«Il potente esordio narrativo di Lara Fremder», “L’ordine apparente delle cose” – Naufraghi.ch


© Naufraghi.ch, 24.03.2024

Il potente esordio narrativo di Lara Fremder

“L’ordine apparente delle cose”, in libreria da domani, colpisce per la forza della scrittura e ci consegna un personaggio femminile che non dimenticheremo tanto facilmente.
Di Michele Ferrario

Gabriele Capelli tiene a battesimo un’ulteriore esordiente. Con questo fa onore alla sua casa, fondata a Mendrisio nel 2001, e al ruolo che – con i sostegni necessari – un editore è chiamato ad assumersi appena possibile. A tal proposito, basta dare un’occhiata al sito della casa editrice per trovare alcune indicazioni tecniche: “Pubblichiamo solo circa, 5-7 libri all’anno. Quindi, data l’enorme quantità di materiale che arriva in redazione, esclusa l’email di conferma dell’avvenuta ricezione, non risponderemo a solleciti o altro. La GCE non è una casa editrice a pagamento. La risposta sarà semplicemente un sì oppure un no. Il materiale verrà valutato da una apposita commissione. I tempi di valutazione sono di circa 6 mesi. Se le autrici o gli autori non riceveranno risposta entro il termine indicato, dovranno considerare il silenzio alla stregua di un rifiuto”. Più chiaro di così…

L’ordine apparente delle cose, primo romanzo di Lara Fremder, è stato presentato ieri pomeriggio alla Casa della letteratura di Lugano: ad introdurre l’autrice c’era il giornalista di Rete Due RSI Massimo Zenari.

Cercando qualche notizia biografica su Fremder, apprendo che il suo esordio in ambito strettamente letterario non è certo quello di una principiante. Una particolare scrittura – quella per il cinema – la insegna alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano. Nel capoluogo lombardo Lara Fremder è nata, vive e lavora. Ha firmato soggetti e sceneggiature di film presentati a Cannes, Venezia e Locarno, ma anche documentari, tra i quali Monsieur Pigeon (2020) del ticinese Antonio Prata.

Nella scheda biografica dell’autrice mi colpisce, tra i lavori in preparazione, l’annunciato documentario Gerusalemme, città invisibile. Proprio Gerusalemme (unitamente ai luoghi più battuti dello Stato di Israele) è anche la protagonista onnipresente del romanzo: tra le sue mura millenarie, in un ennesimo frangente difficilissimo e nonostante il conflitto aperto che riduce drasticamente i flussi turistici, va in scena la quotidiana rappresentazione di cui la tre volte santa è cornice e teatro.

Yerushalayim (al-Quds per gli Arabi) si riverbera e si riflette, in tutte le sue distonie, in tutte le sue contraddizioni, in tutti i suoi paradossi, nella figura di Rachele Zwillig, guida turistica. Di questo personaggio, espressione paradigmatica della componente più aperta, laica e democratica della società israeliana odierna, ci ricorderemo a lungo. Nonostante i traumi del passato, ai quali si aggiungono, come in una drammatica concrezione, quelli attuali, Rachele rifiuta la chiusura e spera in un futuro diverso.

Sul suo popolo due volte millenario – e, dal 1948, sullo Stato di Israele, voluto dalle Nazioni Unite per dare una patria agli scampati all’olocausto nazista – pesano i drammi della storia collettiva e le loro ripercussioni sui singoli. Anche i genitori di Rachele sono scampati alla Shoah, ma la madre, Dahlia, si suiciderà quando lei ha solo 4 anni. Con il padre ha pochi contatti a distanza, mentre la figura del fratello è sfumata e misteriosa. Come Rachele, anche Lara Fremder – che del personaggio romanzesco sembra essere, almeno parzialmente, ispiratrice – è figlia di un ebreo polacco scampato allo sterminio.

In questo continuo, osmotico passare dalla realtà alla finzione, dalla quotidianità alla storia, ambientato in un luogo che è di per sé metafora e sineddoche di tutti gli stati d’animo, di tutti i drammi, di tutte le fragilità dell’essere umano, che proprio lì, in una convivenza forzata – impari ab initio – poiché disegnata sulla carta, in questo costante succedersi di passato e presente, di storia e attualità, nelle stesse spiegazioni che la guida dà ai suoi ignari clienti, c’è tutta la tensione narrativa che Lara Fremder sa trasmettere così abilmente al lettore.

Non a caso, per definire la vicenda narrata, l’editore utilizza il termine di parabola. La quotidianità di Rachele racchiude emozioni, stati d’animo, psicologie e drammi condivisi in altre migliaia di storie con altre migliaia di ebrei. Storie di pregiudizio, persecuzione, erranza, diaspora, ritorno alla Terra Promessa. “Con la parabola della sua protagonista, Lara Fremder racconta quella di un intero Paese: come un grido che risuona tra le mura della Gerusalemme, la vicenda di Rachele è una metafora potente che tocca il cuore e interroga il presente”.

“Come figlia di un sopravvissuto” ci dice l’autrice “per lungo tempo non sono riuscita a elaborare la sofferenza. La storia di Rachele è un po’ anche la mia. Sono gli eredi delle vittime della Shoah, oggi, ma non solo loro, ad avere il compito di superare il dolore, pur conservandone la memoria. Uscire dal ruolo di vittima permette di chiudere il cerchio. Come Rachele, ci troviamo di fronte a una scelta: alimentare la ferocia o affermare l’umanità”.

La tentazione di leggere L’ordine apparente delle cose (attenzione a quell’aggettivo: apparente) inforcando le lenti della contingenza e l’ottica manicheistica del buoni vs cattivi, Bene vs Male, è naturalmente forte. Altrettanto forte l’impulso alla contestualizzazione dettata dall’attualità: dove stanno i confini, i limiti ultimi da non oltrepassare? Come trovare un equilibrio percorribile e condiviso tra i princìpi di resistenza, resilienza, fraternità, proporzionalità, perdono?

Fremder opportunamente avverte: “Ho scritto questa storia prima del 7 ottobre, prima che l’ordine apparente delle cose si disintegrasse lasciando ovunque dolore e macerie. Rachele Zwillig, che per tutto il romanzo ha gridato con forza la necessità di staccarsi dal passato senza per questo dimenticarlo, si muove ora fra antiche e nuove rovine”.

Rachele-Lara, dicevamo, ha 41 anni e fa la guida: ogni giorno accompagna decine di turisti più o meno consapevoli, più o meno interessati, più o meno distratti dal rombo di qualche F-35 o da una notizia che giunge dal fronte di guerra. Questi turisti, più o meno attrezzati, li seguiamo nei loro alberghi della Gerusalemme moderna – talvolta vittime di uno scontro tra culture dettato dalla loro ignoranza dei luoghi – o tra le strade/vicoli della Città Vecchia: la Porta di Damasco, la Via Dolorosa, il Santo Sepolcro, il Monte del Tempio, il sottostante Muro occidentale. O ancora, extra muros, nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, sul Monte degli Ulivi e nel Cimitero ebraico (“il luogo da cui Dio comincerà a far rinascere i morti alla fine dei secoli. Questa è la ragione per cui gli ebrei hanno da sempre cercato qui il loro luogo di sepoltura”). In appendice al volume, per orientare il lettore, non manca una carta topografica.

In apertura incontriamo una piccola comitiva di 12 giapponesi, e subito vien fuori uno dei registri – quello dell’ironia (a volte del sarcasmo) – che attraversa l’intera narrazione.

“Lavoro 8 ore al giorno raccontando le storie che i turisti desiderano ascoltare, battaglie, disfatte, miracoli che si ripetono da secoli, storie che non fanno più paura e raramente commuovono, inganni di cui non si può fare a meno. (…) A volte mi invento una data, un imperatore mai nato, luoghi e genealogie inesistenti, nomi e date che sfuggono al controllo della storia e della memoria, in fondo piccoli e innocenti attentati alla realtà. Non lo faccio sempre, di mentire, non gioco d’azzardo, valuto con attenzione chi ho di fronte e scelgo il momento”. Rachele non si nega qualche Gin Tonic, non vi rinuncia neppure di sabato, durante lo Shabbat. Presagendo una serata alcolica dopo una partita di calcio vinta dalla sua squadra, per i giapponesi che l’aspetteranno in albergo la mattina dopo “mi sono inventata possibili tensioni in città e ho avvisato i giapponesi che ci potrebbero essere cambi di programma. Millantato conoscenze nel Mossad, del resto in un paese come questo una buona guida turistica deve avere i suoi contatti. O fingere di averli”.

Tra i suoi clienti, Rachele non ha solo asiatici, americani ed europei: “Domani accompagnerò una coppia di ebrei polacchi allo Yad Vashem. So che sono marito e moglie e che hanno più di ottant’anni. La loro storia è scritta nella loro età e marchiata sulla loro pelle. Sarà una giornata triste, una giornata in cui gli spiriti mi danzeranno intorno”.

Questo tono, a tratti scanzonato, quasi irriverente, è controbilanciato da una vocazione introspettiva e analitica, che Rachele vorrebbe forse riuscire a nascondere anche a sé stessa senza tuttavia riuscirvi. Ben più difficile è autoingannarsi quando siamo soli con noi stessi e ci guardiamo allo specchio, che mentire a un gruppo di estranei in viaggio di piacere.

Per la prima volta, Rachele fa i conti con sé stessa e con le proprie radici, che affronta senza chiudere gli occhi, senza voltare lo sguardo dall’altra parte. Ne scaturisce un racconto di rara potenza.

Riportato in superficie da una vecchia immagine, il trauma del suicidio della madre della protagonista ne scalfisce la corazza protettiva, scava in profondità, logora dentro: “La foto ritrae me e Dahlia, mia madre, cinque giorni prima della sua morte. È il 1981, il 6 marzo. (…) Tiro fuori quella foto una volta all’anno, il giorno della morte di mia madre, e ogni volta che lo faccio trovo un elemento sfuggito allo sguardo e al dolore dell’anno precedente, come se lo smarrimento di allora si rinnovasse svelando un nuovo dettaglio (…). Dahlia e io siamo sedute su un muretto che corre, oltre i margini della fotografia, fino alla fine del mondo. Nella foto la mamma sorride. Come si possa sorridere a pochi giorni dalla propria morte è la domanda che mi insegue feroce da sempre”.

Sulla base di poche tracce – un vecchio quadro e l’immagine di un volto su una fotografia sbiadita – Rachele proverà a ridisegnare il passato, a trarre nuova linfa vitale da quell’albero genealogico che è l’humus stesso da cui è nata.

Ho provato a riassumere, senza raccontarle, queste 161 pagine mirabilmente in bilico – come già indica il titolo, con quell’aggettivo apparente – tra i poli opposti dell’ordine e del disordine. Ne anticipo qui la conclusione, che riprende, completandola, una delle primissime frasi del libro. In entrambe Rachele si rivolge alla comitiva di turno. Ma quella comitiva – sembra dirci Fremder –siamo tutti noi:

“Mi chiamo Rachele Zwillig e sarò la vostra guida. Voglio dirvi da subito che qui non servono mappe e satelliti. Qui è bene perdersi. Perdersi significa non cercare risposte, quindi non fatemi domande se non strettamente necessarie. Non interrompete il vostro smarrimento di fronte ad apparenti certezze. Mantenete il disorientamento, mantenetelo il più possibile perché è questo ciò che ha valore. E quando avrete la sensazione di esservi ritrovati, guardandovi intorno vivrete un’inevitabile contraddizione: da un lato la realtà oggettiva con tutti i margini di errore, dall’altra la realtà unica, quella che siete voi a cogliere e che varia a seconda del sapere, del vissuto, dello stato emotivo. E ancora non basterà, perché il vostro sentire dipenderà dalle nuvole, dal vento, dall’azzurro del cielo, dalla stagione, dalla luce. Qui nessuno può darvi certezze. Nemmeno io, ovviamente (…)”.

Link: naufraghi.ch


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