Alexandre Hmine “La chiave nel latte”


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Premio svizzero di letteratura 2019

Alexandre Hmine
La chiave nel latte
Romanzo
15×21 cm, 208 pp, 18,00 Euro
ISBN 978-88-97308-64-5

Premio Studer/Ganz 2017

Disponibile anche in versione digitale su più piattaforme

Link: Breve estratto

“La chiave nel latte” racconta la storia di un ragazzo di origini marocchine che cresce in Ticino, nell’Alto Malcantone, dopo che la madre lo ha affidato a un’anziana vedova di nome Elvezia. Il romanzo procede per frammenti, ricordi che la voce narrante riporta alla luce: i giocattoli dell’infanzia, le feste religiose, le partite di hockey sull’asfalto, le infatuazioni; ma ci sono anche le vacanze a Casablanca, una città che il protagonista vede per la prima volta a dieci anni e che immediatamente suscita in lui sentimenti di spaesamento e di rifiuto. Pur sentendo sua la Svizzera, non potrà eludere una messa in discussione della propria identità che lo porterà a interrogarsi e a interrogare i lettori fino alle ultime pagine del libro.

Una scrittura essenziale e precisa, che mescola con naturalezza lingue e culture diverse, dal dialetto dell’Alto Malcantone a quello del Marocco, dal gergo sportivo ai classici della letteratura italiana.

Alexandre Hmine è nato a Lugano nel 1976. Dopo aver conseguito la maturità presso il Liceo 2 di Lugano, si è laureato in Lettere all’Università di Pavia. È stato redattore per la RSI, ha collaborato col settimanale “Azione” e dal 2004 insegna italiano nelle scuole superiori del Cantone, dal 2011 al Liceo 1 di Lugano. “La chiave nel latte”, il suo romanzo d’esordio, ha vinto il Premio Studer/Ganz 2017 per la migliore opera prima.


RECENSIONI

© Andreaconsonniwrong, 17.01.2022

“La chiave nel latte” di Alexandre Hmine (Gabriele Capelli Editore)

“È diventato un appuntamento fisso. Regolo l’antenna per migliorare la qualità dell’immagine, chiamo l’Elvezia e torno a sdraiarmi. Sento i suoi zoccoli che accarezzano la moquette, sbatacchiano sulle piastrelle e scricchiolano sulle assi di legno.

Le imposte sono chiuse. La mia cameretta è invasa dalla luce del televisore.

Eccola. Sposto il piumino affinché lei possa prendere più comodamente posto sulla sponda del letto.

Sento le sue risate, che spesso si trasformano in colpi di tosse. La divertono molto Zuzzurro e Gaspare, D’Angelo e Has Fidanken o il Beruscao. Invece mal sopporta i tormentoni di Greggio, quando dice cerrrto che è lui, o bada ben bada ben bada ben. Scuote la testa e commenta:

“Vardigh a dré!… Blagón!… Tagliàn!… Asnón!”

A me piacciono le sfitinzie, più di tutte Tini Cansino.

Finché non mi addormento.” (pp. 26-27)

Che bello leggere i libri facendosi cullare. Perchè è questo mi è accaduto leggendo il romanzo d’esordio di Alexandre Hmine “La chiave nel latte” (Gabriele Capelli Editore), Premio Studer/Ganz 2017. Mi sono sentito letteralmente cullato dalla voce dell’autore, nato a Lugano e di origini marocchine, che racconta con pochi innesti narrativi la propria vita dall’infanzia fino all’età adulta.

Ecco, io mi fermerei qui perché quella di Hmine è una voce che ti prende e ti sbatte a letto e poi ti riprende e ti fa correre per strada e giocare e giocare e poi ti accarezza e poi ti fa addormentare e poi ti fa il solletico e ti fa venire voglia di rimanere zitto e non aggiungere altro.

Poi se penso all’Elvezia, l’anziana donna alla quale il protagonista è stato affidato dalla giovane madre, mi vengono in mente le mie due nonne e al peso che hanno avuto nella mia vita. I loro capelli, le loro voci, i loro racconti, le sigarette, la busecca, la cassoela, le quaglie con la panna, la faraona, i racconti di guerra, il lavoro in fabbrica, i cimiteri. La mia nonna materna che mi avvolge nei suoi capelli lunghi due metri e mezzo e mi chiede perché sto sempre male. La mia nonna paterna che divide una sigaretta con me sul balcone di casa e mi racconta di nazisti, zucchine col burro, transatlantici, funghi, Walker Texas Rangers e che mi chiede di non morire.

Poi se penso al Liceo, penso a che razza di deficiente sono stato a non studiare abbastanza.

Poi penso che ogni giorno mi sento uno straniero qui a Lugano. Straniero dentro me stesso. Straniero nelle mie parole. Straniero perché ho bisogno di un permesso per amare, lavorare, mangiare, dormire. E poi insofferente, estraneo, lontano, pieno di sogni.

Perché la Svizzera è dentro di me ma fuori di me.

Perché i libri mi hanno salvato la vita e continuano a salvarmela.

Perché mia madre è sempre stata un ponte.

Un ponte fra il dolore e i sogni.

Fra la morte e i libri.

Fra la sua famiglia e quella di mio padre.

Penso alla sua mano calda e alla sua ira improvvisa.

Ai miei racconti che non ha mai letto.

A lei che mi guarda in ospedale e mi dice: Facciamo una scommessa su chi muore prima fra me e te. Ci stai?

E purtroppo ci sono stato e ho pure perso.

Poi se penso all’Alto Malcantone penso alla mia Brianza, alla provincia, al paesino dove sono cresciuto, al cortile, ai vicini, agli amici, le amiche, il primo bacio, le corse in bicicletta, i cartoni animati giapponesi, la mia solitudine.

“La chiave nel latte” è un romanzo fatto, di frammenti, di schegge, di stomaco, di cibo, di vuoti, di passioni, di salite, di boschi, di fallimenti, di odori, di funerali, di un’identità che si costruisce, si smembra, si autodistrugge, si odora, si profuma, si lava, si racconta, si determina, si apre.

Un romanzo davvero bellissimo.

Tutto qui.

Link: Andreaconsonniwrong


© Sconfinamenti, 11.08.2021

Dov’è casa?
Di Valeria Camia

Dov’è casa? Quale rapporto tra la cultura, i luoghi della formazione e le origini geografiche? Possiamo abitare in un luogo ma vivere, con il cuore, in un altro? E come gestire la curiosità, a volte al limite dell’invadenza, di chi ci attribuisce un’appartenenza altra rispetto a quella che sentiamo nostra? Ho sempre pensato che integrazione e accettazione facessero rima con educazione e formazione….

Incalzata su questi temi, ho trovato aiuto dalla lettura di “La chiave nel latte”, romanzo di Alexandre Hmine (Premio Studer/Ganz 2017 e Premio svizzero di letteratura 2019), che tocca la questione dell’appartenenza nel modo più profondo e radicale. A tratti con leggerezza, come solo gli occhi di un fanciullo permettono di fare; a tratti con la drammatica profondità di un adolescente che si pone, consapevolmente, domande ultime su se stesso nella società e sulla cultura circostante.

Il romanzo segue la crescita (fisica e soprattutto emotiva) di un giovane, nato da madre marocchina ma cresciuto in Svizzera e affidato sin dai primi mesi di vita alle cure di un’anziana donna, che abita in un paese ticinese di montagna e con la quale il bambino rimarrà fino agli anni dell’adolescenza. Elvezia, così il nome della donna, accudirà il giovane ‘come uno di loro’, insegnandogli il dialetto locale e cucinando per lui, di famiglia musulmana, la “luganiga”, la salsiccia tipica ticinese. Con grande apprezzamento da parte del giovane! Fino a quando, ricongiuntosi con la madre, egli si troverà, naturalmente, a rifiutare il piatto a base di maiale, iniziando a cogliere – allo stesso tempo – gli sguardi ‘curiosi’ degli altri attorno a lui, dal colore della pelle ‘scura’. Eppure, per il giovane la Svizzera rimarrà ‘casa’. Come non mangiare carne suina sarà parte della sua normalità. Ma senza per questo imparare l’arabo, mai! Pur tifando per la nazionale marocchina… Costituisce ciò una contraddizione?

Tra le settimane di vacanza trascorse in Marocco, la casa tra i monti di Elvezia e il campo di calcio ‘locale’ in Svizzera, dove avvengono anche i primi – presunti – ‘veri’ amori e esplodono le prime ribellioni, maturano sentimenti contrastanti, di attaccamento, straniamento, incomprensione ma anche riscatto, dove il filo sottile tra certezze e dubbi è in continua tensione. E dove l’equilibro è raggiunto anche grazie alla passione per la lettura. Così lo studio diventa riscatto: nel confronto con i grandi classici, nelle parole letterarie, negli esami universitari e nello spazio della cultura accademica in generale, il protagonista del libro arriverà a maturare la consapevolezza che le identità sono permeabili e fluide, soprattutto non sono auto-esclusive.

Qualche tempo fa ho avuto modo di chiedere a Alexandre Hmine che ruolo rivesta in Svizzera, dove circa un quarto della popolazione totale è costituita da stranieri, la scuola e come possa aiutare “i nuovi arrivati” a costruire ed accettare la complessità e stratificazione della propria identità. Credo che la forza delle sue parole non possa passare inosservata:

“Come docente di italiano mi capita di riflettere insieme agli studenti sul tema della diversità, e ovviamente pure sulla similarità, tra culture. Inoltre attraverso i componimenti liberi, i ragazzi hanno l’opportunità di trasformarsi in “scrittori” e raccontarsi (ad esempio, raccontare che cosa può succedere nella casa di un ragazzo di origine indiana che oggi vive in Ticino o come vive e ragiona un ragazzo che ha genitori musulmani). La scuola assume, in tal modo, una funzione importante, forse la più importante, per favorire l’integrazione. Nelle classi con varie etnie e culture differenti, l’ambiente scolastico può diventare il luogo in cui le personalità, i caratteri, i pregi, e i difetti dei singoli individui così come le tradizioni si incontrano e ‘conoscono’. L’ora di italiano si presta molto bene a questo proposito, ma non è, e non deve, essere il solo momento di integrazione. Ad esempio, si possono organizzare incontri, manifestazioni, conferenze, dibattiti che toccano la tematica dell’Altro e della conoscenza reciproca favorendo il sorgere della consapevolezza, nei ragazzi, della natura fluida, liquida, stratificata e complessa dell’identità individuale. Certamente la questione identitaria e l’integrazione tra culture non può risolversi se, da un lato, l’autorità politica non mette in campo le risorse necessarie (per lavorare con classi meno numerose e per organizzare corsi specifici, ad esempio), e dall’altro le famiglie dei ragazzi non sono disponibili ad abbracciare progetti di integrazione”.

Link: Sconfinamenti


© CARTESENSIBILI, 28.02.2020

MONUMENTO ALL’ELVEZIA
“La chiave nel latte” di Alexandre Hmine
Note di lettura di Lucia Guidorizzi

A volte il caso offre doni inaspettati. L’anno scorso mi trovavo a visitare la Biblioteca Querini Stampalia con un gruppo d’ingegneri per apprezzare gl’interventi architettonici compiuti nel palazzo da Carlo Scarpa, quando ho visto che in una sala c’era un incontro nell’ambito della rassegna internazionale di letteratura “Incroci di civiltà” che si tiene ogni anno a Venezia: ho abbandonato il gruppo e sono entrata nella sala per seguire l’incontro di cui era protagonista Alexandre Hmine, autore del romanzo “La chiave nel latte”.

Mi sono trovata subito dentro una situazione che mi ha coinvolto a tutti i livelli, sia per il valore letterario dell’opera, sia per il contenuto della vicenda, sia per la qualità umana dell’autore che ho avuto la fortuna d’incontrare. È un romanzo la cui lettura lascia il segno e la cui vicenda continua a lavorarti dentro, come accade sempre davanti alla letteratura di qualità.

È la storia di un bambino, figlio di una ragazza giovanissima che fugge incinta in Svizzera dal Marocco e che, dopo aver partorito, affida il figlio ad una vecchia vedova di nome Elvezia che lo cresce nel Canton Ticino: le due lingue del bambino saranno perciò l’italiano ed il dialetto locale.

La grande eroina di questo romanzo è l’Elvezia che si staglia con la sua presenza adamantina in tutto il romanzo: è una donna che con la sua ruvidezza, le sue ombrosità e la sua intensità inespressa domina la scena, diventando un grande personaggio letterario. Sarà lei ad offrire al bambino quel radicamento, quella presenza costante, quella sicurezza affettiva di cui necessita.

Sono inginocchiato sul tappeto del tinello e allineo letterine colorate, quelle con la calamita, nella speranza di riuscire a comporre una parola. Un regalo, non so di chi. Seduta sulla poltrona, accanto alla stufa, l’Elvezia legge la Libera Stampa. Prima di voltare le pagine si inumidisce la punta del dito. Ogni tanto scosta il giornale e piega il collo per guardarmi da sopra le lenti. Dalle finestre entra la luce pomeridiana.
Rovisto nel mucchio, sollevo un pezzo, lo studio per decidere se tenerlo e in quale posizione appoggiarlo, richiamo l’attenzione dell’Elvezia e le chiedo che cosa ho scritto. Mi ha consigliato di formare parole corte – quattro, al massimo cinque lettere – e di usare le vocali, ma io spesso compongo sequenze lunghissime zeppe di consonanti. Non le do retta perché mi piace la sua reazione quando il risultato è impronunciabile.
ASDFGHJKL
Ride di gusto, scuote la testa e dice:
“No, nan, mia inscì.”
Allora io rimescolo le lettere e ricomincio: consonante, vocale, consonante, vocale.
MAMA
L’Elvezia osserva. Legge e corregge.

Le opere autobiografiche sono difficili perché richiedono da parte dell’autore la capacità di mettersi a nudo, esponendosi in tutta la propria vulnerabilità e la sincerità è una condizione imprescindibile per poter evitare derive narcisistiche od intimistiche che potrebbero annoiare o infastidire il lettore.

Alexandre Hmine riesce appieno nel suo compito, raccontandosi in modo oggettivo, distaccato, quasi minimalista, senza mai indulgere o caricare troppo la narrazione. Essendo vissuto nel Canton Ticino ed avendo studiato Lettere all’Università di Pavia, ha molti autori di riferimento italiani tra i quali Giuseppe Fenoglio, Primo Levi, Mario Soldati, Luigi Malerba, Michele Mari, Vitaliano Trevisan. Fra gli stranieri invece, i suoi preferiti sono David Foster Wallace, Paul Auster, Thomas Bernhard, Cormac McCarthy, Orhan Pamuk e Josè Saramago: già dalla lettura di questi nomi si comprende come la sua formazione letteraria sia stratificata e complessa, anche se l’autore dichiara che non pensa di poter ispirarsi a loro ed afferma che i modelli a cui guarda più spesso li trova in poeti come Umberto Saba, Vittorio Sereni, Eugenio Montale dei quali ammira l’estrema precisione ed il ritmo.

Le pagine del suo romanzo infatti sono nitide e procedono con un ritmo musicale per piani di sequenze quasi cinematografiche.

Riconosco quel bianco! Il vetro smerigliato tanto bianco! Attraverso il corridoio e mi affretto a spalancare la porta. Lo strato di neve caduto durante la notte è più basso di me. Il cortile, un ostacolo insormontabile. Vedo le punte delle inferriate, non il muretto. Respiro l’aria pura, fermo sullo zerbino. Mi chiedo come farò a raggiungere la fermata dell’auto-postale.
Chiamo l’Elvezia, che venga a vedere.
Non sente. La raggiungo in cucina.
Ha già visto, dice che provvederà a spalare la neve più tardi.
Ma come?
“Gh’è mia pressa” mi rassicura. Tanto oggi le scuole restano chiuse.
“Dabon?”
Poi esulto, come quando segna Kenta Johasson.”

Il bianco della neve, del latte, di Casablanca, attraversa le pagine del romanzo, creando luminosi ed algidi cammei narrativi. L’identità del protagonista è sempre disattesa dalle aspettative degli altri su di lui che si aspettano una maggiore aderenza da parte sua a degli stereotipi facilmente riconoscibili e perciò rassicuranti. Ed è invece in questa disappartenenza che si radica l’identità del ragazzo, che si identifica piuttosto con cartoni animati, videogames, personaggi del mondo calcistico o autori della grande letteratura che con un’etnia, una religione o una nazione, rivelando quanto i confini identitari siano labili ed incerti per tutti.

Crescendo, il ragazzo torna a vivere con la madre, che nel frattempo si è trovata un nuovo compagno e che ha con lui una figlia: tutto questo crea tensioni conflittuali e gelosie nell’adolescente. Nel frattempo l’Elvezia, divenuta vecchia, prende atto con dolore di non avere più la forza di accudirlo. Questo distacco crea una profonda e dolorosa cesura nel libro, che viene raccontata magistralmente.

Adesso l’Elvezia è seduta sulla poltrona. I suoi occhi umidi e gonfi, continuano a sfuggirle verso l’alto. Anch’io cerco rifugio altrove. Sulle sue gambe emaciate. Sul rettangolo rosso arancio di fuoco della stufa che ha riscaldato tanti inverni e ora sbuffa.
Non riesce a dirla. Quella frase che da ore, da giorni, da mesi invade ed obnubila la sua mente stanca. Non vuole ferirmi. Lo sappiamo entrambi. Nessuno dei due vorrebbe essere lì. Ci piacerebbe rinviare ancora questo momento, fantasticare una realtà diversa. Una realtà irreale, miracolosa, che vince la morte, zittisce spacca annienta l’inevitabile necessario.
Invece restiamo lì, in silenzio.

Nel libro c’è un rigoroso lavoro di anamnesi, di recupero di frammenti di memoria che fanno affiorare i ricordi più intimi e più remoti, legati alla percezione dei luoghi e degli oggetti. Ci sono delle pagine molto belle ed intense che riescono a condensare in poche immagini tutto un vissuto emotivo senza parlare di emozioni, ma attraverso lo sguardo sui luoghi, sulle persone, gesti e posture e sulle cose.

Grazie all’indimenticabile figura di Elvezia, il bambino, l’adolescente e poi il giovane uomo, riuscirà a trovare un punto di riferimento, un ancoraggio ed un equilibrio che gli permetteranno di radicarsi e di realizzare i suoi obbiettivi nel lavoro, con l’insegnamento della lingua italiana e nella scrittura.

Dopo averlo letto, le sue pagine si sedimentano in profondità e vengono interiorizzate dall’immaginario dei lettori come riescono a fare solo le pagine di autentica letteratura.

Link: cartesensibili


© Dialett in sacocia, RSI RETE UNO, 24.11.2019Cünta i pevri, fa eco l’Elvezia

Un corso di dialetto “pan-ticinese”
Con questa frase si chiude il libro “La chiave nel latte”, romanzo di Alexandre Hmine, pubblicato da Gabriele Capelli Editore nel 2018, vincitore del Premio Studer/Ganz 2017 per la migliore opera prima e del Premio svizzero di letteratura 2019.

Un romanzo scritto in italiano, dove il dialetto è però molto presente. È il dialetto dell’Alto Malcantone dove Alexandre Hmine, originario del Marocco, cresce fin da piccolissimo, affidato alle cure di Elvezia, un’anziana vedova di Vezio.La storia narrata ne “La chiave nel latte” è autobiografica, il racconto si dipana in frammenti ordinati in ordine cronologico, quasi dei fotogrammi, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio dei favolosi anni ’80.

In filigrana, gli incroci linguistici tra dialetto e italiano, italiano che prende sempre più terreno nella vita di Alexandre quando si trasferisce a Lugano e inizia a frequentare il liceo. Ma anche quelli tra dialetto e arabo, che Alexandre non parla. La lingua lo porta a interrogarsi sulla sua identità, sul suo vissuto, sulle sue origini, che destano sempre una grande curiosità, che forse con questo libro ha voluto finalmente soddisfare.

Alexandre Hmine si è laureato in lettere all’Università di Pavia e dal 2011 insegna italiano al Liceo Lugano 1, l’italiano è la sua lingua, il dialetto la lingua dell’infanzia, di quel mondo perduto che con questo romanzo prova a recuperare, a far rivivere e risonare grazie a molte espressioni dialettali, così vivide ed efficaci che sembra quasi di vedere l’Elvezia mentre le dice. E il dialetto riguadagna tutto il suo spazio nel commovente ringraziamento finale rivolto ad Elvezia scritto in dialetto.

Link: Dialett in sacocia


© Corriere italianità, 12.11.2019Società e territorio
Identità in equilibrio – Alexandre Hmine
di Valeria Camia

“La chiave nel latte”, romanzo di Alexandre Hmine (Premio Studer/Ganz 2017 e Premio svizzero di letteratura 2019), tocca la “questione dell’appartenenza” nel modo più profondo e radicale. A tratti con leggerezza, come solo gli occhi di un fanciullo permettono di fare; a tratti con la drammatica profondità di un adolescente che si pone, consapevolmente, domande ultime su se stesso nella società e sulla cultura circostante.

Il romanzo segue la crescita (fisica e soprattutto emotiva) di un giovane, nato da madre marocchina ma cresciuto in Svizzera e affidato sin dai primi mesi di vita alle cure di un’anziana donna, che abita in un paese ticinese di montagna e con la quale il bambino rimarrà fino agli anni dell’adolescenza. Elvezia, così il nome della donna, accudirà il giovane ‘come uno di loro’, insegnandogli il dialetto locale e cucinando per lui, di famiglia musulmana, la “luganiga”, la salsiccia tipica ticinese. Con grande apprezzamento da parte del giovane! Fino a quando, ricongiuntosi con la madre, egli si troverà, naturalmente, a rifiutare il piatto a base di maiale, iniziando a cogliere – allo stesso tempo – gli sguardi ‘curiosi’ degli altri attorno a lui, dal colore della pelle ‘scura’. Eppure, per il giovane la Svizzera rimarrà ‘casa’. Come non mangiare carne suina sarà parte della sua normalità. Ma senza per questo imparare l’arabo, mai! Pur tifando per la nazionale marocchina… Costituisce ciò una contraddizione?

Tra le settimane di vacanza trascorse in Marocco, la casa tra i monti di Elvezia e il campo di calcio ‘locale’ in Svizzera, dove avvengono anche i primi – presunti – ‘veri’ amori e esplodono le prime ribellioni, maturano sentimenti contrastanti, di attaccamento, straniamento, incomprensione ma anche riscatto, dove il filo sottile tra certezze e dubbi è in continua tensione. E dove l’equilibro è raggiunto anche grazie alla passione per la lettura. Così lo studio diventa riscatto: nel confronto con i grandi classici, nelle parole letterarie, negli esami universitari e nello spazio della cultura accademica in generale, il protagonista del libro arriverà a maturare la consapevolezza che le identità sono permeabili e fluide, soprattutto non sono auto-esclusive.

Il libro affronta temi dalla difficile definizione, come appartenenza e straniamento culturale, e lo fa con una narrazione molto veloce, frammentata. Stilisticamente il romanzo non ha capitoli, ad esempio. I periodi, brevi e paratattici, discutono ciascuno di un evento preciso e si susseguono secondo un ordine cronologico rapido e con salti temporali. L’impressione è un susseguirsi di pensieri, emozioni ed eventi narrativi in continuo divenire e senza che ci sia mai il tempo di fermarsi per riflettere.

Alexandre, perché scrivere un tale romanzo fortemente autobiografico? Una necessità intima per fare chiarezza dentro di sé oppure il desiderio di condividere con ‘gli altri’ il percorso di un equilibrio raggiunto?
Credo entrambe le cose. Da un lato, mi sono spesso trovato nella condizione di raccontare delle mie origini, della mia famiglia, del perché non sia cresciuto con mia madre, del perché non abbia imparato l’arabo anche se ho genitori marocchini. A fronte di tanto interesse per la mia storia, mi sono reso conto che potevo avere qualche cosa di originale e interessante da raccontare. D’altra parte questo romanzo, al quale ho lavorato per circa dieci anni, riflette la necessità personale e intima di fare i conti con le mie origini. Quando, negli anni del liceo, mi sono dovuto trasferire da mia madre, ho attraversato un periodo complicato, trovandomi improvvisamente in una cultura ‘altra’, che non conoscevo, che rifiutavo ma che al contempo non potevo far a meno di osservare con curiosità. Quella musica araba che arrivava dal salotto e che sentivo chiuso in camera mia, quella lingua per me incomprensibile, quel gusto nel cibo e nell’arredamento in qualche modo mi riguardavano. Eppure non potevo farli semplicemente miei – in parte anche come reazione nei confronti di mia madre, che non mi aveva tenuto con lei durante la mia fanciullezza e adolescenza.
Non saprei dire se ho raggiunto un ‘equilibrio identitario’ al punto da non rimettere in discussione la mia identità di nuovo. Piuttosto negli anni ho raggiunto la consapevolezza di non dover scegliere tra due culture o appartenenze, di non dover ingabbiare l’identità in compartimenti stagni.

In una Svizzera dove circa un quarto della popolazione totale è costituita da stranieri, qual è il ruolo della scuola e del mondo dell’istruzione in generale nel difficile compito di aiutare i giovani a costruire ed accettare la complessità e stratificazione della propria identità?
Come docente di italiano mi capita di riflettere insieme agli studenti sul tema della diversità, e ovviamente pure sulla similarità, tra culture. Inoltre attraverso i componimenti liberi, i ragazzi hanno l’opportunità di trasformarsi in “scrittori” e raccontarsi (ad esempio, raccontare che cosa può succedere nella casa di un ragazzo di origine indiana che oggi vive in Ticino o come vive e ragiona un ragazzo che ha genitori musulmani). La scuola assume, in tal modo, una funzione importante, forse la più importante, per favorire l’integrazione. Nelle classi con varie etnie e culture differenti, l’ambiente scolastico può diventare il luogo in cui le personalità, i caratteri, i pregi, e i difetti dei singoli individui, così come le tradizioni, si incontrano e si ‘conoscono’. L’ora di italiano si presta molto bene a questo proposito, ma non è, e non deve, essere il solo momento di integrazione. Ad esempio, si possono organizzare incontri, manifestazioni, conferenze, dibattiti che toccano la tematica dell’Altro e della conoscenza reciproca favorendo il sorgere della consapevolezza, nei ragazzi, della natura fluida, liquida, stratificata e complessa dell’identità individuale. Certamente la questione identitaria e l’integrazione tra culture non può risolversi se, da un lato, l’autorità politica non mette in campo le risorse necessarie (per lavorare con classi meno numerose e per organizzare corsi specifici, ad esempio), e dall’altro se le famiglie dei ragazzi non sono disponibili ad abbracciare progetti di integrazione.

Link: Corriere italianità


© Il Bernina, 05.09.2019Due volti di un amore
di Monica PaganiniSotto le arcate del Viadotto di Brusio, sabato 31 agosto Begoña Feijoó Fariña – scrittrice e presidente della PGI Valposchiavo – intervista Alexandre Hmine, professore di letteratura italiana al Liceo di Lugano.

Parla del suo libro, il primo.

Racconta ciò che ha vissuto, con lucidità e amore, dopo il tempo giusto per capire…” essere troppo dentro le cose non fa scrivere”…dice.

È un canto alla vita, un omaggio a culture diverse, un messaggio di gratitudine.

«La chiave nel latte» è la sua storia, quella trascorsa fino a 18 anni nel Malcantone, quella delle vacanze a Casablanca, quella di due culture che si scontrano, si incontrano, si fondono, lo fanno sentire parte di due mondi dai quali cogliere il meglio.

Non è un vissuto facile il suo; c’è spaesamento, rancore, scontro, c’è il dolore dell’abbandono, la curiosità di sapere e la paura di scoprire.
E c’è il tempo per rappacificarsi con il destino e per scrivere la sua storia.
La dedica alle due madri; a Elvezia, che lo alleva consapevole di non averlo partorito, e alla giovane mamma marocchina, che lo ha partorito e non l’ha visto crescere.

Elvezia lo ama di un amore ruvido, scarno, fatto di frasi brevi in dialetto stretto, dell’ovomaltina e gli Zwieback al mattino, consumati in silenzio che… “Mòcala! A tavola non si canta e non si cìfola!”, della messa della domenica.
Vivono in simbiosi loro due; non sente la mancanza di un padre.

La mamma marocchina è un po’ distratta, un po’ distante: lo copre di regali, impreca in arabo sulle strade di montagna, si affeziona all’Islam, porta le scarpe col tacco e lo ama, a modo suo. Ha un marito – che tutto sommato gli vuole bene – gli regala una sorellina.
Ha letto la sua vita attraverso gli occhi del figlio. Hanno avuto il tempo di confrontarsi. Non è stato facile e c’è ancora tanto da dire.

Elvezia non c’è più. Alexandre la va a trovare al cimitero e le regala la sua storia…
“A ta l’ lengi mì, Elvezia, pian pianìn, come ta fasevat tì quand ca sevi pinìn e a ma setavi giò süi tò ginöcc, visìn a la stüa…”

Aspettiamo il secondo libro di Hmine. Se ci sarà, sarà simile al primo – ci dice, e intanto aspetta di aggiungere nuovi fotogrammi alla storia della sua vita.

Link: Il Bernina


© Passim, Bollettino dell’Archivio svizzero di letteraturaPremi letterari«Mentre scrivevo non pensavo di partecipare a un premio letterario»
Intervista a Alexandre Hmine
Di Daniele Cuffaro

 

 
Link: Archivio svizzero di letteratura


© Il colore dei libri, 20.03.2019

Recensione: La chiave nel latte di Alexandre Hmine

Trama

“La chiave nel latte” racconta la storia di un ragazzo di origini marocchine che cresce in Ticino, nell’Alto Malcantone, dopo che la madre lo ha affidato a un’anziana vedova di nome Elvezia. Il romanzo procede per frammenti, ricordi che la voce narrante riporta alla luce: i giocattoli dell’infanzia, le feste religiose, le partite di hockey sull’asfalto, le infatuazioni; ma ci sono anche le vacanze in Marocco, un paese che il protagonista vede per la prima volta a dieci anni e che immediatamente suscita in lui sentimenti di spaesamento e di rifiuto. Pur sentendo sua la Svizzera, non potrà eludere una messa in discussione della propria identità che lo porterà a interrogarsi e a interrogare i lettori fino alle ultime pagine del libro. Una scrittura essenziale e precisa, che mescola con naturalezza lingue e culture diverse, dal dialetto dell’Alto Malcantone a quello del Marocco, dal gergo sportivo ai classici della letteratura italiana.

IL MIO PENSIERO SUL LIBRO

Il protagonista si racconta in prima persona, colpisce la sua freschezza e l’immediatezza degli episodi che racconta.
Lui straniero cresciuto dall’anziana Elvezia :una ticinese doc che gli parla in dialetto e lo alleva con rude affetto.
La madre infatti lo ha “parcheggiato” da lei sin da piccolissimo per non risultare una ragazza/madre che vive in modo non decoroso agli occhi dei parenti, sfrutterà la sua bellezza per avere il meglio dalla vita e dagli uomini e sarà molto indipendente e poco presente.
Elvezia lo tratterà come qualsiasi altro bambino, non sarà mai messa in discussione che non sono parenti ma lei lo alleverà, gli starà accanto e lo sosterrà in silenzio ma costantemente.
Lui intuisce che lo vedono come un intruso grazie ai primi commenti che gli rivolgono i genitori degli avversari durante una partita di calcio, lo bollano come “cioccolatino” “el nerett” che lo lasciano perplesso ma gli scivolano quasi addosso anche se lo mettono a disagio.
Sarà durante il suo primo viaggio in Marocco che vedrà l’abisso culturale e sociale tra la sua terra d’adozione e la sua terra natia ringraziando mentalmente di essere cresciuto in Svizzera.
Il Marocco non lo entusiasma, non lo sente come un luogo dove potrebbe vivere e il non sapere la lingua lo fa sentire anche lì un estraneo tra i suoi stessi parenti.
Negli anni assisterà all’evoluzione della madre che da donna libera e anticonvenzionale si avvicinerà alla religione a tal punto da insistere continuamente nel volerlo più partecipe nelle preghiere, più ligio alle imposizioni poste sul regime alimentare dalla loro religione scatenando invece in lui un rifiuto netto estraniandolo maggiormente e allontanandolo.
Un racconto che sembra un continuo chiedersi chi sia e di cosa fa parte, non è Ticinese e non è Marocchino, non è italiano e non segue i dettami dell’islam….
Elvezia lascerà un’impronta indelebile in lui che lo aiuterà a decidere da solo il proprio percorso e destino ma una domanda resterà sospesa.
Tale domanda è il titolo del libro e solo alla fine ne scopriremo l’importanza e un nuovo tassello di quello che provava questo giovane ragazzo prenderà posto nel quadro generale.

Un libro a suo modo toccante ed attualissimo, dove un viaggio lungo una vita sarà descritto con poche scene ma emblematiche una su tutte quando scopre il suo nome marocchino sul passaporto che non sapeva fosse diverso da quello usato quotidianamente e non riusciva nemmeno a pronunciare correttamente.
Mi è piaciuto.
4/5

Link: Il colore dei libri


© culturificio.org

La chiave nel latte di Alexandre Hmine
Articolo a cura di Cesare Giordano

Vezio, alto Malcantone, Svizzera. Una giovane donna rimasta incinta prima del matrimonio lascia la sua terra natale, il Marocco, per fuggire al disonore in cui getterebbe la famiglia. Raggiunge la sorella in Svizzera e, per impossibilità economiche, è costretta ad affidare le cure del proprio bambino ad un’anziana vedova di nome Elvezia.

Questa è la storia del primo ed unico romanzo pubblicato dallo scrittore svizzero di origini arabe Alexandre Hmine, vincitore del premio Studer-Ganz 2017. Il testo è frutto di 10 lunghi anni di lavoro e rivisitazioni. Varie bozze saranno realizzate per poi essere corrette o modificate, ma soltanto nel 2017 arriverà la versione definitiva ed ufficiale del romanzo, pubblicato da Gabriele Capelli Editore.

Tutta l’opera è costruita su ricordi e memorie dell’autore, che ripercorre la sua biografia aggiungendo raramente elementi romanzati. Lo scrittore stesso, in varie interviste, ha dichiarato come il processo più difficile per la realizzazione del romanzo non sia stato tanto la ricostruzione biografica generale, quanto l’estrazione di nuclei fondamentali che permettano di ricreare un’ossatura su cui eventualmente inserire i fatti singoli.

Questo “scheletro” narrativo si fonda su alcuni nuclei di ricerca:

– il rapporto tra la cultura e i luoghi della formazione e le origini geografiche.

– L’autore si sente a pieno cittadino svizzero, ma ciò non impedisce che, anche forzosamente e a suo malgrado, debba avvicinarsi alla cultura araba, che per altro dichiara a lui estranea;

– anche in Svizzera, suo paese a tutti gli effetti, fin da piccolo, essendo somaticamente riconoscibile come arabo, è soggetto nel tempo a dover dare spiegazioni del perché faccia scelte che qualsiasi bambino, adolescente, uomo svizzero fa (esempio: ‘’ Perché sei in Svizzera?’’, ‘’perché hai lasciato il Marocco?’’) domande che per lui sono completamente inutili e che a nessun altro cittadino svizzero nelle sue condizioni vengono fatte;

– interessanti gli spunti antropologico-linguistici.

– Vivendo nel Cantone Ticino parla italiano e sa comunque interloquire con le realtà linguistiche locali. Rifiuta invece pervicacemente di imparare l’arabo, nonostante le insistenze della madre, perché quella lingua non lo rappresenta. Cerca una mediazione quando va in Marocco, parlando il francese, che però usa in modo accademico e solo come necessità di mediazione linguistica

La Chiave nel latte è la storia, in parte tormentata, della crescita di un bambino poi ragazzo ed infine uomo a metà fra due culture. Se le sue origini ed il colore della sua pelle dimostrano una certa etnia e cultura di provenienza, la sua lingua e le sue usanze ne dimostrano un’altra. Svizzera e Marocco: questi i due mondi con cui deve confrontarsi il protagonista della storia. La differenza culturale tra la madre biologica marocchina ed Elvezia per esempio o anche la lingua araba che continua a sentir parlare dai suoi ‘’familiari’’ e il dialetto svizzero e l’italiano impiegati dalla vedova. Tutto ciò rappresenta la chiara evidenza di una ricerca di multiculturalità, volontaria o involontaria, che il protagonista sente non appartenergli.

Anche lo stile del romanzo riflette quest’identità frammentaria e confusa. I periodi sono brevi, paratattici. Non esiste né subordinazione né coordinazione così come la divisione in capitoli. L’unico principio di organizzazione che sembra seguire la trama è il raggruppamento in paragrafi che trattano ogni volta di un nucleo tematico preciso, ma anch’essi non seguono un ordine logico-linguistico convenzionale, ma cronologico. È il tempo della narrazione a dare struttura alla narrazione stessa. Il tema è di quotidiana attualità. L’affondo culturale è uno degli elementi più tipici del romanzo novecentesco europeo, come il flusso di coscienza. È anche in questa scelta che l’autore sembra volersi inserire in modo definitivo in un contesto culturale europeo che solo sente suo. Accattivante è proprio la scelta stilistica che sembra apertamente voler dare un senso di opacità agli eventi narrati, come se fossero visti attraverso uno schermo nebbioso che riflette in qualche modo la vita dell’autore.

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© Rivista di Lugano – 18.01.2019Pagina dedicata ad Alexandre Hmine, premio Studer/Ganz 2017 e premio svizzero di letteratura 2019.
A cura di Andrea Ventolaschermata 2019-01-24 alle 11.10.28
Link: Rivista di Lugano


The Key in the Milk – PRO HELVETIA – 12 SWISS BOOKS 2018 | NO. 7
Link: 12 SWISS BOOKS


© Leggere Tutti – agosto-settembre 2018La chiave nel latte – Alexandre Hmine
di Laura De Simone

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Luglio 2018Nostalgia di colore in terra elvetica: Alexandre Hmine.
a cura di Giovanni Nacca

Il romanzo autobiografico nasconde sempre l’insidia dell’autoreferenzialità, della fastidiosa deriva apologetica, col risultato di mettere a repentaglio criteri di oggettività e di imparzialità. Nel caso di La chiave nel latte di Alexandre Hmine (Lugano, 1976) il rischio è tenuto a bada, grazie a una scrittura costantemente sorvegliata, accorta, asciutta. È la storia di un ragazzo di origini marocchine che nasce e vive in Ticino, nell’Alto Malcantone, e che col passare degli anni dovrà fare i conti con un complesso percorso identitario.

La giovane madre, per evitare il disonore nel proprio paese, si reca in Svizzera dalla sorella e affida il bambino a Elvezia, anziana bisbetica e un po’ burbera, ma che lo colma comunque di affettuose premure. A lei l’autore ritornerà nel momento più delicato della sua vita, quando straziato da un sentimento di nostalgia, la cercherà per un ultimo e impossibile gesto di gratitudine. Il tappeto della memoria è srotolato con perizia. I ricordi, tratti dal pozzo della memoria, si susseguono veloci, a scatti: quasi la sequenza fotografica di un intimo album che, per molto tempo, l’autore ha custodito segretamente e che adesso, in tempi di generale imbarbarimento, decide di sfogliare in pubblico. Un libro che illustra una difficile integrazione. Un libro, peraltro, coraggioso che si affaccia in un’Europa sempre più sferzata da venti xenofobi.

La storia vede il bambino crescere coi coetanei a scuola, nei giochi, nelle feste, nello sport (gioca benissimo a tennis, calcio, hockey) e la diversità di colore sembra non essere un problema. Poi, cominciano i distinguo sin dai primi incontri di calcio, sin dai primi innamoramenti. Volano, con apparente innocuità, le indicazioni del mister di fermare «quellonero», «quellonegro», oppure serpeggiano le prime insidiose domande dei compagni sull’identità del padre, mai conosciuto. L’odio verso il diverso si scatena durante le schermaglie amorose: lui, il «Vucumprà», il «negro di merda» che osa rubare le ragazze (bianche) agli altri (bianchi).

Ricordi e impressioni che, seppure appena abbozzati, innescano immagini vivide di una difficile quotidianità in cui coniugare cultura occidentale e maghrebina, adattarsi al salotto arabo o a quello europeo, la diversità del cibo, il rifiuto di imparare l’arabo, la difficile scelta di essere ateo, anche se poi scopre di non riuscire a mangiare carne di maiale. Proprio in virtù di queste scelte, vive un rapporto conflittuale con la madre e col marito di lei, un perfetto estraneo che non potrà mai sostituire la figura paterna. La narrazione, che si avvale anche di una felice sintesi tra vari idiomi (italiano, arabo, dialetto ticinese) è spesso puntellata di precisi dettagli: la miracolosa pomata Euceta, gli immancabili biscotti Zwieback e l’Ovomaltina a colazione, il mitico Arbre Magique in macchina, le gigantesche videocassette. Elementi che riaffiorano da una sorta di fondale giurassico in cui l’autore si orienta per ricostruire vicende e circostanze tuttora cariche di vibrante tensione.

Lentamente, alla passione per lo sport subentra la passione per la letteratura italiana, suscitando sorpresa e perplessità non solo in famiglia, ma anche nell’ambiente universitario che mostra tutte le crepe di un radicato, quanto camuffato, pregiudizio. Le vicende sentimentali s’intrecciano con lo studio dei grandi autori della storia letteraria: Dante, Machiavelli, Foscolo, Leopardi, Moravia, Montale…. Oggi, il ragazzo marocchino è diventato uno stimato docente di lettere, anche se confessa di continuare a combattere con i demoni della sua «lunga notte» e di aver, finalmente, compreso l’enigma dell’azione compiuta anni addietro e che dà il titolo al libro.

Notevoli le pagine finali del romanzo. In una notte di capodanno, tra brindisi e auguri, il diffuso senso di spaesamento del giovane precipita in una disperata fuga dalla folla festante. Una fuga non solo dagli altri, ma anche dal tempo che nel suo avanzare, implacabile, divora i giorni della vita. La sfasatura tra tempo cronologico e tempo interiore genera l’irrefrenabile desiderio di un ritorno a ciò che è stato un tempo: un ritorno a chi, più di ogni altra persona, è stata per lui fonte d’amore: «Corro nella neve, deciso, sopra i morti, verso il suo loculo. Corro grintoso, assicurandomi con la sinistra che il romanzo non fuoriesca dalla tasca del giubbotto». Ad aspettarlo, come sempre, la sua amata vecchina a cui, commosso, sussurra: «A ta l’ lengi mì, Elvezia, pian pianìn, come ta fasevat tì quand che a sevi pinìn e a me setavi gió süi tò ginöcc, visìn a la stüa…».

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© La Stampa – Tuttolibri – 30.06.2018Recensione del libro “La chiave nel latte” di Alexandre Hmine a cura di Piersandro Pallavicini.


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Cabaret Bisanzio, laboratorio di finzioni, Letture

“La chiave nel latte” di Alexandre Hmine
di Silvana Arrighi

Vedo l’Elvezia. I capelli sono grigi, laccati all’indietro, gli occhi stretti e scintillanti, le vene del collo in rilievo. Indossa una gonna scura al ginocchio, le calze di lana che gli zoccoli. È seduta a capotavola, scomposta. Vedo anche la zia e suo marito. Lì, in piedi, davanti alla credenza del tinello. Lei è vestita di nero. Sulla sua pelle mulatta luccica l’oro. Lui porta una camicia chiara. È quasi calvo. Guardano tutti verso il basso. Sorridono amabilmente. Guardano me. Io sono sul tappeto, non so se seduto o sbagliato. Forse è solo una fotografia, forse l’ha scattata mia madre.

Siamo in un piccolo paese fra le montagne del Canton Ticino. Elvezia è una donna anziana, alle cui cure una ragazza affida il proprio bambino di sette mesi, fuggendo dal Marocco dove le toccherebbe, a soli diciassette anni, affrontare le conseguenze e il disonore di una gravidanza sconveniente. Da quel momento il bambino (innominato, ma si può giurare che si chiama Alexandre…) cresce in un microcosmo di paese, parlando unicamente un ruvido dialetto e ignorando del tutto la sua lingua madre, fra il tennis e il calcio giocato per strada, feste di piazza, le prime emozioni d’amore, con scarsi contatti con il mondo di città e brevi vacanze a Casablanca, incontrando sporadicamente la mamma e il resto della sua famiglia. A scuola, insegnanti e compagni sempre più spesso gli chiedono di dove sia, dando per scontato che comprenda l’arabo e lo parli. Ma lui mastica il tedesco e il francese, parla malamente l’italiano e non sa una parola di arabo. È abituato a mangiare la polenta ma non il maiale, il cui solo odore gli dà la nausea. Ha scarsi legami affettivi, e più che a chiunque altro vuole bene ad Elvezia che, con i suoi cibi semplici e le sue poche frasi asciutte, riesce a dargli il nido caldo di cui ha (tutti abbiamo…) bisogno. Nella confusione di affetti e relazioni, il giovane svizzero-marocchino sceglie l’Italia per i propri studi universitari: si laurea in letteratura italiana, nei classici e nello studio del latino trova una sorta di patria dell’anima che va oltre le molte patrie che la vita gli ha imposto.

Opera prima di grande sensibilità, La chiave nel latte utilizza una narrazione in prima persona, costruita per flash interiori che mescolano fra loro eventi sparsi dall’infanzia all’adolescenza alla maturità in un singhiozzo di lingue diverse e mischiate, capaci di riflettere la difficoltà di chi cresce in un mondo non suo e nel contempo ha radici lontane ineludibili e stampate sui lineamenti del viso. Il disagio delle origini poco conosciute, la fatica di sentirle proprie, il malessere nel percepire la diffidenza verso il “diverso” negli occhi del prossimo traspaiono limpidi pur nella esposizione frammentata, fatta di piccole inquadrature sul passato, sorta di didascalie in un album di fotografie sfogliato velocemente, in un fluire continuo di memorie e riflessioni. Il linguaggio utilizzato dall’autore non ha incertezze, e conduce il lettore attraverso un vero cesello di sentimenti e lacerazioni fino ad un’ultima pagina che, svelato finalmente il significato del titolo, gli lascerà una nota dolce e davvero emozionante.

Con questo suo romanzo d’esordio, Alexandre Hmine ha vinto il Premio Studer/Ganz 2017 per la migliore opera prima. Merita di poter varcare i confini nazionali ed avere notorietà più ampia.

Alexandre Hmine, “La chiave nel latte”, pp.208, euro 18, Gabriele Capelli Editore, 2018

Giudizio: 5/5

Link: Cabaret Bisanzio


© Ticino 7 – 22.06.2018

INCONTRI
di Stefania Briccola


© EXTRA SETTE del 1 giugno 2018

Uno svizzero di origini marocchine
a cura di Sergio Roic

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© Rivista di Lugano, 04.05.2018

Recensione del libro “La chiave nel latte” di Alexandre Hmine

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© Il Malcantone – aprile 2018

“La chiave nel latte” su Il Malcantone di aprile 2018

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© laRegione, 07.05.2018

“La chiave nel latte” di Alexandre Hmine, premio Studer/Ganz
Frammenti di una storia
di Roberto Falconi

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© La Lettrice Assorta

LA CHIAVE NEL LATTE di Alexandre Hmine
27 aprile 2018

La chiave nel latte è il romanzo d’esordio di Alexandre Hmine, vincitore del Premio Studer/Ganz 2017 per la migliore opera prima. La storia raccontata è quella del figlio di una diciassettenne di origine marocchina, fuggita dal suo paese d’origine per evitare le conseguenze e il disonore di una gravidanza indesiderata. Ad accoglierla in Svizzera c’è sua sorella, la quale vi risiede già da un po’ di tempo. A sette mesi dal parto, il bimbo viene affidato ad un’anziana signora, Elvezia, la quale se ne occuperà per gli anni a venire.

Devo ammettere che la lettura di questo romanzo mi ha piacevolmente sorpresa: la trama è semplice e nello stesso tempo coinvolgente. Lo stile della scrittura è essenziale, caratterizzato da appropriate interpolazioni di frasi in dialetto Ticinese e qualche parola in arabo. Questa tipologia testuale l’ho trovata limpida ed opportuna, in quanto riflette egregiamente il contesto di vita del protagonista.

Quello che si fa maggiormente apprezzare è la capacità dell’autore di descrivere i ricordi del personaggio principale, attraverso una scrittura fatta di lampi di luce proiettati su frammenti del passato, una sorta di sipario che si apre e si chiude, cristallizzando momenti, situazioni, sensazioni tattili e perfino odori e rumori particolari, come per esempio gli zoccoli di Elvezia che si trascinano sul pavimento di legno della casa. Una scelta di stile, questa, che restituisce un romanzo pregno di suggestioni e dal sapore fortemente evocativo: i ricordi sono vaporizzati sulla carta in modo da risultare in alcuni passaggi netti, nitidi, in altri invece più eterei.

Ho trovato piuttosto significativo il fatto che in tutto il racconto non si trovi alcun riferimento ai nomi propri dei vari personaggi: l’unico nome che s’impone granitico è quello della donna che si occupa del ragazzo: Elvezia. La donna è anche la sola a meritare una dettagliata descrizione fisica, quasi a voler sottolineare l’importanza del suo ruolo. Questa considerazione trova riscontro nell’episodio in cui il ragazzo scopre casualmente, ascoltando di nascosto una conversazione, che sua madre retribuisce Elvezia per il suo mantenimento: ne rimane ferito, un sentimento che non riesce a reprimere nonostante sia consapevole del fatto che si tratti di una cosa normale, nulla di cui rattristarsi, nessun inganno…

La chiave nel latte è la storia di un ragazzo che maturando acquisisce consapevolezza delle sue origini marocchine, ma fatica ad accettarle completamente e a sentirle sue in quanto cresciuto prevalentemente in Ticino, nell’Alto Malcantone. Una dualità che gli lacera l’anima e lo porta più volte a farsi delle domande sulla vera essenza della sua identità. Una dicotomia che si traduce in comportamenti, talvolta caratterizzati da contraddittorietà e ambivalenze; una dissonanza lacerante che lo porta a ripercorrere le strade consuete del paese dov’è cresciuto, con un senso di estraneazione. La riflessione sul suo io assume le proporzioni di un cruccio ricorrente che si esacerba quando si trova al centro di un pasticcio burocratico: in municipio, dopo trent’anni, scopre che il nome riportato sul suo certificato di nascita non corrisponde a quello sugli altri documenti d’identità… Tutto attorno a lui è in continuo mutamento: i fidanzati di sua madre, le donne, perfino il suo nome. L’unico punto fisso sembra sempre essere l’Elvezia, e quando perde anche lei è forse un po’ come perdere un pezzo di sé.

Il titolo è piuttosto originale. Mi sono interrogata per tutto il romanzo sul motivo per il quale è stato scelto, ma solo arrivata all’ultima pagina ho scoperto il suo intenso significato, che va oltre le parole e affonda le sue radici nell’inconscio.

Un’opera prima di pregevole fattura.

Buona lettura

La lettrice Assorta

Link: La Lettrice Assorta


© Giornale del Popolo, 21.04.2018


© tg-talk, teleticino
18.04.2018

Ospite della trasmissione Alexandre Hmine, Premio Studer Ganz 2017 con il libro “La chiave nel latte”.

Per rivedere (dal minuto 08.40): tgtalk


© Turné – RSI LA1
Sabato 14.04.2018

Per rivedere: Turné


© Librintasca, RSI RETE UNO
venerdì 13/04/18 09:30

Alexandre Hmine Premio Studer Ganz
A cura di Rossana Maspero

Per riascoltare la puntata: Librintasca


© Baobab attualità – RSI RETE TRE
Lunedì 16 aprile

Alexandre Hmine, autore del libro Premio Studer/Ganz 2017 “La chiave nel latte”, ospite a Baobab.

Per riascoltare: Baobab

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