Corriere dell’Italianità – Terra bruciata – Intervista a Gerry Mottis


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© Corriere dell’Italianità, 5.03.2020

“Terra bruciata”, romanzo di Gerry Mottis
di Valeria Camia

È stato dato, di recente, di nuovo alle stampe “Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo”, il romanzo di Gerry Mottis, che vede come sfondo la caccia alle streghe nella Svizzera italiana e su tutto l’arco alpino durante il 1600. La vicenda ha inizio nel Comungrande di Mesolcina (Grigioni), dove, in seguito alla misteriosa morte del Ministro della Giustizia, l’ordine cittadino è minacciato e, per far fronte alle malefatte di briganti e malfattori e anche per liberarsi streghe e stregoni, le autorità giudiziarie assoldano un nuovo carnefice. Un boia che proveniente dalle terre confinanti. Un personaggio macabro, preciso, ordinato, addirittura ineccepibile, nel suo lavoro di tortura e esecuzione di condanne a morte. Un uomo che vive ai margini della società, e trova come unici interlocutori due figure interdette: una meretrice e un fabbro, il quale è una sorta di filosofo liberale, coscienzioso ma che nessuno in paese comprende. Violento e forte, il Ministro della Giustizia è però anche curioso dell’arte e della natura, appassionato di disegno e pittura. Una figura fatta di chiari-scuri, che arriva pur senza disconoscere le decisioni delle autorità cittadine per le quali presta servizio, pur senza esitare a dislocare arti e impartire torture, arriva però a dubitare della propria funzione sociale e dell’equità delle sentenze del tribunale. Il prodotto letterario che ne esce è quello di un romanzo storico a cavallo tra realtà e finzione, ampio e corale, dai ritmi spesso incalzanti, come ripetute e insistenti erano le domande degli inquisitori, ma capace di offrire momenti introspettivi e persino toccanti.

Prof. Mottis, “Terra bruciata”, romanzo a cavallo tra realtà e finzione e ambientato nella Val Mesolcina del Seicento ripercorre le storie di persone accusate di stregoneria. Perché scrivere una storia di streghe, boia e terre bruciate oggi?
Vi è un fascino misterioso che accompagna il nostro passato, soprattutto se pensiamo a un’epoca come quella del 1600, caratterizzata dalle rivoluzioni geografiche, scientifiche, religiose, culturali e artistiche, ma anche dalle guerre di religione, dall’intolleranza, dalle superstizioni e da antichi riti magici di origine pagana sopravissuti.
Scrivere una storia di streghe e stregoni mi ha permesso innanzitutto di riconnettermi alla storia del mio territorio e ristabilire dunque una relazione diretta come discendente di quegli antichi avi che forse erano giudici intolleranti oppure streghe e stregoni vittime di un destino atroce. Riportare alla luce i nomi e i volti di questi e queste, significa riconsegnarle alla storia, liberarli dall’anonimato e, soprattutto per quanto concerne le maliarde, riabilitarne l’immagine. Oltre a ciò, mi par di capire che la storia sia ciclica e che certi fenomeni stiano pericolosamente riemergendo. Capire il passato ci potrà, quindi, forse, aiutare a districarci meglio nel presente.

Nel romanzo leggiamo, per bocca di un ex-magistrato di Roveredo, divenuto un fabbro: “Non siamo tanto eroici quanto la Storia vuol far credere… La nostra è una terra bruciata… Dovremmo anzitutto commiserare noi stessi per le nostre colpe. Non sarà certo punendo tutti i nostri dissimili che la comunità si salverà” (p. 236-237). Sono parole che risuonano estremamente attuali. La storia si ripete?
Come appena detto, la storia certamente si ripete. È ciclica, poiché spesso dominata dagli stessi fenomeni di massa: la fame, le epidemie, l’instabilità politica e sociale, le “guerre” di religione, ma soprattutto la paura, che hanno attraversato ogni epoca storica. Anche quella attuale non è esente da questi fenomeni. In ogni epoca e in ogni cultura, come accade anche oggi, si è sempre cercato un “capro espiatorio”, cioè un gruppo sociale su cui far ricadere le proprie colpe, oppure per dare una risposta a fenomeni o eventi catastrofici intesi come una punizione divina, mediata dal male che (secondo le credenze di allora) aveva preso possesso di streghe e stregoni.

I materiali storici relativi a 4 processi per stregoneria, centrali nello sviluppo della trama del romanzo, sono presentati al lettore in un italiano ‘moderno’ che facilita certamente il veicolare di un’emozione, un senso di vicinanza alla vittima. Ma porta anche il lettore a prendere maggiore coscienza dell’ingiustizia del sistema che otteneva confessioni sotto tortura…
L’aspetto linguistico voleva in effetti essere un elemento di novità del mio romanzo. Mi sono dedicato alla trascrizione integrale dei quattro processi menzionati d’inizio 1600 (ai danni di Caterina Della Sala, Antonio Stanga, di Roveredo, di Caterina Fasani di Mesocco e Tommaso Forello di Norantola) e in un secondo tempo ho deciso di “tradurli” nell’italiano di oggi, proprio per favorire la comprensione di ciò che è stato, evitando di lasciare inutili ostacoli linguistici dovuti a termini scomparsi, desueti o dialettali complessi, che avrebbero soltanto allontanato il lettore.
Le parole espresse durante i processi dalle streghe sono perciò autentiche e fedeli, benché tradotte in italiano contemporaneo. Ciò facilita la comprensione non solo di ciò che è stato confessato, ma anche di una maggiore consapevolezza storica, mediata dalla lingua attuale.
Coloro che invece desiderassero leggere i processi originali in antico italiano, troveranno i verbali trascritti integralmente in Appendice. Interessante potrebbe essere il raffronto dei due testi, quello in italiano seicentesco e la mia traduzione romanzata nei capitoli dedicati agli interrogatori.

La narrazione delle torture e crudeltà perpetuate nei confronti degli accusati non risparmia dettagli, tecnici. È stato difficile confrontarsi con tali dettagli e scriverne?
È stato difficile non soltanto confrontarsi con le procedure giudiziarie che prevedevano l’uso della tortura secondo l’arbitrio dei giudici di valle, ma di tutto l’impianto criminale molto severo, intollerante, violento, repressivo e iniquo. Basti pensare, ad esempio, che la tortura era un mezzo legale e coercitivo molto usato alle nostre latitudini per “generare” la verità, in parole povere per estorcere le confessioni. Ai giudici in sé non interessava molto la verità, quanto la confessione completa degli imputati giacché la legge affermava che si poteva condannare una persona soltanto se rea confessa.
Inoltre, vigeva un tremendo sistema di “furto legalizzato” ai danni delle vittime che oggi ci fa rabbrividire: indipendentemente dall’esito del processo, all’imputato (sia esso ritenuto colpevole o innocente) venivano confiscati tutti i beni mobili e immobili, quale risarcimento (o meglio “salario”) ai giudici, aiutanti, uscieri, guardie, il boia locale, ecc.
Per quanto riguarda la tortura nuda e cruda, bisogna invece dire che in sé era molto semplice. Con una corda e una carrucola l’imputata era sollevata da terra con le mani annodate dietro alla schiena e interrogata finché cedeva. La confessione implicava la condanna a morte, per rogo o decapitazione.
Nel mio romanzo non ho mai voluto nascondere ciò che è capitato, ma ho cercato di essere il più delicato possibile nei confronti della sofferenza umana di queste povere persone innocenti. Ho grande rispetto di loro e ribadisco che il mio intento non era quello di scrivere un romanzo “gotico” ma storico, per riabilitare la loro immagine di vittime dell’intolleranza religiosa e giudiziaria.

Le storie di torture e uccisioni ripercorse nel libro hanno come punto in comune la figura del ministro della Giustizia, che altro non è che un boia. Eppure questa figura, mentre la narrazione si snoda, viene quasi umanizzata. E a tratti si è quasi portati a compatire il terribile torturatore, addirittura simpatizzare per lui….
Uno degli aspetti innovativi del romanzo sta nel punto di vista, cioè nella prospettiva di narrazione. Quando mi sono confrontato con la questione, ho scartato da subito la soluzione più ovvia, cioè la narrazione in prima persona da parte di una « presunta » strega. Leggendo i verbali dei processi, mi sono imbattuto in una figura di cui nessuno ha mai parlato e che pochissimo è stata ricercata storicamente. E si tratta del “boia”.
Attorno a questa figura aleggia un misto di repulsione e attrazione, tra il cupo e il violento. L’unica cosa che sapevamo del carnefice era che esisteva, poiché citato nei verbali, e che era nominato “Ministro di Giustizia”. L’immagine stereotipata che è stata costruita nell’arco dei secoli è giunta distorta sino a noi.
Dedicandomi alla ricerca, ho infatti scoperto molti aspetti intriganti legati ai boia del passato, ad esempio che venivano sempre da fuori, erano forestieri, avevano dei privilegi (come vitto e alloggio spesati, un buon salario) ma vivevano ai margini della società, spesso fuori le mura, evitati da tutti, schivati per strada, essi non potevano partecipare alle feste di paese o alle funzioni religiose, erano cioè dei veri e propri emarginati che subivano un’infamia come quella di essere nominati “strega” o “stregone”.
In verità, le cose stavano diversamente. Molti dei boia erano istruiti, praticavano altre professioni artigianali, ed erano sensibili nei confronti della sofferenza umana. Da questa immagine, antica eppure modernissima, nasce Kasper Abadeus, il carnefice del mio romanzo, persona che tramite l’amicizia profonda con una guaritrice (esperta anche in amore) riscoprirà antiche emozioni e permetterà alla sua coscienza di evolvere e di “umanizzarsi”. Per questo motivo, il boia del mio libro appare “affascinante”, quasi “simpatico”, poiché come pochi saprà capire la sofferenza delle imputate e l’isteria che si stava realmente consumando.

Link: corriereitalianita.ch


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