© Viceversa letteratura, 22.02.2020
Silenzi di Luca Brunoni
Recensione di Alceo Crivelli
È nei primi anni Cinquanta che si svolge la sconcertante vicenda di Ida Bühler, tredicenne protagonista del secondo romanzo di Luca Brunoni – Silenzi – pubblicato nel 2019 presso Capelli editore. In seguito alla morte della madre, Ida è assegnata alla custodia dello Stato e collocata presso una famiglia affidataria costituita da una coppia di contadini dell’Oberland bernese, lontana dall’ambiente cittadino della capitale al quale era abituata. Qui riceverà vitto e alloggio solo a patto di sottostare alle severe imposizioni e alle pressanti pretese dei padroni di casa, Arthur e Greta Hauser, adeguandosi alla vita contadina fatta di ristrettezze, duro lavoro e priva di agi, sperimentando una serie di patimenti e soprusi che Ida sopporterà di buon grado, convinta in cuor suo di dover così scontare la colpa dell’inconfessabile segreto che si porta appresso riguardo alla morte della madre.
Teatro degli eventi una piccola borgata protestante aggrappata al fianco della montagna, dalla mentalità arretrata e dalla religiosità ancora rigidamente legata al rispetto della forma, in cui, data l’assenza della pratica confessionale, quello della colpa – immaginata o reale che sia – è un fardello che ognuno deve portare da sé senza possibilità di remissione attraverso la parola assolutoria, poiché «i tuoi peccati sono tra te e il nostro Signore» (p. 16). Difficilmente Brunoni avrebbe dunque potuto pensare a un titolo più appropriato per il suo nuovo romanzo, il quale a ben vedere costituisce la cronaca di un lungo susseguirsi e intrecciarsi di non detti e incomunicabilità di varia natura, cui il silenzio – eccezion fatta per il «silenzio diverso, riempito di gesti» (p. 21) e di parole che era quello amorevole della madre muta – è spesso associato all’assenza, al segreto, alla bugia e alla colpa, che con il suo marchio infamante aleggia mortifera sull’intero villaggio, dando luogo a un’atmosfera cupa e di reciproca diffidenza. A partire dal prologo, in cui il sindaco del villaggio accenna alla «tragedia silenziosa» (p. 7), fino all’epilogo, in cui la protagonista ricade mestamente «nel suo mutismo» (p. 196), tutto il romanzo è fittamente disseminato di cose fatte di nascosto, da dire sottovoce o di cui è meglio non parlare affatto pena l’umiliazione, la punizione o il pubblico biasimo della piccola società rurale, in cui il peccato sembra segnare a vita con il “marchio del diavolo” e ripercuotersi inevitabilmente sui membri della propria famiglia, trasmessa non solo dai genitori ai figli, ma anche viceversa («Devo averlo cresciuto male», p. 105).
In un simile contesto, i racconti che i ragazzi del villaggio si scambiano di nascosto nel bosco assumono per Ida un carattere quasi salvifico e di fuga momentanea dalla sua opprimente condizione, al punto di rischiare gravi ritorsioni da parte degli Hauser «solo perché desidera sedersi attorno a un fuoco ad ascoltare storie» (p. 59), ma soprattutto per poter finalmente rompere il silenzio e «parlare senza abbassare la voce, senza guardarmi le spalle, senza timore» (p. 56). È forse con lo stesso intento liberatorio che, pur senza mai dare a intendere di voler trattare l’argomento in maniera sistematica, Silenzi allude alla dolorosa questione – anch’essa troppo a lungo rimasta sepolta nel silenzio – dei molti bambini vittime della politica famigliare Svizzera in vigore tra gli anni venti e gli anni sessanta, bruscamente sottratti alle loro famiglie per essere collocati presso istituti minorili o famiglie affidatarie, privati di ogni affetto, utilizzati come forza lavoro e costretti a vivere in condizioni degradanti.
Se tanto il prologo – costituito da un estratto di «una lettera del sindaco Bastian Feld alle autorità» (p. 7) – quanto l’epilogo – riportato «da una nota del Sig. Gottfried Glauser, tutore» (p. 195) – possono lasciar spazio alla supposizione che l’autore stia citando prove documentarie e che il romanzo sia ispirato a un caso realmente accaduto, di fatto il personaggio e la triste storia di Ida sono – come affermato dall’autore stesso (vedi la sezione dei Ringraziamenti, p. 199) – frutto di fantasia. Questo fatto, lungi dallo sminuire l’impatto emotivo della vicenda, le permette al contrario di andare al di là dei confini dell’episodio specifico, facendone una delle molte storie possibili, da cui è più facile sentirsi rappresentati, e da cui più facilmente si traggono delle verità generali rispetto alla testimonianza biografica. In altre parole, l’essere un personaggio di finzione fa sì che Ida possa idealmente – guardandosi bene dal generalizzarne l’esperienza in un cliché – rappresentare in una certa misura l’insieme delle vittime della pratica degli affidi.
Restano infine da segnalare le scelte formali per certi versi inconsuete pensate dall’autore affinché la sua storia acquisisse il valore aggiunto della forma letteraria e incrementasse così la sua incisività. Brunoni opta infatti per un’esplicita suddivisione del romanzo in due parti – La fattoria e Il villaggio – velatamente preannunciate nel primo capitolo durante il viaggio di trasferimento di Ida, in cui, ormai vicini alla meta, «la strada si biforca: un ramo porta a una fattoria costruita alla base di una collina […]. L’altro ramo conduce al villaggio…» (p. 14). Mentre la prima parte è narrata al presente della prima persona da Ida stessa, che ci racconta l’intera vicenda dal suo punto di vista, nella seconda parte la narrazione, questa volta in terza persona, si fa corale. È allora che l’autore, riprendendo il tutto dall’inizio, attraverso il vissuto dei vari abitanti del villaggio ci fornisce i tasselli mancanti della storia costituiti da tutto quello che Ida non poteva conoscere, arrivando fino a riproporre alcune scene già narrate in precedenza, ribaltandone la prospettiva narrativa e fornendone così una lettura differente e chiarificatrice ai fini della comprensione della trama. Questo sembra essere l’ambizioso disegno dell’autore, la cui non facile realizzazione risente però un poco di una scelta stilistica sfortunatamente non sempre inseguita fino in fondo. Più che all’esposizione delle individuali versioni dei fatti da parte degli abitanti del villaggio, nella seconda parte il lettore si trova di fronte un narratore onnisciente che, spostando continuamente la sua attenzione da un personaggio all’altro – e nonostante la trama ben costruita – finisce suo malgrado per disinnescare la varietà e la potenziale dinamicità della narrazione a più voci, attutendole attraverso uno sguardo e un linguaggio forse troppo unificanti considerato il loro intento polifonico.
Questi gli aspetti principali di un romanzo dal contenuto maturo, in grado di toccare il lettore coinvolgendolo emotivamente con una scrittura dalle frasi brevi e dal linguaggio semplice ma non scontato, in grado di aderire facilmente al moto irregolare dei pensieri e, evitando formulazioni complesse, di infondere un senso di spontaneità e di immediatezza a una narrazione costruita su una trama solida, fatta di silenzi e successive rivelazioni sapientemente gestite attraverso un meccanismo narrativo funzionale.
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