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Pedro Lenz
Inporta c’ero io!


Prefazione della traduttrice
 
Perché l’italiano?

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, di fronte alla lingua di partenza in cui è scritto il libro di Pedro Lenz (ossia quel dialetto bernese carico di regionalismi tipici dell’Hinterland della capitale elvetica), non ci sono stati dubbi su quella che sarebbe dovuta essere la lingua d’arrivo: doveva trattarsi dell’italiano. Non avrebbe avuto senso tradurre la storia del protagonista Gol in un dialetto della lingua italiana, e questo non per evitare di precludere la lettura del libro a tutti gli italofoni, ma in virtù del presupposto secondo il quale, più che un dialetto nell’accezione che ne abbiamo noi, lo svizzero tedesco – con tutte le sue variazioni – sia un “mezzo idioma”. Utilizzo volentieri quest’espressione perché credo che sia in grado di rendere al meglio il concetto dello svizzero tedesco, una lingua che nella sua forma orale si sostituisce a quella istituzionale e scritta, l’Hochdeutsch. Nella Svizzera di lingua tedesca infatti lo svizzero tedesco non rappresenta un’opzione comunicativa da relegare in ambiti ben definiti come possono esserlo quello della famiglia o quello della colloquialità, bensì la lingua per definizione. Un po’, se vogliamo, come il romancio parlato in alcune regioni dei Grigioni. Che poi Pedro Lenz abbia deciso di “traslare” quella che è una forma linguistica quasi esclusivamente orale in forma scritta (riscuotendo peraltro un successo senza precedenti), è stata una sorta di sfida, quasi a voler dimostrare che tecniche narrative, impianto e plot non dipendano dall’idioma in cui vengono espressi. Se c’è qualcosa che può essere andato perduto nella traduzione – e questo sì, che è tipico dei dialetti – è la possibilità di esprimere lo stesso concetto in infiniti modi (assolutamente impossibili da tradurre nella lingua italiana).
 
Le scelte nell’ambito della traduzione sono state operate altrove. Ci vuole infatti qualche “pagina di pazienza” prima di entrare nella struttura mentale dell’io narrante, il quale saltella senza posa dal discorso diretto a quello indiretto, senza preavviso, ma solo lanciato all’inseguimento dei propri pensieri, spesso circolari, tipici della persona per un certo verso leggermente paranoica. Sarebbe stato ingiusto (e l’autore stesso ha più volte sottolineato la propria volontà di vedere mantenuta la scelta originaria anche nel testo tradotto) introdurre virgolette o spaziature assenti nella versione di partenza. Quello che ne esce, grazie alla struttura originale, è lo spaccato in bilico fra il commovente e il divertente di una fetta rurale di Svizzera colpita – seppur di striscio – da quello che è stato il flagello delle droghe negli anni Ottanta e Novanta per città più grandi di Schummertal, come Zurigo o Berna.
A proposito di Schummertal: sebbene la cittadina si ispiri per assonanza a Langenthal, in realtà non esiste, ma esprime, in tutta la sua totalità, la disperazione dei semplici – Schummertal infatti non è altro che la “La valle del crepuscolo”

Simona Sala


1

A dire il vero è cominciato molto tempo prima. Ma a questo punto potrei anche affermare che è cominciato tutto quella sera, qualche giorno dopo il mio ritorno da Witz.
Potevano essere circa le dieci, magari una mezz’ora più tardi. Ma questo non ha importanza. In ogni caso, c’era una bise bastarda. A Schummertal. Novembre. E il mio cuore era pesante come uno straccio per i pavimenti vecchio e fradicio.
Decido dunque di andare al Maison, a prendermi un caffè Fertig.
I soldi ricevuti all’uscita dalla galera li avevo già spesi in cazzate, senza nemmeno rendermene conto. Non avevo un franco, ma in quel momento un gran bisogno di un caffè Fertig, di un po’ di compagnia e di un po’ di voci.
È andata proprio così: in tasca niente, oltre a un paio di sigarette e un po’ di moneta. Un impasse appunto, ma di quelle cattive. Ero però in attesa di qualcosa che qualcuno mi doveva. Ma prova a raccontarlo, appena fuori di galera, prova a dirlo a qualcuno, che a dire il vero ti spetterebbero ancora un sacco di soldi, ma che al momento non è che hai molta liquidità. È una cosa che non interessa a nessuno.
Quindi, come detto, al Maison ordino un caffè Fertig e Regula mi chiede se sono in grado di pagarlo.
Mica male, come domanda, se ci penso. Fai la brava, Reghi, non farla troppo lunga. Sai cosa?, le dico, tu comincia a portarmelo, e poi vediamo.
Sei sempre il solito rompiballe, mi dice, e me lo porta.
Non ti ho fatto lo scontrino, mi dice poi, e mi guarda in un modo, non so nemmeno io come, ma diversamente dal solito, con un po’ di malinconia negli occhi o qualcosa del genere. Non so cosa succede agli altri, ma quando una donna mi guarda come Reghi, il cuore mi si scalda fin nel profondo.
Grazie Reghi, sei un amore.
Te lo ripagherò dicendo una preghiera per te.
Mi dice di smetterla con le mie solite storielle. E soprattutto, mi dice, che non mi venga in mente di farci l’abitudine, perché se lo viene a sapere Pesci, che non mi ha calcolato il Fertig, lei si ritrova nei casini grossi. Ma io lo sapevo già, come è capace di comportarsi Pesci, a volte.
È buona, la Regula, una tipa da stimare, si prende cura di noi e ogni tanto dice: questo non lo calcolo, e probabilmente non se ne accorge nessuno, Pesci poi, sarebbe comunque l’ultimo ad accorgersene, e intanto il Gol ha ricevuto il suo caffè Fertig e fine della storia.
Io è già da un pezzo che lo so, che la Regula ha un gran cuore. Ma quella sera cominciava a piacermi anche in un altro modo.
In fondo, a pensarci, è strano. Conosci una donna da anni, non ci pensi più di quel tanto e all’improvviso, innomedidio, all’improvviso ha un qualcosa… Sì, all’improvviso ha un qualcosa che ti rende nervoso, all’improvviso ti piace. Bravo chi ci capisce qualcosa. Io ne avevo di domande senza risposta, quella sera, davvero. Ma all’improvviso mi interessava una sola domanda: sarà mai possibile che un giorno, in questa vita, io e Regula diventeremo una coppia?
Senti Regula, le faccio, non è che mi potresti fare un piccolo favore? Non è che mi presteresti un verdone fino a lunedì? È che mi devono ancora un sacco di soldi, ma al momento in tasca non ho più di tanto, ho un piccolo problema di bilancio economico, se capisci cosa voglio dire.
Lei mi guarda di nuovo. A quanto pare non sono cambiato, a Witzwil, aggiunge, e che non si direbbe mai che ci sono stato quasi un anno, perché quando mi si ascolta, sono sempre lo stesso chiacchierone di prima.
Non ricominciare a rompere, Reghi. Tu non hai proprio idea. Tu non sai niente, né di me né di Witzwil. Ma in fondo è meglio così. Puoi esserne contenta. E per quanto riguarda la grana, non voglio certo fare l’elemosina, proprio no, decidi tu, quindi o i cinquanta me li dai o non me li dai, e io li chiedo a qualcun altro. Tutto qui.
Per finire poi me li ha dati, me li ha infilati ben ripiegati nel taschino della camicia, senza commenti. Io le ho preso la mano e l’ho baciata sulla parte interna del braccio, e le ho detto che se non avesse avuto da sgobbare al bar me la sarei portata a casa subito e l’avrei fatta felice. Te lo giuro, Reghi, io ti farei felice.
Mi ha detto che sono uno stupido chiacchierone e ha riso un po’, anche io ho riso. Mi ha fatto bene ridere di nuovo, veramente bene. Sinceramente negli ultimi tempi ho avuto ben pochi motivi per ridere.
Quando ho finito il Fertig, sono andato al club spagnolo per vedere se c’era ancora qualcosa da mangiare. Ebbene qualcosa c’era ancora, nonostante fosse già tardi. Paco mi ha fatto un po’ di pesce e mi ha riscaldato un po’ di riso. Ottimo.
Dov’ero stato per tutto quel tempo, mi ha chiesto. Non mi si vedeva da un’eternità.
Galera, ho fatto, sai, Alcatraz, e con le dita davanti agli occhi ho mimato una croce, in modo che sembrasse una grata.
Lui si è limitato a scuotere la sua testa pesante e ha fatto una piccola smorfia. In questo sono bravi, al club degli spagnoli, sanno quando continuare a fare domande e quando invece è meglio tacere.
Senti Paco, dimmi un po’, hai per caso visto da qualche parte Ueli o Marta? No? Non sono passati? Fa niente. Tra l’altro, buono il riso, perfetto, sì, il tizio cucina bene, davvero.
Gracias Quiper, mi ha detto. Quiper viene da Keeper e vuole dire lo stesso come “paratore di gol”, ma appunto in spagnolo. Grazie, l’avrebbe comunicato alla cucina, mi ha detto mentre mi serviva ancora un po’ di rosso con quella sua mano grande e ferma, che mi ha subito ricordato la mano di mio padre, che non era proprio un tipo facile, ma che a volte aveva anche lui una mano così, ferma. Nel bicchiere ho dunque del rosso di Navarra, di quello buono. Anche se, potendo scegliere, avrei quasi preferito un mezzo cucchiaino di roba. E allo stesso tempo sapevo che era arrivato il momento di smettere, che dovevo mettere un punto a quel merdoso veleno e a tutto quanto lo schifo. In fondo è logico, non puoi passare la vita a correre dietro allo sballo, non puoi passare la vita ad aspettare finché su in zucca senti di nuovo un flash e il calore ti soffia attraverso le vene come un caldo vento estivo perfino in pieno inverno.
Quindi Ueli non l’hai visto? Sai, lo cerco perché gli devo chiedere una cosa importante.
No, dice Paco, no, non lo vedo da un sacco di tempo, di sicuro da più di una settimana. Povero Ueli. Probabilmente ha qualche rogna.
Scusa, Ueli è un povero buffone. Ma questo a Paco non l’ho detto, è una cosa che riguarda solamente me, non la devo dire a nessuno, nemmeno a Ueli. Mi manda semplicemente in bestia che con quello stupido coglione non ci si possa mai mettere d’accordo. Mai, mai!
È vero, mi ha procurato l’appartamento, questo va detto, il mio alloggio ce l’ho grazie a lui, perché suo padre ha delle conoscenze con qualche amministrazione o qualcosa del genere.
Ma scusate, in fondo non è la sua, di baracca, io pago l’affitto, voglio dire, grazie, grazie Ueli, graziegrazie, grazie mille, ma l’appartamento non ha nulla a che fare con il nostro business. L’appartamento è l’appartamento e il business è il business. E quando prometti a un amico che per quella e quell’altra data gli dai la grana che gli devi, allora per quella o quell’altra data gliela dai, se no gli dici qualcosa o lo chiami, gli scrivi un paio di righe, gli mandi a dire qualcosa, che ne so, qualsiasi cosa, ma non ti limiti a sparire dalla faccia della terra.
Ho guardato l’orologio, appeso in alto vicino alla bandiera ingiallita del Real-Madrid, alla trave dove ci sono le lampade al neon. Le undici e mezza. Ho pensato: ancora un Veterano e poi a casa. Ma non avevo voglia di uscire con quel tempo da cani. Dammi un brandy Paco, ma ben servito, sii gentile, fuori fa freddo.
Era abbastanza strano che dallo spagnolo non ci fosse più gente, voglio dire, era pur sempre venerdì. Un paio di giovani giocavano a calcetto e un paio di vecchi blateravano, era tutto. E io lì ad aspettare chissà che cosa.
Ehi vecchio, fai qualcosa, devi fare qualcosa!, mi sono detto, e ho ordinato un altro brandy. È stato un bene che Regula mi ha dato quel cinquanta. Si diventa proprio delle persone diverse quando si ha in tasca qualcosa. Ma se non trovavo subito Ueli, ho pensato, anche la Regula avrebbe dovuto portare pazienza finché le avrei ridato almeno una parte dei soldi.
Ripensando a Regula, mi è venuto da piangere. Non so neanch’io perché, è davvero imbarazzante stare seduti al tavolo da soli e accorgersi che le lacrime scorrono, così.
Ehi Gol, vorremmo chiudere!
Era la moglie di Paco. Quando bisogna agire, è lei a doverlo fare. Paco è troppo molle, non è capace di chiudere, non riesce a buttarci fuori. Ma lei, lei sì che sa come si fa.
Ho quindi sfregato un po’ gli occhi, come per un’infiammazione, ho pagato e sono andato verso casa. Ma non per la via più breve, no, volevo passare un salto davanti al Maison per vedere se magari anche Regula finiva in quel momento di lavorare. Perciò ho fumato ancora una sigaretta nel cortiletto che guarda verso la porta sul retro, perché pensavo che sarebbe uscita da lì. La luce nella bettola era ancora accesa. Sarebbe bello vederla ancora per un attimo, ho pensato. Ero in piedi, al riparo, nell’oscurità. Per fortuna non mi si poteva vedere né dalla strada né dal marciapiede. Budi infatti la stava aspettando. Ma Budi sedeva nella sua macchina, Budi era il suo uomo, Budi era quello ufficiale. Budi andava a prendere Regula dal lavoro perché aveva una funzione, perché è così che si fa quando si ha una fidanzata che lavora nella ristorazione e si vuole essere sicuri che la sera rientri a casa. Soprattutto se lavora al Maison, dove circolano delinquenti come me e anche di peggio.
Mi congratulo Budi: tu hai tutto sotto controllo, controlli la tua macchina, controlli la tua fidanzata, controlli la tua pettinatura, controlli la tua pressione del sangue, sei il capo, Budi, al centopercento, sei il campione, Budi, lei è tua, hai in pugno la situazione, hai in pugno lei, bravo, bravo, bravo Budi, bambino di mamma, ho pensato, e ho sputato per terra.
In quel posto io non c’entravo per niente, niente pretese, niente possibilità, niente soldi, niente di niente. Avrei solo voluto passare per caso a piedi nel momento in cui usciva e dirle: Toh, ma guarda un po’, la Regula! Stai andando anche tu a casa? Dove devi andare, Reghi? Senti un po’, ti accompagno io. Ma no, figurati, davvero non allungherei la strada, ma pensa un po’, ma dai, davvero, a me non fa proprio niente. Avevo già in mente di passare da là.
E lungo la strada me ne sarei stato zitto facendo un po’ il misterioso. Di solito è una cosa che fa effetto. Quando una ha passato la giornata a servire, la sera è inutile che le riempi ancora di più la zucca. Devi prima imparare a tacere, semplicemente tacere, ascoltare quando ti racconta qualcosa e anche quando non ti racconta niente. E dopo, più tardi, davanti al suo appartamento, un braccio intorno alle spalle e tre bacetti sulla guancia, ma quando arrivi al terzo, fermati un po’ più a lungo con le labbra, solo un po’ più di quanto sarebbe normale. E poi via. E poi ti giri ancora una volta e fai un breve cenno con la mano.
Io avrei fatto così, e lei avrebbe pensato, però, è un tipo pulito, quel Gol. Il tizio è pur sempre stato dentro per un anno, non ha grana in tasca, ma intanto ha un po’ di stile. E perché prima si è fermato mentre mi dava l’ultimo bacio? Ho quasi avuto l’impressione che per un attimo indugiasse quando mi ha dato l’ultimo bacio. O me lo sto mettendo in testa?
Sono proprio questi i pensieri che dovresti fare venire a una come Regula. È il genere di pensieri che potrebbero darle piacere per qualche tempo.
Mentre riflettevo su tutte queste cose nell’ombra, lì davanti, Budi sedeva nella sua Toyota Celica elaborata con l’impianto stereo piuttosto alto e probabilmente anche il riscaldamento acceso. Ero proprio l’unico lì a congelarsi lo stomaco come un vitellino ammalato in pieno inverno, in quello stupido angolo pieno di correnti d’aria, e il tutto per niente e senza musica.
Ehi Gol, cosa succede? Cosa fai ancora qui? Aspetti di prenderti una polmonite? Mi sono detto questo e sono andato a casa, a piedi e da solo, come sempre.


2

Regula non è l’unica che lo sa. È vero, ho fatto un piccolo periodo a Witzwil, pensione completa. Eh già, storie di tossici. Non sono certo il primo. Una cosetta da poco. Un momento di bassa pressione. Una cosa andata male. Niente di più. Non ci sono scuse. Ho fatto delle cazzate. Ce n’erano un paio che sapevano qualcosa di troppo e fra questi qualcuno che non è stato zitto. Mi hanno beccato e mi hanno messo dentro. Ho scontato il mio periodo. Mi sono preso tutte le colpe. Non ho fatto un solo nome, che, a guardar bene, non è proprio una cosa da niente. Ora è passata. Scusate. Non c’è nulla da aggiungere riguardo a questa storia, o almeno, non in questo momento. Al massimo potrei forse dire di aver sempre fatto le cose in modo pulito. Cioè, mi sono sempre procurato da solo quello che avevo bisogno, fuori. Non sono mai stato coinvolto in grosse storie di traffici. Non ho mai voluto avere troppo a che fare con quello strano ambiente di pusher da noi a Schummertal, dove tutti si conoscono e nessuno è felice per il prossimo, se non quando ci si becca l’influenza o un eritema. E così ho tirato avanti, arrangiandomi, a parte una volta, quando mi hanno beccato.
Ora sto cercando di rialzarmi, di rimettermi di nuovo in piedi.
Sto cercando un lavoro, qualcosa di regolare. L’appartamento l’ho già trovato, cioè, non io, ma Ueli, o per essere più precisi, suo padre. Non è male, due locali, riscaldamento centrale, vasca da bagno, anzi, è piuttosto bello. Ma ora devo assolutamente trovarmi un lavoro. Se no le cose ricominciano ad andare come non dovrebbero.
Voglio dire, potrei cominciare in qualsiasi momento a strusare un po’, parlare un po’ qui e un po’ là, attaccare bottone con questo, attaccar bottone con quello, fare un paio di telefonate, comprare un po’, rivendere un po’, tenere aperti gli occhi e le orecchie, non sarebbe un problema. Sono un tipo comunicativo. Ho più o meno capito l’economia di queste cose, ma soprattutto li conosco tutti, fuori e dentro da Schummertal. L’unico problema è che è roba passata. Non ne voglio più sapere, voglio un lavoro normale e alla fine del mese la grana sul conto e alla fine dell’anno una gratifica o una tredicesima e grazie tante Gol e niente di più.
E Regula. Anche lei vorrei. A volte, negli ultimi tempi, quando ciondolo a casa tutto solo, penso a Regula, mi immagino quello che le direi, ma soprattutto quello che non le direi. Poi mi figuro quello che direbbe lei, cosa farebbe e cosa penserebbe e ho l’impressione che sarebbe una bella cosa. È strano. Ci si conosce da così tanto tempo. Ma solo da quando sono tornato da Witzwil mi viene in mente, o meglio ancora, da quella sera in cui mi ha mollato il cinquanta. Davvero strano. Non ci capisco niente.

Sto di nuovo pensando a questa cosa, ci studio di nuovo sopra, è pomeriggio presto, quando picchiano alla porta, e questo anche se ho un campanello niente male. Gol! Sei in casa? Apri per favore, sono io, Ueli.
Entra, pirla, è aperto, ma richiudi subito, Cristo, che mi entra il freddo. Pensavo che non ti saresti più fatto vedere. Vuoi una birretta, Ueli, o ti faccio un caffè?
Non ha un aspetto proprio fantastico, devo ammetterlo, ha l’aria piuttosto malata, molto malata, per essere precisi. Cosa sta succedendo Ueli? Sei malato? Cosa ti sei beccato? L’epatite?
Mi dice di tenere chiuso il becco.
Ah, allora ce l’hai!
No, un po’ di raffreddore, niente di più.
Un raffreddore! Non ci credi nemmeno tu. Prima, porco diavolo, non ti trovo da nessuna parte, poi all’improvviso ti presenti. Dovresti vederti. Guardati allo specchio. Hai il colore di un pezzo di formaggio andato a male. Ehi Ueli, non voglio che cazzeggi in giro con l’epatite. È una cosa poco furba. Vai da un dottore, ne conosco uno in gamba. Fa’ qualcosa! Lo puoi chiamare anche adesso, il Wydemeyer, magari ti prende ancora oggi se è il caso, è un buon dottore e un bravo tipo, mica uno di quei moralisti, come ce ne sono tanti. Se vuoi lo chiamo io.
Ma lui, no, mi dice di non fare l’esaltato, che non ha niente, che sta bene, che è solo passato un salto per dirmi ciao, che mi ha portato la busta, che gli dispiace che è andata un po’ per le lunghe. E poi aggiunge che è contento di poter finalmente metterci un punto.
Il punto l’ho messo io, Ueli, sono io che ce l’ho messo, il punto. E se hai il cash, tanto meglio, ma ricordati che il punto l’ho messo io.
Ok ok. Guarda, li metto qui vicino alle banane, non che dopo ti lamenti che non li trovi più. E contali, Gol, per favore contali.
Tranquillo. Li conto dopo.
Sono un sacco di soldi, Gol, sono tuoi, sono veramente tanti.
Anche un anno a Witzwil è tanto, Ueli.
E poi all’improvviso, un po’ più tardi, mi chiede se non ho un po’ di polvere. Poca. Solo una mezza bustina, sai, o un qualche avanzo che magari hai lasciato in giro. Mi accorgo di come sta andando lentamente in manco, anzi, piuttosto in fretta.
Ueli, ma quante volte te lo devo dire ancora? Credimi! Ho smesso, finito. Puoi mettere sottosopra la baracca, ma non troverai niente. Questo appartamento è pulito come la stanza di un bambino. È finita, davvero. Io non ho più niente a che fare con queste storie. È definitivo. Sono stato dentro un anno, Ueli, credo che basti. Capisci, no? Sono in una storia nuova, Ueli. Tutto il resto è finito e dimenticato. Mi cerco un lavoro e mi metto da parte qualcosa. Poi mi prendo una vacanza. Sul Mediterraneo o un posto del genere. Nient’altro. Una cosa normalissima, uscire il mattino e rientrare la sera, un bicchiere o due, un giretto in paese e a letto presto, senza stress né paranoie e senza più niente di niente. Senza dover più ciondolare alla ricerca di quegli spacciatori bugiardi, anch’io ero così. E quando per strada vedo uno sbirro in borghese, lo posso guardare negli occhi, e salutarlo gentilmente e se mi guarda a sua volta, posso pensare, guarda pure, guarda pure, stupido di uno sbirro, guardami pure, bamboccione, sono più che pulito, più pulito di te e più pulito di tutti quanti messi insieme.
Mi ha detto, eh sì, il meglio del meglio, bravo Gol, una moglie carina, i seggiolini per i bambini in macchina, una casetta a schiera in periferia e un abbonamento in palestra. Ha aggiunto che ero io il primo a non crederci. E chi mi credevo di essere. E se per caso già pensavo di essere l’uomo nuovo, una specie di Paolo di Damasco. Di scendere un po’ dal mio piedestallo. E che inoltre sono sempre il primo a diventare maledettamente nervoso quando qualcuno tira fuori gli arnesi e si fa.
Quel pirla di Ueli ogni tanto la tira fuori la storia di Paolo di Damasco, non è messo male con la Bibbia, una volta al liceo ha fatto greco e latino e qualcos’altro, poi voleva anche studiare teologia, forse l’ha anche studiata per un po’. E quindi ecco che rispunta il Paolo di Damasco. E con tutto quel blaterare, ecco che sulla faccia di Ueli, con quel suo aspetto malato, ecco che appare un velo di sudore lucente.
Dai, dillo, dillo Gol, dimmelo, dai! Chi credi di essere e chi credi di diventare?
Non penso proprio niente, Ueli, ma devo smettere con la roba, perché ho ancora qualche progetto nella vita.
Gol, lo sai che parli quasi come il mio vecchio? Smettila per favore e dammi qualcosa, qualsiasi cosa.
Gli ho dato una boccetta di Resyl-Plus e una forbicina, per togliere più facilmente il contagocce. Una volta aperta, ha spazzato via la boccetta intera in un solo sorso al che gli ho dato un cucchiaio di miele, per togliere il sapore dalla bocca, e gli ho fatto: non credo nulla Ueli, davvero. Da parte mia è tutto ok. Fai quello che vuoi. Fate tutti quello che volete. Io parlo solo per me stesso. Capisci? Non vengo per conto dei missionari. Dico queste cose solo per me stesso.
Ora sono fuori, ma è durata più che abbastanza, credimi. E adesso non ho voglia di andarci in paranoia, questa è infatti un’altra cosa che mi fa incazzare della roba, che tutti quelli che sono dipendenti riescono a parlare solo di quello. Fai il bravo: adesso chiama quel dottore. Sembri uno zombie. Fai quasi spavento.
Senti, dimmi un po’ Gol, perché non metti su un po’ di musica?
In questo è sempre stato forte Ueli, lo devo ammettere: riesce a cambiare discorso prima che si litighi. Lo fa sempre. Dunque metto su gli Stones e tiro fuori finalmente due lattine di birra.
Dove lo cerchi? Intendo, il lavoro. Cerchi qualcosa di particolare? O temporaneo?
Gli ho detto di no, in fondo mi è indifferente. Magari ora che è inverno non proprio sui cantieri, ma altrimenti è indifferente.
Mi dice che all’occasione potrebbe chiedere al suo vecchio.
Non so se mi va. Mi ha già fatto avere l’appartamento, cioè, alla fine la mia vita passa attraverso tuo padre.


continua…

Link: In porta c’ero io!

One thought on “Estratto: In porta c’ero io!

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