Estratto: La chiave nel latte

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La chiave nel latte di Alexandre Hmine


Alla mia famiglia


«È tardi. Torna da tua moglie, Berto».
(Umberto Saba, Tre poesie alla mia balia)


Casablanca, Aeroporto Mohammed V, 1395 Hijri. Una marocchina prende posto su un volo intercontinentale. Ha diciassette anni ed è incinta. Fugge, per evitare il disonore.
Ad accoglierla in Svizzera ci sarà una sorella, lì accasata già da qualche anno.

Vezio, Canton Ticino, 1976. Sette mesi dopo aver partorito, la ragazza- madre affida suo figlio alle cure di un’anziana vedova.


Vedo l’Elvezia. I capelli sono grigi, laccati all’indietro, gli occhi stretti e scintillanti, le vene del collo in rilievo. Indossa una gonna scura al ginocchio, le calze di lana e gli zoccoli. È seduta a capotavola, scomposta.
Vedo anche la zia e suo marito. Lì, in piedi davanti alla credenza del tinello. Lei è vestita di nero. Sulla sua pelle mulatta luccica l’oro. Lui porta una camicia chiara. È quasi calvo.
Guardano tutti verso il basso. Sorridono amabilmente. Guardano me.
Io sono sul tappeto, non so se seduto o sdraiato.
Forse è solo una fotografia, forse l’ha scattata mia madre.

Vedo le sbarre del lettino, il muro scrostato, la camera illuminata da una luce opaca. L’aria è viziata. Gli zoccoli dell’Elvezia fanno scricchiolare il pavimento. Veste una camicia da notte bianca a fiorami. Si avvicina, afferra il piumino appallottolato ai miei piedi e mi copre fino alle spalle.
Non dico niente. Mi rannicchio sul fianco, infilo le braccia tra le ginocchia e aspetto.
Lei mi accarezza la nuca. Le piace, le piace sentire sul palmo i miei riccioli. Invece a me piace far scorrere le dita sul dorso delle sue mani, seguire il tracciato delle vene, di tanto in tanto schiacciare, con delicatezza.

Le forme e i colori sbiadiscono. Sento l’Elvezia:
«Sia fatta la tua volontà. Come in cielo così in terra…»
Le parole arrivano ovattate, forse perché ho nascosto la testa sotto il piumino, oppure perché mi sto addormentando. Ho imparato sia il Padre nostro sia l’Ave Maria. Ripeto mentalmente:
«Come noi li rimettiamo ai nostri debitori…»
Le ascolto ogni giorno. Capita che l’Elvezia mi chieda di recitarle con lei, spesso prima dei pasti domenicali, oppure che le intoni lei, da sola, a fior di labbra e capo chino.
«Non ci indurre in tentazione…»

Sento il pavimento che scricchiola. Le molle del lettone che cigolano.
L’Elvezia tira la cordicella. Tutto nero.
Amen.

Gioco nel cortile. Vedo l’asfalto rattoppato. Il mio triciclo abbandonato in un angolo. L’azzurro vivo delle imposte, socchiuse, perché il sole entri nel tinello senza accecare. La cassetta delle lettere, in metallo, appesa al muro. La porta d’ingresso – le venature del legno chiaro –, il vetro smerigliato. La finestra ribaltabile del bagno. La facciata grigia, imponente, di un’altra casa che delimita un lato del nostro cortile. Il muretto e le inferriate appuntite. Il ripostiglio dove è accatastata la legna. La scala che scende verso l’orto.
Forse rincorro il gatto.
Al di là della rete metallica, il palazzo di altri vicini – non so contare i piani –, l’albero che cresce al centro del loro giardino e l’erba alta, trascurata. Al di qua, un piccolo lembo di terra che l’Elvezia coltiva e la prima pietra di una seconda scala.
Forse inciampo.
Capitombolo.

Piango in fondo alla scala. Le mani graffiate, il sangue che cola, le tempie che pulsano doloranti. Chiamo l’Elvezia e urlo.

Sono seduto sulle sue ginocchia. Non devo tirare su il narìcc, guai. Dice bofagh sü e mi massaggia il bernoccolo con l’Euceta.

Sposto il rotolo antispifferi, apro la portafinestra e affondo gli stivali nella neve fresca.
Respiro l’aria tersa d’altura e ammiro il panorama: le montagne che si confondono nel cielo lattiginoso e nelle distese di prati.
Mi avvicino al davanzale. Accarezzo il manto soffice. Ne abbatto una parte con l’avambraccio. Anche la strada che scende fino alla piazza è coperta di bianco – una lunga passerella ancora intatta. Il figlio del contadino lavora per segnare una via nel cortile.

Bella la neve che resta in equilibrio sui fili elettrici.

Raggiungo l’angolo più vicino. Non vedo la strada principale – ur stradón. Colpa dello spazzaneve che liberando la carreggiata ha formato una barriera. Distinguo appena la rete metallica. Più in alto si scorgono alcuni squarci di roccia, la staccionata del parco giochi e l’albero.
Attraverso il balcone di corsa. Osservo il giardino dei vicini completamente imbiancato: la coltre attenua le ondulazioni del terreno, nasconde la vegetazione e gli oggetti.
Leggo l’ora sul campanile. Il bar apre più tardi.

Prendo la mira. Voglio colpire l’Elvezia con una palla di neve fresca. Non la centro ma la spavento. Infatti si volta, ansante, si massaggia la schiena. Mi sgrida, dice che devo coprirmi bene, l’è un frecc dala madona. Poi riprende a spalare.

Vedo i tovaglioli di stoffa piegati accuratamente, il barattolo arancione dell’Ovomaltina, la zuccheriera in ceramica e due piatti sui quali l’Elvezia ha preparato gli Zwieback. Sono spalmati di burro e marmellata – ciliegie, more, prugne o fragole. Devo aspettarla senza far dondolare la sedia, con le mani sul tavolo e la schiena diritta. Affranco il tovagliolo al bavero del pigiama.
Sento gli zoccoli strascicati sulle piastrelle. Arriva impugnando le chicchere fumanti. Appoggia la mia accanto al piatto, poi versa l’Ovomaltina invitandomi a soffiare, che scotta. D’altronde non devo mica prendere il treno.

Ubbidisco, soffio.
Nell’attesa mi racconta del marito defunto – l’ha costruita lui la casa che adesso abitiamo noi –, storielle di quando era bambina – delle faticose scarpinate per raggiungere la scuola, dei suoi maestri e delle classi numerosissime.
«Che cucù» si rimprovera quando la memoria la tradisce.
Mi piace ascoltarla.

Comincio a zufolare. L’Elvezia aggrotta la fronte, si scurisce in volto e ammonisce:
«Mócala! A tavola non si canta e non si cifóla!»
Mi scappa una risata. Allora lei minaccia di suonarmele:
«L’è scià!» dice fissandomi. «Va’ che la ’riva!»

L’asilo si intravede appena, eppure quando passo guardo sempre. Già da lontano metto a fuoco la siepe che lo protegge e la fermata della posta, o meglio, dell’auto-postale. Avvicinandomi, osservo il cancello, l’ingresso e un pezzo di scivolo – o di altalena? Segna un confine, il punto in cui cambia la pendenza della strada – l’automobile prende velocità – le case si diradano, lasciano spazio agli alberi.
Mi volto e vedo la facciata scoperta le finestrelle i giochi i pendii verdi.

Percorro il breve corridoio, fino al mio posto. Appendo il sacco al gancio e mi siedo sulla panchina.

Tasto il contorno della casetta cucita sul mio grembiule.

A destra c’è la sala più illuminata, dove sono allineati i cavalletti. Qui disegno strisce di cielo azzurro, semisfere di sole, raggi che scendono nel bianco, altre case, camini che fumano.
A sinistra, un salone polivalente, quadrato.

Dalla brandina vicina si diffonde un odore di urina.

Oggi arriva San Nicolao dai grossi scarponi. Arriva col trattore.
Noi cantiamo:
«E se le mamme dicon di sì, tu porti un sacco grosso così.»
Aspettiamo il nostro turno, seduti sulle panche. Ci chiama per nome. Distribuisce sacchetti colmi di spagnolette, mandarini, marzapane e cioccolatini.
I bimbi son buoni. La mela non c’è.
Smanio dalla curiosità di scoprire chi si nasconde sotto la barba bianca, lavoro di immaginazione.
Qualcuno dice di saperlo.
«Chi è?»
«Segreto», e fa il gesto di chiudere la cerniera fra le labbra.

Sono inginocchiato sul tappeto del tinello e allineo letterine colorate, quelle con la calamita, nella speranza di riuscire a comporre una parola. Un regalo, non so di chi. Seduta sulla poltrona accanto alla stufa, l’Elvezia legge la Libera Stampa. Prima di voltare le pagine s’inumidisce la punta del dito. Ogni tanto scosta il giornale e piega il collo per guardarmi da sopra le lenti. Dalle due finestre entra la luce pomeridiana.
Rovisto nel mucchio, sollevo un pezzo, lo studio per decidere se tenerlo e in quale posizione appoggiarlo, richiamo l’attenzione dell’Elvezia e le chiedo che cosa ho scritto. Mi ha consigliato di formare parole corte – quattro, al massimo cinque lettere – e di usare le vocali, ma io spesso compongo sequenze lunghissime zeppe di consonanti. Non le do retta perché mi piace la sua reazione quando il risultato è impronunciabile.
ASDFGHJKL
Ride di gusto, scuote la testa e dice:
«No, nan, mia inscì.»
E allora io rimescolo le lettere e ricomincio: consonante, vocale, consonante, vocale.
MAMA
L’Elvezia osserva. Legge e corregge.

La stufa a legna scoppietta. Vedo la ghisa e il rettangolo arancione. Il tubo metallico che sale, si incurva ed entra nella parete. Sono sdraiato su una coperta, con le gambe allungate sui braccioli della poltrona. Sull’altra poltrona riposa il gatto. Fuori è buio.
Accanto alla macchina per cucire a pedale c’è una radiolina. Nera, più profonda che alta. Segna anche l’ora: su quattro cilindri rotanti dove sono impressi i numeri in bianco.
Solitamente l’Elvezia accende l’apparecchio quando vuole ascoltare il notiziario, oppure la domenica pomeriggio. Per La costa dei barbari.
Non è domenica. Deve essere sabato. Seguo la radiocronaca delle partite del campionato svizzero di hockey su ghiaccio. Tifo per l’HCL.
Sonnecchio. Il commentatore alza la voce. Mi risveglio.
L’Elvezia mi dice di filare a letto.

Il mio numero preferito è il nove. Controlliamo subito, spesso prima ancora di aver preso posto a sedere. Ci precipitiamo dentro, solleviamo il bicchiere per leggere e gridiamo:
«Sette!»
«Uno!»
Vedo le piastrelle rosse, i tavoli incolonnati e i due accessi. Là in fondo, la cucina – sento il profumo del pranzo. Alle mie spalle, altre file di tavoli occupate da bambini affamati e chiassosi, e le finestrelle, lassù, che illuminano il lato lungo della sala.
«Nove!»
«Che fortunato!»
Mangiare alla mensa scolastica mi piace. La pastasciutta condita con panna e prosciutto. I bastoncini di merluzzo che intingo nella maionese. Il budino al cioccolato.
«Facciamo scambio?»
Bevo il Grapefruit.
Mi scoccio solo quando mi tocca sparecchiare.

Dovrebbe arrivare a momenti. Lo aspetto in cortile. Una serata di tarda primavera. Il sole non è ancora tramontato. Calcio il pallone contro il muro. Destro e sinistro. Col mancino sono più preciso.

Riconosco l’automobile. Eccolo finalmente. Abita di fronte a noi. Rallenta e parcheggia sullo stradone, accanto al nostro ripostiglio. Non sto nella pelle. Faccio rotolare il pallone verso l’angolo del cortile e corro a spalancargli il cancello.
Lo vedo. Blocca l’apparecchio con le braccia contro l’addome. Impugna un sacco che contiene una scatola.
«Uela lì» mi dice non appena si accorge di me.
Ricambio il saluto e gli apro anche la porta d’ingresso.
«L’è permèss?» chiede attraversando il corridoio.
Ha sentito. L’Elvezia esce dal cucinino per accoglierlo. Andiamo tutti nella mia cameretta. Ci pensa lui a mettere in funzione il televisore. Dopo averlo posato sul comò, collega il cavo dell’alimentazione, poi sistema l’antenna, infine accende l’apparecchio e comincia a regolare la ricezione dei canali.
«Ta ciapat mia la scossa di volt?», l’Elvezia.

Restano il grigio che sale nell’azzurro – un fumo senza fuoco – e l’eccitazione. Sbiadiscono persino le bandierine rossocrociate la scalinata la chiesetta le rocce gli alberi l’erbetta verde.
Festeggiamo il compleanno della patria.
Dove sono? seduto sul bilzo balzo? sulla giostra? nella vasca della sabbia? sull’altalena? sulle gradinate del mini teatro? sul prato? oppure corro irrequieto qua e là.
E i cani? Non li vedo correre furiosi, azzannare le reti metalliche, non li sento abbaiare.
Il fumo si addensa.
Quest’anno ho contribuito anch’io. L’Elvezia mi ha consegnato un ciocco.

«Ci son due coccodrilli e un orangutango, due piccoli serpenti, un’aquila reale, un gatto, un topo, un elefante. Non manca più nessuno. Solo non si vedono…», e qui la maestra appoggia le mani alle tempie, tende gli indici e muove la parte superiore del corpo. Come un toro.
Noi formiamo un semicerchio, seduti con le gambe incrociate sulla moquette verde. Alle nostre spalle i banchi sono disposti a ferro di cavallo.
Gli occhi neri della maestra, immobili nel bianco. La pelle bianchissima.
«…i due unicorni», e qui sorride. Poi comincia ad applaudire.
La imitiamo.

Gioco sulle piastrelle gelate del corridoio. Da una parte della pista, per eliminare i due angoli, ho appiccicato col nastro adesivo delle strisce arrotondate di cartone, dall’altra, invece, per evitare che il disco esca mi sono servito delle ciabatte. Ho costruito le porte utilizzando delle matite spezzate, altro cartone e le retine delle arance. Con i gessetti colorati ho tracciato i terzi di difesa e la linea centrale. Il disco, me l’ha fornito l’Elvezia: un bottone nero di quelli grossi così. Ogni giocatore è composto da tre o quattro pezzi di Lego. Sulla schiena ho scritto col pennarello nero il numero di maglia. Le squadre non impegnate riposano più in là, sotto la rastrelliera.
Oggi l’HCL affronta il Davos. Muovo i giocatori e riferisco la cronaca:
«I grigionesi lottano a denti stretti… Liberazione vietata… Due minuti di penalità per colpo di bastone… Rete!»

«Vosa mia!»
L’Elvezia mi ricorda di non gridare, che altrimenti le fischia l’apparecchio acustico. Sta preparando il budino al caramello. Sento il profumo e il rumore del frullino che sbatte contro i bordi della pentola.
Abbasso la voce.

Improvvisamente il vetro smerigliato si scurisce. Arriva qualcuno. Devo sospendere la partita. Entra un’amica dell’Elvezia. Si scusa:
«Pardon», e attraversa il corridoio cercando di non calpestare i giocatori.
Rimetto a posto le balaustre e la porta. Riprendo il gioco con un ingaggio a centro pista.
«Serpentina di Bob Hess che si beve la difesa gialloblù e insacca.»

I negozietti di alimentari sono due, ma noi ci riforniamo quasi sempre da quello accanto al bar, sullo stradone. Per raggiungerlo bisogna salire una piccola rampa di scale e percorrere qualche metro lungo il perimetro dell’edificio.

L’Elvezia mi ha incaricato di comprare il pane, un lunghìn.
Vedo la porta di metallo, scolorita in più punti. La apro: sento il campanello che avvisa la bottegaia. Abita al primo piano. È anziana. Tocca aspettarla, anche perché a volte non sente, tanto che è necessario urlare il suo nome o riaprire la porta da dentro così che il campanello suoni di nuovo.
Lo spazio è piccolo. C’è merce ammassata ovunque. Il pane non si vede. Lo tiene nel retrobottega. I dolciumi sì, sono esposti su un tavolo alla mia sinistra e sul bancone: gli Smarties, le caramelle Sugus, i Chupa Chups, le tavolette di cioccolato – il mio preferito è quello al latte.
Nell’attesa vien voglia di rubare.

«Ero in bottega tic e tac che lavoravo tic e tac e non pensavo tic e tac alla prigione tic e tac.»
Le ho insegnato sia il testo sia la coreografia.
«Ma un brutto giorno tic e tac la polizia tic e tac mi portò via tic e tac da casa mia tic e tac.»
Cantiamo e battiamo le mani a tempo.
«Ma io furbone tic e tac presi un bastone tic e tac e glielo diedi tic e tac sul suo testone tic e tac.»
L’Elvezia è seduta sulla poltrona accanto alla stufa. Io sono in piedi davanti a lei. Accelero il ritmo, tic e tac, finché non riesce, tic e tac, a starmi dietro. Tic e tac! tic e tac! tic e tac!

Squilla il telefono: un suono potente. Mi tiro su per rispondere. Vedo la tovaglia a scacchiera – il bianco e l’arancione –, l’apparecchio grigio posato sul tavolino nell’angolo della mia cameretta.
Sento la sua voce, dolce e premurosa, che chiede come sto, se ho bisogno di qualcosa, che dice domani vengo su a trovarti, e vuole sapere se sono contento.

Il bagno è piccolissimo. La porta è logora e difettosa. Cigola e traballa. Si può accostare ma non chiudere a chiave. Capita che si apra da sola, per effetto di una corrente d’aria, oppure perché qualcun altro vorrebbe entrare. La tazza del water è messa perpendicolarmente rispetto all’ingresso.
Non voglio che mi vedano il pirlino: quando faccio pipì, per precauzione pianto la gamba sinistra più avanti e torco il bacino verso destra.

L’Elvezia porta con sé dei fiori e un innaffiatoio. Io cerco di condurre sull’acciottolato il mio pallone nuovo – un Tango bianco e nero. Mi sfugge, soprattutto quando la strada comincia a piegare verso il basso.
Non incontriamo nessuno, solo qualche gatto randagio. L’ultimo tratto di strada scende troppo ripido, impossibile tenere sotto controllo il pallone. Lo prendo in mano.

Il cancello è arrugginito. Devo aiutarmi con la spalla e applicare molta forza per aprirlo. Entro, lascio cadere il pallone, mi ci siedo sopra e aspetto l’Elvezia. Si è sicuramente fermata alla fontana per riempire d’acqua fresca l’innaffiatoio.

Vedo che arriva. Prima di entrare si aggrappa al cancello e prende fiato. Si massaggia la schiena, là dove avverte dolore.
Adesso è inginocchiata davanti alla tomba del marito. Io alleno il dribbling zigzagando tra le lapidi.
Manca spazio. C’è la ghiaia. Difficile accelerare e sterzare.
Vado sul vialetto lastricato che separa le due ali del cimitero e palleggio. Di testa è difficile.

Il maestro ci ha radunati sulla moquette verde. Siamo seduti in cerchio. Contare e calcolare mi piace. Ho imparato in fretta. A casa mi esercito, con l’Elvezia o da solo. Mi diverte contare il più velocemente possibile fino a cento, in italiano o in dialetto:
«Vün düu trii…»

Invece il nostro compagno più discolo non ne vuole sapere di sommare e raggruppare i legnetti. Anche oggi li prende e li scaglia contro qualcuno. Almeno finché il maestro non gli rifila uno scapaccione.
Mi vedo lì, nella luce del mattino, a spostare legnetti e a suggerire cifre.

Sono sempre diciotto. Prendo dal cestino una fetta di pagnotta nera e inizio a sminuzzarla per fare la scarpetta. L’Elvezia nota il raviolo rimasto nella mia fondina. So che non mi costringerà a mangiarlo. Ormai si è arresa. Sono sempre diciotto. Si limita a chiedere:
«Ta l’ finissat mia?»
No, le dico che oggi si è confusa, che erano diciannove. Lei scoppia a ridere. Poi, servendosi della forchetta, infilza il raviolo, lo lascia cadere nella sua fondina e lo taglia a metà.
Ne esce il ripieno di carne macinata.

La giornata è tiepida e soleggiata. Il pubblico assiste in piedi appiccicato al rettangolo di gioco oppure seduto sulle panchine sopraelevate che costeggiano un lato del campo.
A scuola vengo considerato uno dei migliori: so controllare, dribblare e calciare. Ma qui è tutto più complicato. Sento l’emozione, i compagni non riescono a passarmi la palla, corro a casaccio nella zona d’attacco, spaesato, i difensori avversari sembrano giganti cattivi e insuperabili.
Mi distraggo guardando il pubblico che urla, incita, contesta l’arbitro.
Il maestro, che per l’occasione veste anche i panni dell’allenatore, pretende più movimento, bisogna smarcarsi, dice che non dobbiamo correre in branco verso il pallone, sembriamo pecore.

Mi muovo sulla linea del fuorigioco alzando il braccio. Qualcuno dice di marcare Quellonegro.


continua…

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