lei. La saluto con il solo movimento delle labbra, senza fiato, ciao Anne e scendo le scale.
Link: CGlobalist
© Corriere degli italiani, 2.09.2020
Per una fetta di mela secca di Begoña Feijoo Fariña
Infanzia rubata Storia delle misure coercitive a scopo assistenziale in Svizzera di Daria Bosco
© Voci del Grigioni italiano, RSI RETE UNO, 31.07.2020 “Per una fetta di mela secca” Questa edizione monografica delle nostre voci è dedicata al romanzo presentato in queste ultime settimane dal titolo “Per una fetta di mela secca”. L’autrice, Begoña Feijoo Fariña – originaria della Spagna ed emigrata in Svizzera da bambina – ha affrontato un tema davvero molto spinoso. Di quelli che si vorrebbero cancellare, nascondere. Parliamo delle misure coercitive che nella Confederazione sono state messe in atto fino al 1981 in campo assistenziale. E come riporta il sito dell’Ufficio Federale di Giustizia, si tratta di decine di migliaia di bambini e adolescenti, allontanati dalle loro famiglie e collocati d’ufficio in aziende artigianali o agricole dove venivano sfruttati come manodopera a basso costo, oppure affidati ad enti gestiti severamente, oppure – ancora – internati in istituti chiusi o addirittura in penitenziari, senza che si fosse pronunciato un giudice. Begoña Feijoo Fariña è nata in Spagna, il 7 marzo 1977, a 12 anni si è trasferita in Svizzera, dove tuttora vive, a Brusio. Laureata in biologia ha lavorato come entomologa ma nel 2015 ha abbandonato la professione per dedicarsi alle sue passioni: il teatro e la scrittura. È cofondatrice della compagnia teatrale inauDita, ed ha già scritto tre romanzi oltre ad una serie di racconti. Link: Voci del Grigioni italiano
© Il mestiere di leggere, 26.07.2020 Letteratura, Letteratura svizzera, recensioni Begoña Feijoo Fariña, Per una fetta di mela secca
La colpa non sta in noi. È in loro. Lo so, lo sapevamo tutte in fondo ai nostri cuori. È stato solo più facile prendersi colpe che ammettere di subire ingiustizie. E anche se lo so il pensiero ha messo radici troppo profonde in me e torna. Torna il una come me il buona a nulla e il ladra. E così eccomi qui ora, il giorno del mio trentesimo compleanno, ad avere paura del mondo fuori dalla porta. Compio trent’anni e sono sola dentro questa piccola casa e sola al mondo. Perché il mondo fuori dalla porta non sa, non ha visto. Il mondo fuori dalla porta pensa che se sei stato punito hai commesso degli errori. Il mondo fuori dalla porta vuole credere che la giustizia, per il nome che porta, sia giusta. E che siano giusti l’ordine, la pulizia, le messe la domenica e il sonno la notte. (pag. 103)
Per una fetta di mela secca, di Begoña Feijoo Fariña, Gabriele Capelli editore 2020 Il romanzo della scrittrice Begoña Feijoo Fariña porta alla luce una pagina buia della storia sociale svizzera. Attraverso la vicenda della protagonista Lidia Scettrini – un nome inventato ma dietro cui si celano storie vere – racconta le vicissitudini che hanno dovuto subire molti bambini e adolescenti in un arco temporale che va dagli inizi degli anni Quaranta del Novecento fino addirittura agli anni Ottanta. Una storia dolorosa, raccontata in prima persona da Lidia che, ormai donna di mezza età, ripercorre il suo passato: dalla Lidia bambina e via via, coprendo l’arco della sua vita, fino alla donna di oggi; una vita segnata per sempre dal trauma che ha subito e da tutte le conseguenze che ne sono derivate. La storia di una per alzare il velo di omertà sulle storie di molti. Nel suddetto periodo in Svizzera veniva applicata una prassi che, seppur sulla carta poteva sembrare un modo di tutelare l’infanzia disagiata, nella realtà dei fatti dava luogo a crudeltà inaudite. I bambini e i ragazzi che per qualche motivo venivano ritenuti difficili, o perché vivevano in famiglie molto povere, o per fatti bollati come reati o pseudo tali, o perché i genitori si separavano, o si trattava di figli naturali di madri sole, o orfani, questi bambini e ragazzi venivano affidati ad istituti e poi dati in affido a famiglie di contadini. Tutto questo avveniva contro la volontà dei genitori, d’ufficio e senza possibilità d’appello; i bambini venivano letteralmente strappati alle loro famiglie d’origine , chiusi in istituti in cui subivano maltrattamenti fisici e psicologici, per finire poi in famiglie che li accoglievano al solo scopo di aumentare la forza lavoro nelle proprie fattorie. Ragazzini malnutriti, picchiati e, peggio ancora, abusati. Tutto questo sotto l’apparente e paternalistico consenso delle autorità che chiudevano gli occhi di fronte all’evidenza, che ritenevano così di “salvarli” da condizioni difficili, e di educarli a diventare onesti e timorati cittadini. Una pagina davvero aberrante, a cui in tempi recenti si è cercato di fare ammenda, con la pubblica ammissione della crudeltà, con le scuse offerte a chi ha patito tanta sofferenza, e con la messa a disposizione di un risarcimento monetario (come si può quantificare il dolore?). Atto dovuto, ma purtroppo non in grado di cancellare il passato. Dunque, un romanzo che tocca i sentimenti di chi lo legge, lasciando un’amarezza impotente di fronte ad un qualcosa che sembra frutto del peggiore incubo. Una scrittura che non tralascia niente, che mette sulle pagine ogni singolo particolare, senza compiacimento, ma anche con forza e onestà. Conosciamo dunque Lidia bambina, che vive felice in una famiglia modesta, in campagna; di fianco a lei la giovane madre amorevole e un padre che però, dopo pochi anni, decide di abbandonare la moglie e rifarsi una vita con un’altra donna, in un’altra località. Ecco che la parola divorzio entra nel lessico familiare; un’ombra scura gettata sulle spalle della madre – se lui l’ha lasciata, un motivo ci sarà, commentano i paesani – una colpa che madre e figlia dovranno scontare duramente. Lidia, a scuola, dopo l’ennesima vessazione da parte di un compagno, gli ruba la merenda – una fetta di mela secca – e per questo, viene allontanata dalla madre che, a detta dell’ispettore incaricato, sta crescendo una figlia ladra. Un atto senza possibilità di replica, una sopraffazione da parte di chi è più forte, lo Stato, ai danni del più debole, una donna povera e sola, anche se una madre in grado di badare a sua figlia, e con amore. Una decisione dell’autorità a cui nessuno, nemmeno il padre, si può opporre. Rinchiusa in un istituto di suore che funziona come un lager, Lidia subisce maltrattamenti di ogni genere; si consola almeno del fatto di avere intorno a sé altre bambine e ragazze con cui stringere un patto di mutuo soccorso e dalle quali ricevere un po’ di quell’affetto che le è stato strappato a forza, allontanandola dalla madre. Ma il peggio non è l’istituto, il peggio verrà quando sarà affidata ad una coppia di contadini. Un vero e proprio inferno attraverso il quale dovrà passare, fino al raggiungimento della maggiore età, quando, infine, sarà liberata. Liberazione che però non sarà capace di cancellare quello che ha subito. Un romanzo che si legge con trepidazione, ma anche con rabbia: come è possibile che questa prassi sia andata avanti per così tanto tempo? Come è possibile che nessuno di quelli che dovevano sorvegliare il destino di questi bambini si sia mai reso conto delle reali condizioni in cui vivevano e dei maltrattamenti che subivano? Link: Il mestiere di leggere
© Il Grigione Italiano, 23.07.2020 SOTTO GLI ARCHI DEL VIADOTTO IL ROMANZO VERITÀ Begoña Feijoo Fariña racconta la storia di Lidia di ANTONIA MARSETTI Figli di famiglie povere, figli illegittimi, ragazzi difficili o ribelli, o appartenenti ad etnie ritenute incapaci di educarli in modo «civile». Sono loro le vittime dei collocamenti coercitivi perpetrati tra gli anni Quaranta fino al 1981. Allentamenti forzati dalle famiglie di origine che spesso gettavano giovani vite precarie in un baratro che avrebbe segnato per sempre la loro esistenza. Venivano mandati a servizio, sfruttati da aziende agricole o internati in istituti psichiatrici o penitenziari e in alcuni casi venivano pure sottoposti ad adozioni forzate o a sterilizzazioni. Per una fetta di mela secca, il romanzo di Begoña Feijoo Fariña (Gabriele Capelli Editore) presentato al pubblico nello scorso fine settimana, sotto gli archi del viadotto di Brusio, ci parla proprio di questo, e anche se si tratta di un romanzo, quindi con una protagonista inventata di sana pianta, il messaggio che questo libro lancia al pubblico è forte come un grido di dolore e diretto come un pugno nello stomaco. Lidia Scettrini, questo il nome della protagonista, viene trattata come una bestia, come braccia da lavoro, come reietta, come peccatrice, come scarto della società. Una bambina che vive soprusi di ogni genere ma che cerca di lottare, vivere e respirare per tutta la vita e che una volta adulta cerca di riprendersi tutto quello che le hanno tolto, di andare oltre le cicatrici, di bruciare il passato in un cammino e guardare avanti. Il romanzo, per il quale l’autrice ha ricevuto anche il sostegno dal Cantone dei Grigioni (ndr. Concorso Grandi Progetti, 2018), e una borsa di studio da Pro Helvetia (borsa letteraria, 2018), è ambientato in gran parte in Valposchiavo. In seguito al divorzio dei genitori, Lidia resta a vivere con sua madre a Cavaione. Stanca delle prese in giro da parte di alcuni dei suoi compagni un giorno ruba la merenda a Piero (questo episodio dà il titolo al romanzo, ndr). Accusata dai genitori di lui e a causa della povertà in cui lei e la madre vivono, viene mandata in istituto, dove subirà maltrattamenti da parte di alcune delle suore che lo gestiscono e sarà poi data in affidamento a un contadino. Nella nuova «casa» c’è anche Anne, la moglie malata e costretta a letto del contadino, unico spiraglio d’amore per Lidia. Alla morte di Anne, Lidia, ormai diciannovenne e prossima alla maggiore età, può finalmente liberarsi dall’orrore di quella vita e tornare a Cavaione. Da questo ritorno al villaggio, che ormai non sente più suo, parte il tentativo di rifarsi una vita. Con non poche difficoltà costruirà una nuova sé cercando di tenere a bada il dolore dei ricordi. Nel 2018 e in seguito all’istituzione del fondo di solidarietà istituito dalla Confederazione e dai Cantoni a sostegno di ex vittime delle cosiddette «misure coercitive a scopo assistenziale», Lidia si troverà a dover compilare il modulo di richiesta, rievocando tutto ciò che le è stato rubato e scoprendo in sé la forza di vivere il presente. Begoña Feijoo Fariña, lei è nata nel 1977 in Spagna. Quindi parliamo di un luogo e di un tempo abbastanza lontani rispetto a questa pratica coercitva sulla quale la Confederazione ha fatto ammenda. Eppure, se ne è voluta occupare. Perché? Quando sono venuta a conoscenza di questi fatti ne sono rimasta molto colpita. Ma se vogliamo, la molla che più mi ha spinto ad occuparmene è che quando ero adolescente i miei si separarono e la mia famiglia finì quindi in assistenza perché mio padre ci aveva lasciati e mia madre si è ritrovata da sola e senza un lavoro. E così mi è venuto spontaneo chiedermi: se questa crisi familiare ci fosse capitata 15 anni prima, dove sarei io oggi? Ha ricevuto dei feedback da parte dei lettori? Tra loro ci sono anche vittime di questi allontanamenti coatti? Ricevo quasi quotidianamente messaggi da parte dei lettori e in particolare mi ha colpito il messaggio della figlia di una donna che fu internata da piccola. Mi ha detto che dopo aver letto il mio libro riesce a comprendere meglio alcune decisioni prese da sua madre. E questo è per me una grande soddisfazione, anche se stiamo parlando di vicende molto dolorose. Perché la scelta di ambientare il romanzo in Valposchiavo? Inizialmente volevo far partire la storia da Corippo (il più piccolo comune della Svizzera con soli 13 abitanti, nel distretto di Locarno, in Ticino, ndr) che ha alcune analogie con Cavaione sia come dimensioni sia come dislocazione, ma poi ho deciso che era giunto il momento per me di scrivere qualcosa che parlasse anche di questa valle che mi ha «adottata» e così ho fatto nascere Lidia qui, in Valposchiavo. Come si è preparata a questo romanzo? Quali ricerche ha fatto? Sono partita dal documentario di Mariano Snider (ndr. Cresciuti nell’ombra, RSI, 2015) e poi mi sono documentata leggendo tutti i verbali della tavola rotonda che ha messo a confronto tutte le parti chiamate in causa da questo tema. Ho letto i rapporti pubblicati da diversi istituti e ho letto e ascoltato testimonianze e ho parlato con alcune delle vittime. Questo è il suo terzo romanzo, i primi si intitolano Abigail Dupont (Demian edizioni, Teramo, 2016) e Maraya (AUGH!, Viterbo, 2017). Due storie diverse da quella di Lidia Scettrini… In tutti i miei romanzi si racconta sempre di una donna che ad un certo punto deve prendere in mano le redini della propria vita e l’altro minimo comune denominatore è che parlo sempre degli ultimi, ossia di questi personaggi borderline che assolutamente vale la pena conoscere. Per il resto è stato un percorso di crescita, anche sotto il profilo della ricerca, visto che ad ogni romanzo è stato necessario approfondire sempre di più e il prossimo lavoro richiederà ancora più tempo e concentrazione. Siamo proprio curiosi: di cosa parlerà? Sto studiando autori translingue, autori cioè che hanno lasciato il loro Paese d’origine e con esso anche la lingua madre e voglio raccontare anche l’emigrazione spagnola tra gli anni 60- 80 e voglio raccontare il vissuto di chi è emigrato non per lavorare, ma per seguire la famiglia, lasciandosi così alle spalle un’infanzia, amici, scuola… e stare qui a ridosso del confine, a Brusio, paese di confine storicamente e geograficamente confrontato con lo straniero, con l’altro, certo mi aiuterà nel mio prossimo romanzo. Link: Il Grigione Italiano
© Il vizio di leggere, 22.07.2020 PER UNA FETTA DI MELA SECCA di Begoña Feijoo Fariña La lettrice assorta
“Nel petto percepisco un dolore, lo sento in quella che credo sia l’anima e lo sento nel corpo. Fa male. Le lacrime, inizialmente silenziose, scendono. Sono calde, lente e dense. Fatte di paura e tristezza, diverse dalle lacrime di rabbia di giorni fa fuori dalla scuola.”
A raccontare questa storia drammatica è la voce diretta della protagonista, Lidia Scettrini, un nome di fantasia intessuto attorno a vicende dolorose che hanno realmente riguardato la vita di molte persone. All’inizio degli anni Quaranta e quello degli anni Ottanta infatti, in Svizzera vigeva la prassi di affidare d’ufficio, anche contro la volontà, bambini e giovani a istituti o contadini. PER UNA FETTA DI MELA SECCA di Begoña Feijoo Fariña descrive in modo commovente e intenso alcuni accadimenti nella vita della piccola Lidia, la cui unica colpa è stata quella di aver subito il divorzio dei genitori. Stanca delle continue prese in giro da parte dei compagni di scuola e in particolare di quelle di Piero, decide di rubargli la merenda. Sarà quest’azione avventata e ingenua a innescare una catena di eventi negativi che porteranno la ragazzina ad essere strappata dall’adorata seppur povera mamma e condotta in un istituto di suore. Per tutto il tempo di questa lettura mi sono chiesta perché togliere una ragazzina a sua madre, anche se cresce in condizioni difficili, per poi condurla in un istituto a mangiare una minestra abominevole, patire ugualmente il freddo e subire maltrattamenti? Come si è potuto arrivare a questo? Sarebbe stato molto meglio lasciarla a vivere con una mamma amorevole e un tozzo di pane di segale, che Lidia ricorda con affetto come il pane più buono del mondo. Un romanzo che indigna in modo doloroso, soprattutto alla luce del fatto che si basa su eventi reali. La protagonista impara a caro prezzo a rimanere in silenzio, testa bassa e occhi aperti, sopportare le umiliazioni e lavorare senza mai lamentarsi e senza aspettarsi nulla. Una vita segnata per sempre, la sensazione di non valere, di essere stata abbandonata anche da Dio, un senso di vergogna che non abbandona mai e danni irreversibili, soltanto per un pezzo di mela secca. Commovente e intenso. Link: Il vizio di leggere
© Sil-ently aloud, 20.07.2020 Recensione: Per una fetta di mela secca, di Begoña Feijoo Fariña Di Antonella Voto: 5/5 Questo ebook ci è stato gentilmente offerto da Gabriele Capelli Editore in cambio di una recensione onesta. Recensione di Antonella: Posso descrivere questo romanzo con tre aggettivi: toccante, vero, spesso. Toccante, perché la tematica, tutt’altro che leggera, arriva dritta al cuore (quando non allo stomaco) e ti avvince, ti rende partecipe, ti commuove e ti fa arrabbiare, soprattutto ti fa riflettere. Vero, perché l’autrice ha svolto un attento lavoro di ricerca prima di affrontare la stesura, ed è un fatto evidente. Spesso, perché è un libro ben scritto e contiene un po’ tutto quello che serve per creare una buona lettura: una trama ben strutturata, personaggi credibili e molto ben costruiti, uno stile impeccabile e pulito, non parco di immagini riuscite e sprazzi di poesia. Non sento di esagerare se dichiaro che questo romanzo ha tutte le carte in regola per diventare un testo di riferimento, da suggerire come lettura nelle scuole superiori per avvicinare i giovani a un capitolo molto oscuro della storia sociale svizzera. Al di là dell’argomento trattato, gli spunti di riflessione offerti da queste pagine sono, a mio parere, un valido supporto per la formazione del pensiero critico. La trama della Feijoo Fariña è costruita attorno all’esistenza della piccola Lidia, che seguiamo nel difficile percorso che la porterà alla maturità. Un percorso sofferto, doloroso, che comincia con l’allontanamento dall’amata mamma, giudicata inadeguata per occuparsi di lei (anche perché divorziata in un’epoca in cui il divorzio era ancora un tabù), e il conseguente collocamento in un orfanotrofio gestito da suore molto poco ben disposte verso le piccole ospiti. Non si può non affezionarsi subito a Lidia, non si può non patire con lei, non sperare per lei, anche quando si ha l’impressione che non ci sarà nulla di buono per questa povera ragazza. Eppure, nonostante le brutture, le ingiustizie, i soprusi, la speranza permane. Ed è a questa speranza che ci si aggrappa, divorando una pagina dopo l’altra, per arrivare a trovare uno spiraglio di luce. Le ambientazioni costruite dall’autrice sono estremamente realistiche, si evince una ricerca che non è stata solo storica, ma anche geografica. Vengono citate diverse località tra i Grigioni e il Ticino, descritte peraltro molto bene. I personaggi si muovono all’interno di questo scenario in maniera impeccabile, rivelando tutte le loro peculiarità, soprattutto psicologiche. Si riescono a intuire le loro credenze, i loro limiti, i loro drammi. Sono ben tratteggiati, a volte all’autrice bastano poche parole per mostrarceli in tutta la loro umanità, nel bene e nel male. Lo stile della scrittrice è pulito, scorrevole, eppure regala piacevoli immagini, talvolta permeate di una poesia lieve come il tocco di una farfalla, talaltra aprendo una riflessione che va oltre i fatti narrati, facendosi anticamera di pensieri più profondi, più ampi. Ogni parola è al suo posto, la struttura narrativa regge dall’inizio alla fine, il ritmo è buono, mai troppo lento o troppo veloce. “Per una fetta di mela secca” è un ottimo romanzo, sotto molti punti di vista. Un’unica nota mi pare doverosa: la tematica trattata è forte, dura. Occorre affrontare la lettura consapevoli del fatto che non sarà affatto una passeggiata, anche perché si tratta di fatti ispirati alla realtà. Non è il primo lavoro di quest’autrice così promettente che, con esso, ha toccato un livello molto alto. Sarò curiosa di leggere le sue prossime opere, nella speranza di trovare la stessa verità, la stessa toccante ricerca di speranza.
Quarta di copertina: Fra l’inizio degli anni Quaranta e quello degli anni Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. I numerosi collocamenti che avvennero in quel lunghissimo periodo interessarono bambini provenienti da famiglie povere, figli illegittimi o appartenenti a situazioni familiari precarie, ragazzi considerati difficili, scomodi o ribelli. Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni. Per una fetta di mela secca racconta la storia di una di questi bambini: Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata la storia di molti. In seguito al divorzio dei genitori, Lidia resta a vivere con sua madre a Cavaione (un piccolo borgo della Svizzera orientale). Stanca delle prese in giro da parte di alcuni dei suoi compagni un giorno ruba la merenda a Piero. Accusata dai genitori di lui e a causa della povertà in cui lei e la madre vivono, viene mandata in istituto, dove subirà maltrattamenti da parte di alcune delle suore che lo gestiscono e sarà poi data in affidamento a un contadino. Nella nuova “casa” c’è anche Anne, la moglie malata e costretta a letto del contadino, unico spiraglio d’amore per Lidia. Alla morte di Anne, Lidia, ormai diciannovenne e prossima alla maggiore età, può finalmente liberarsi dall’orrore di quella vita e tornare a Cavaione. Da questo ritorno al villaggio, che ormai non sente più suo, parte il tentativo di rifarsi una vita. Con non poche difficoltà costruirà una nuova sé cercando di tenere a bada il dolore dei ricordi. Nel 2018 e in seguito all’istituzione del fondo di solidarietà istituito dalla Confederazione e dai Cantoni a sostegno di ex vittime delle cosiddette “misure coercitive a scopo assistenziale”, Lidia si troverà a dover compilare il modulo di richiesta, rievocando tutto ciò che le è stato rubato e scoprendo in sé la forza di vivere il presente. Titolo: Per una fetta di mela secca Autore: Begoña Feijoo Fariña Editore: Gabriele Capelli Editore Pagine: 129 Prezzo: 6,00 € (ebook), 16,00 (cartaceo) Link: Sil-ently aloud. Libri, scrittura, editoria
© syndicom rivista, n. 17, 06/07.2020 Alla ricerca delle radici – Per una fetta di mela secca di Valeria Camia Link: syndicom
© Andreaconsonniwrong, 25.06.2020 “Per una fetta di mela secca” di Begoña Feijoo Fariña Ho scoperto questa tragica storia appena ho cominciato a lavorare in Svizzera. Me l’ha raccontata un collega che aveva gli occhi pieni di lacrime. Anche a me vennero le lacrime perché subito pensai al mio bisnonno materno e alle sua vita difficile. Ricollocamenti per ripulire la società e costruirne una migliore, sana, pura, silente, obbediente. “Per una fetta di mela secca” di Begoña Feijoo Fariña (Gabriele Capelli Editore) racconta in chiave romanzata e con uno stile molto semplice e diretto la storia di una di queste bambine, Lidia, che viene trattata come una bestia, come braccia da lavoro, come reietta, come peccatrice, come scarto della società. Una bambina che vive soprusi di ogni genere ma che cerca di lottare, vivere e respirare per tutta la vita e che una volta adulta cerca di riprendersi tutto quello che le hanno tolto, di andare oltre le cicatrici, di bruciare il passato in un cammino e guardare avanti. Mentre leggevo questo romanzo ho pensato anche a tutte le meschinità e violenze che la mia famiglia materna ha dovuto sopportare in paese. Ho pensato a quel prete del paese, amatissimo e benedetto da Dio e dalle chiacchiere di cortile, che non era nient’altro che un despota prevaricatore che niente aveva a che fare col messaggio del Vangelo. Ho pensato a tutte quelle famiglie contadine che trattavano i propri figli come bestie da lavoro o come femmine da scaricare subito al miglior offerente. Ho pensato alla mia nonna Maria Bernardina Romilda, nata nel 1902, che si è sempre opposta a questo genere di mondo gretto, alle superstizioni, ai giudizi e che ha riposto sempre fiducia e speranza nelle trasformazioni sociali e dei costumi. Un mondo, quello presente in questo libro, idealizzato ancora oggi da troppe persone in maniera acritica e superficiale e che, pur ovviamente avendo alcuni aspetti positivi (la natura, i ritmi lenti), mi auguro non ritorni mai piu’. “Fra l’inizio degli anni Quaranta e quello degli anni Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. I numerosi collocamenti che avvennero in quel lunghissimo periodo interessarono bambini provenienti da famiglie povere, figli illegittimi o appartenenti a situazioni familiari precarie, ragazzi considerati difficili, scomodi o ribelli. Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni.” Link: Andreaconsonniwrong
© Pro Grigioni Italiano – Coira Dovevo scrivere su questo argomento! Intervista a Begoña Feijoo Fariña Intervista a cura di Arianna Nussio, operatrice culturale Pgi Coira
«L’hanno fatto perché qualcuno ha potuto farlo e nessuno si è opposto.» Begoña Feijoo Fariña
Il nuovo romanzo di Begoña Feijoo Fariña «Per una fetta di mela secca» (2020, Gabriele Capelli Editore), racconta attraverso una protagonista immaginaria l’atroce destino vissuto da migliaia di vittime dei collocamenti coercitivi praticati in Svizzera fino a 40 anni fa. La Pgi Coira aveva previsto per la primavera 2020 una serata con Begoña Feijoo Fariña. Non avendo potuto tenere un incontro pubblico, abbiamo intervistato l’autrice per telefono. Begoña Feijoo Fariña, cosa l’ha spinta ad occuparsi di un tema così doloroso? Il primo motore è stato il documentario di Mariano Snider (ndr. Cresciuti nell’ombra, RSI, 2015). Fino ad allora io non sapevo niente degli internamenti coercitivi. Era un giorno d’estate del 2016, sono capitata su questo documentario e l’ho guardato e riguardato, non so quante volte. Non potevo crederci! Il mio primo pensiero è stato: quando i miei genitori si sono separati, una decina di anni dopo la fine di queste misure, io, i miei fratelli e la mia mamma eravamo in assistenza. Che fine avrei fatto io, se fossero state ancora in vigore questo tipo di misure? Avrebbero permesso a mia mamma di tenermi? Ho sentito che dovevo scrivere su questo argomento, così tutto ciò che stavo facendo è passato in secondo piano e ho iniziato a documentarmi. Allora c’erano dei testi in tedesco, ma non mi risulta ne esistessero in italiano. Di seguito è stata tradotta la testimonianza di Sergio Devecchi (ndr. Infanzia rubata, Casagrande, 2019) e sono stati pubblicati Silenzi (di Luca Brunoni, Gabriele Capelli Editore, 2019) e Il mio nome era 125 (ndr. di Matteo Beltrami, Edizioni Ulivo, 2019). Pensa che i riconoscimenti da lei ottenuti con questo progetto rispecchino una volontà collettiva di elaborare una pagina di storia svizzera vergognosa? Per quanto riguarda il sostegno ricevuto dal Cantone dei Grigioni (ndr. Concorso Grandi Progetti, 2018), penso che il tema abbia avuto un peso, anche perché la storia, pur essendo inventata, è possibile e legata ai Grigioni. Per Pro Helvetia (borsa letteraria, 2018) conta invece piuttosto la qualità dell’elaborato proposto che non il tema in sé. Più persone mi dicono che sarebbe il caso di portare il romanzo anche nelle scuole e si stanno muovendo in questo senso. Penso che per i ragazzi leggere il testo avrebbe senso soprattutto come monito: bisogna stare attenti ai giochi di potere nella società, nelle situazioni istituzionalizzate dove ancora c’è un guardiano e un guardato. Ha già ricevuto dei riscontri da vittime dei collocamenti coercitivi che hanno letto il romanzo? Non ancora, ma ho avuto un riscontro da una figlia di una vittima, collocata in un istituto di suore da piccolissima, perché la madre era rimasta vedova con diversi figli. Questa signora mi ha detto che leggendo il libro fino in fondo ha capito alcune cose di sua mamma. Grazie a quello che io ho scritto ha capito dei comportamenti di sua madre e per me questo è molto bello. La protagonista del romanzo è una bambina di Cavaione. Cosa l’ha portata a scegliere questo piccolo villaggio della Valposchiavo? L’idea originale era di far partire tutto da Corippo. Questo minuscolo villaggio della Val Verzasca, il comune più piccolo della Svizzera, mi affascinava. Inoltre ho conosciuto delle persone provenienti da lì, molto più anziane di me, che per come le ho conosciute, avrebbero potuto essere state vittime di queste misure. Poi iniziando a parlare del tema in valle (ndr. Valposchiavo), una delle prime cose che mi è stato detto è stato: “Da noi non succedeva!”. Ma non ci si ricorda, non succedeva veramente, oppure c’era dell’omertà? Ho dunque voluto cercare notizie negli archivi, ma non vi ho avuto accesso, perché non sono persona direttamente interessata ai fatti. Una persona mi ha però detto che conosce una signora anziana del comune di Brusio a cui sono stati portati via due bambini da piccoli. Qualcun altro mi ha detto di essere sicuro che ci fossero stati dei casi…quindi ho capito che succedeva, ma non se ne parlava, oppure le persone della generazione a cui mi sono rivolta non se ne ricordano o non avevano realizzato, perché all’epoca erano bambini. Quindi ho deciso di ambientarlo in Valposchiavo, poi ho scelto Cavaione per le analogie con Corippo. È stata aiutata da qualcuno per l’ambientazione storica? Ipoteticamente io ho fatto nascere Lidia (la protagonista) nel ’56 e poi sono andata d’istinto. Non mi sono fatta aiutare un granché ma ho fatto alcune domande per esempio sulla scuola e sulla costruzione della strada di Cavaione ad Anna e Secondo Balsarini, che sono nati nel villaggio in quegli anni. Prima delle correzioni finali loro hanno letto il libro per vedere se c’erano delle cose che non funzionavano con la Cavaione che hanno vissuto da bambini. Nel testo c’è anche una canzone che loro cantavano da ragazzi. Immaginare quella che poteva essere allora la vita di un piccolo villaggio non mi è risultato particolarmente difficile perché, pur essendo vero che io sono di un’altra generazione, sono nata in un paese (ndr. la Spagna) uscito dalla dittatura nel ’75 e che quindi è rimasto a lungo arretrato. Io l’ho fatta quella vita lì, da bambina! Vivevo con i nonni in un piccolo paese, non di montagna, ma molto rurale, dove tutti sapevano tutto di tutti. A casa di mia nonna, dove ho vissuto per anni, c’erano tre stanze più la cucina e non avevamo il gabinetto, finché i miei hanno mandato i soldi dalla Svizzera. Il bagno si faceva in un grosso secchio, che si usava anche per raccogliere le patate. Si dormiva in tre in un letto. Era veramente un’altra vita, arrivare a Lugano per me è stato uno shock. Non sarebbe stato più facile da scrivere e da vendere un romanzo rosa? Più facile da scrivere? Per me probabilmente no. Penso di non esserne capace! Da vendere, lo capiremo fra alcuni mesi. Personalmente sono molto fiera di questo lavoro, del prodotto finale, di essere riuscita a trovare quell’ingenuità che cercavo. Se vende più o meno di «un rosa», lo scopriremo. Il contesto storico Dagli anni ’40 fino al 1981, in Svizzera vigeva la prassi di affidare, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. Le migliaia di collocamenti interessarono bambini provenienti da famiglie povere, figli illegittimi o appartenenti a situazioni familiari precarie, ragazzi considerati difficili, scomodi o ribelli. Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni. Nel 2013 la Confederazione ha chiesto pubblicamente scusa per la sofferenza inflitta. Begoña Feijoo Fariña Nata in Galizia nel 1977, vive in Svizzera da quando aveva 12 anni. Laureata in biologia, si è occupata per anni dello studio degli insetti. Nel 2015 lascia l’ambito scientifico per dedicarsi al teatro e alla scrittura e si trasferisce in Valposchiavo. Nel 2016 pubblica il romanzo Abigail Dupont (Demian edizioni, Teramo) e nel 2017 Maraya (AUGH!, Viterbo). Per una fetta di mela secca (Gabriele Capelli Editore, Mendrisio, 2020) è il suo terzo romanzo, che nel 2018 le è valso il Concorso Grandi Progetti del Cantone dei Grigioni e una borsa letteraria di Pro Helvetia. Per lo stesso progetto è stata ospite della Residenza Franz Edelmaier per la letteratura e i diritti dell’uomo a Merano. Link: Pgi Coira
© Librintasca RSI RETE UNO, 12.06.2020 Una storia toccante. Un’infanzia che si trasforma in un incubo. A cura di Daniele Oldani Ospite di questa nuova edizione di Libri in tasca, la scrittrice Begoňa Feijoo Fariňa. Nata in Galicia, Spagna nel 1977, all’età di 12 si trasferisce in Svizzera dove tuttora vive. Si occupa di drammaturgia e di regia ed è la cofondatrice della compagnia teatrale inauDita. È presidente della sezione Valposchiavo della pro grigioni italiano e direttrice artistica della stagione teatrale I monologanti di Brusio. Il suo nuovo romanzo, pubblicato da Gabriele Capelli editore, si intitola Per una fetta di mela secca. La presentazione scritta dall’editore offre un’ottima descrizione del contesto storico nel quale è ambientato il libro: “Fra l’inizio degli anni Quaranta e quello degli anni Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. I numerosi collocamenti che avvennero in quel lunghissimo periodo interessarono bambini provenienti da famiglie povere, figli illegittimi o appartenenti a situazioni familiari precarie, ragazzi considerati difficili, scomodi o ribelli. Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni.” Per una fetta di mela secca racconta la storia di una di queste bambine: Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata la storia di molti. C’è stato un documentario – ci ha raccontato l’autrice del libro – che è stato molto importante nella realizzazione di Per una fetta di mela secca. È il documentario Cresciuti nell’ombra di Mariano Snider, andato in onda sulla nostra televisione nel programma Falò. Link: Librintasca
© chronicalibri.it, 25.05.2020 “Per una fetta di mela secca”, i bambini raccontati da Begoña Feijoó Fariña Di Olimpia De Girolamo * SVIZZERA – Le date che si fissano sul diario della storia di una nazione sono determinanti per ricostruirne l’identità, il coraggio civile, il desiderio di non compiere in futuro i medesimi errori. L’11 aprile del 2013 è un giorno non facile per la Storia Svizzera, un giorno in cui bisogna chieder scusa a tutte le vittime di misure coercitive a scopo assistenziale che si sono protratte almeno fino al 1981. Fino a quell’anno, infatti, poteva accadere che un bambino fosse strappato alla famiglia per varie ragioni, perché si trattava di famiglie povere, monoparentali, o appartenenti a etnie giudicate non degne dell’educazione dei figli. I bambini sottratti alle famiglie venivano collocati forzatamente al lavoro presso fattorie o aziende o venivano rinchiusi in istituti rieducativi dalle misure violente e in cui venivano deprivati, in molti casi, di qualsiasi gesto di affetto o addirittura abusati sessualmente, si poteva giungere, in diversi casi, a interventi di sterilizzazione forzata. Si sa, la grande storia di un paese è composta dalle piccole storie individuali dei suoi cittadini e l’intenso romanzo di Begoña Feijoó Fariña, Per una fetta di mela secca, Gabriele Capelli Editore, attraverso un viaggio nell’anima di una bambina che diventerà donna nel suo calvario tra un istituto di suore e la collocazione come lavorante presso una famiglia incapace di prendersene cura, tenta di aprirci una porta sulle storie di tanti altri ex bambini che hanno potenzialmente attraversato lo stesso inferno. L’autrice sapientemente gestisce un linguaggio essenziale e a tratti infantile, restituendoci la genuinità della lingua di un personaggio verosimile, un linguaggio scarno ed essenziale come potenzialmente sarebbe potuto essere quello di una bambina che non è stata educata a mettere le parole guaritrici nelle proprie ferite. Lidia crescerà, metterà, anno per anno, tassello per tassello le tessere utili alla ricostruzione della propria identità, dovrà imparare a riannodare i fili del proprio io. Chiedere scusa da parte dello Stato potrà apparire come un risarcimento, ma ce ne sarà uno ben più profondo e grande del quale la protagonista potrà avvalersi e parlerà una lingua non istituzionale, ma la lingua del cuore. Lidia Scettrini diventerà consapevole di non avere alcuna colpa? Ciò le permetterà di evolvere, di crescere, di non restare bloccata nel dolore esasperante che, invece, rimane ferita inguaribile nella storia di tanti bambini vittime di abusi e violenze? Tra le pagine di questa storia si annidano, misteriose, le risposte. Grande merito dell’autrice è saper condurre per mano il lettore in un viaggio di riconoscimento che supera i tratti della storia nel suo specifico, per farsi messaggio universale. Begoña Feijoó Fariña sembra volerci ricordare il valore che per ciascun essere umano deve avere la sua infanzia e il suo bambino interiore, sembra volerci sussurrare piano che abbiamo il dovere di prenderci cura di quel bambino per diventare le persone adulte che desideriamo essere.
* Olimpia De Girolamo. Nasce a Napoli, città in cui studia e si laurea in Filosofia. Perfeziona le sue ricerche in linguaggi cinematografici e pedagogia e didattica teatrale tra Napoli, Roma, Torino, Milano e Parigi. Co-dirige l’Agorà Teatro di Magliaso, un piccolo teatro costruito in giardino nel 2005. È insegnante, attrice, formatrice adulti e ragazzi e curatrice della Rassegna Annuale “Autunno a Teatro”. Debutta come drammaturga con “La Mar” nel 2017 e vince il Premio Donne e Teatro (2017) e il Premio Fersen nel (2018). Link: chronicalibri.it
© L’Osservatore, 16.05.2020 Quella ferita nella storia svizzera di Elena Spoerl Per una fetta di mela secca di Begoña Feijoo Fariña PDF articolo: L’Osservatore PDF Link: L’Osservatore
© La Provincia di Sondrio, 14.05.2020 Quei bimbi ripudiati e mandati a servizio Di Clara Castoldi Tirano. Una scrittrice valposchiavina ha raccolto le storie in un libro presentato on line con la libreria “Il mosaico”. Fariña: «Era usanza in Svizzera, ma la gente preferisce non pensarci». “Per una fetta di mela secca” li ricorda. Un testo onesto, non furbo, dallo stile asciutto e chiaro. Una storia forte e leggera nel contempo. Che commuove. E si legge d’un fiato e che lancia un’ancora di salvataggio nell’avere fiducia nel cambiamento. Presentazione pubblica, tramite la diretta Facebook della libreria Il mosaico di Tirano, per il libro fresco di stampa dell’autrice valposchiavina Begoña Feijoo Fariña “Per una fetta di mela secca” pubblicato da Gabriele Capelli Editore. La storia tocca un argomento delicato della storia Svizzera, ma che ha la capacità di assurgere a vicenda universale. Fra gli anni Quaranta e Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare – contro la volontà dei diretti interessati – bambini e giovani a istituti o contadini.
«Se la mamma non poteva mantenere il figlio lo dava ai contadini per farlo lavorare»
De Girolamo: «Grande libro» Molte delle vittime di tali decisioni sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni. «Verrà spiegato a me e ricordato a tutte le altre che siamo ragazze incivili, che abbiamo bisogno di essere istruite – si legge fra le pagine –. Ci verranno elencati i nostri difetti e ci verrà ricordato che siamo lì perché fuori nessuno ci vuole, perché le nostre madri sono incapaci di gestire bambine così maleducate, così impure, così lontane da Dio e dalle sue leggi». Un «libro che ha una grande dignità e profondità», ha affermato Olimpia De Girolamo, insegnante di teatro e di italiano, durante la presentazione, dove si è evidenziato il non semplice percorso seguito da Fariña sia nel reperimento delle informazioni (a volte la scrittrice ha dovuto mandare molte mail per ottenere un’informazione) sia nella stesura stessa del libro. «Ho scoperto le misure coercitive nei confronti dei bambini in atto fino al 1981 tramite un documentario – ha svelato l’autrice –. Fare la scelta di scrivere questo romanzo è stata conseguente. Mi sono domandata se fossi autorizzata a parlare di qualcosa che non mi tocca, con il rischio di invadere la sfera privata di persone che hanno portato sulle proprie spalle questa sofferenza. Mi sono sentita obbligata per far sentire e conoscere quanto successo; ho sentito responsabilità come scrittrice di dare voce al dolore».
«Sono stati sfruttati, rinchiusi in istituti, maltrattati e anche sterilizzati»
La voglia di cambiamento «Le persone sapevano che queste cose accadevano – aggiunge –, ma preferivano non pensarci. Per certi versi era più facile nascondere un problema piuttosto che risolverlo e provare ad affrontarlo. Ai tempi capitava che una mamma divorziata finisse in povertà e non riuscisse a mantenere il figlio, pur amandolo, oppure il padre si risposava e non sembrava giusto dare al figlio una nuova madre». In questo libro, la parola diventa un balsamo, uno strumento di cura in tutti i sensi. La protagonista legge e sfoga le ingiustizie del mondo. «Ci sono persone che sono ancora arrabbiate con la vita e con chiunque, mentre la protagonista vuole uscirne e vuole trovare una giustificazione – prosegue Fariña –. Lei ha fiducia nel cambiamento».
In istituto solo per aver preso la merenda a un compagno “Per una fetta di mela secca” è la storia di Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata l’esperienza di molti. In seguito al divorzio dei genitori, Lidia resta a vivere con sua madre a Cavaione. Stanca delle prese in giro da parte di alcuni suoi compagni un giorno ruba la merenda a Piero (una fetta di mela secca, appunto). Accusata dai genitori del bambino – e a causa della povertà in cui lei e la madre vivono – viene mandata in istituto, dove subirà maltrattamenti da parte di alcune suore e sarà poi data in affidamento a un contadino. Nella nuova “casa” c’è anche Anne, la moglie malata del contadino, unico spiraglio d’amore per Lidia. Alla morte di Anne, Lidia, ormai diciannovenne, può finalmente liberarsi dall’orrore di quella vita e tornare a Cavaione per rifarsi una vita cercando di tenere a bada il dolore dei ricordi. Nel 2018 e in seguito all’istituzione del fondo di solidarietà istituito dalla Confederazione e dai Cantoni a sostegno di ex vittime delle cosiddette “misure coercitive a scopo assistenziale”, Lidia si troverà a dover compilare il modulo di richiesta, rievocando tutto ciò che le è stato rubato e scoprendo in sé la forza di vivere il presente. L’autrice è Begoña Feijoo Fariña, nata a Vilanova De Arousa, nel nordovest della Spagna, vive in Svizzera dall’età di 12 anni ed è laureata in scienze biologiche. Trasferitasi a Brusio nel 2015, ha fondato, con Chiara Balsarini, la compagnia «inauDita» e ha pubblicato il suo primo libro, una raccolta di racconti dal titolo “Potere p-ossesso dello Zahir e altre storie”. Nel corso del 2018 Begoña ha ricevuto la borsa letteraria della Fondazione Pro Helvetia, è stata nominata organizzatrice di eventi all’interno della commissione Casa Besta del Comune di Brusio, ha collaborato con la Pgi per la rappresentazione di alcuni spettacoli teatrali per e con ragazzi. Ha messo in scena anche a Spazio Centrale ad Arquino la pièce “Maraya, dell’amore e della forza”, di cui è autrice e attrice unica. È presidente della sezione Valposchiavo della Pro Grigioni Italiano e direttrice artistica della stagione teatrale “I monologanti” che si è interrotta a causa dell’emergenza virus.
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