«Tra quiete e coraggio nella storia», “La Moglie” – minima&moralia


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© minima&moralia, 09.11.2023

“La Moglie” di Anne-Sophie Subilia, tra quiete e coraggio nella storia
di Simone Bachechi

La letteratura è un grande contenitore di storie, intime e private, pubbliche e collettive, vere (o verosimili) o completamente immaginate e stranianti rispetto al cosiddetto mondo reale. Spesso nei romanzi si trovano contemporaneamente queste caratteristiche, più o meno mirabilmente calibrate e in modi diversi messe in rilievo, le une rispetto alle altre, tanto da dare al romanzo una sua precisa collocazione all’interno di un’ipotetica griglia classificatoria, fra le quali possiamo trovare il cosiddetto romanzo storico, romanzo di formazione, romanzo sentimentale.

La Moglie di Anne-Sophie Subilia, poetessa e narratrice svizzera-belga residente a Losanna, vincitrice con questo libro del Premio svizzero di letteratura 2023 (in Italia è uscito il 23 ottobre scorso per Gabriele Capelli editore, con la traduzione di Carlotta Bernardoni-Jaquinta), non può essere definito un romanzo storico, non ne ha la statura e le caratteristiche, né un romanzo di formazione in senso stretto, né allo stesso modo un romanzo sentimentale; eppure racchiude in sé e in parte alcune delle caratteristiche delle tre categorie sopra citate. Al romanzo storico a La moglie può essere attribuita l’appartenenza per il contesto ben delineato che ne costituisce la cornice: siamo a Gaza nel 1974, sette anni dopo l’occupazione israeliana successiva alla Guerra dei sei giorni del 1967, uno dei periodi più cruenti della storia recente nei territori mediorientali, se nella decennale occupazione dei territori palestinesi possa essere stilata una drammatica scala cronologica sulla base della durezza nell’annoso e sanguinoso conflitto israelo-palestinese tornato prepotentemente e tragicamente alla ribalta in questi giorni.

Del romanzo di formazione in senso stretto allo stesso modo ne La moglie si possono riscontrare solo alcuni tratti: Piper soffre di sonnambulismo, è la consorte di Vivian, un delegato della Croce Rossa internazionale inviato in missione nei territori occupati ove visita e presta assistenza, tra l’altro, ai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Piper (la moglie) è catapultata in una realtà che non le appartiene da quella Londra dove si occupava di traduzioni per case farmaceutiche. Fa parte di quegli “expat”, come vengono definiti gli europei che per varie ragioni si trovano in una terra già colonia britannica fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Le sue giornate sono scandite dalla solitudine in attesa del ritorno del marito spesso in missione al di fuori della città di Gaza alla cui periferia la coppia vive in una casa minacciata dagli scorpioni, invasa dalla sabbia e circondata da terreni incolti.

Non c’è molto di più nelle sue giornate oltre alle passeggiate lungo la spiaggia, ai racconti del marito, alle loro serate al Beach Club e le occasionali visite al mercato del bestiame. Oltre a ciò, alcune brevi vacanze, un’escursione nel Sinai con il fratello venuto da Londra scandiscono il tempo di Piper, la quale dalla noia e dallo spaesamento quotidiano inizia progressivamente a provare a crearsi uno spazio di autonomia e indipendenza rispetto al suo ruolo prestabilito di moglie di un delegato della Croce Rossa internazionale. Inizia a guardarsi intono, cercando di allargare la cerchia delle sue conoscenze, a partire dalle baracche di pescatori sulla spiaggia poco distante dove vive la piccola Naima con la quale s’incontra sporadicamente, frequenta Mona, la psichiatra dell’ospedale di Gaza dalla quale rimane affascinata in quanto incarnazione di quella emancipazione femminile a cui lei stessa aspira.

Nello stesso ospedale, inoltrandosi nella nursery, entrerà in contatto con una neonata abbandonata della quale intenderà prendersi in qualche modo cura. Si interesserà alle sorti dei prigionieri palestinesi nelle carceri e stringerà un’affettuosa amicizia con Hadji, il giardiniere arabo che insieme ai due figli avrà in carico l’arduo compito di allestire un giardino intorno alla sua casa immersa in terre aride e sabbiose. Queste attività segnano il processo di trasformazione ed emancipazione della moglie. Piper è quasi sempre appellata in questo modo all’interno del romanzo, così come Vivian (il marito) viene definito il delegato, con un distacco cronachistico che dà alla narrazione, asciutta, ricca di immagini vivide in sequenze fotografiche e con una sintassi essenzialmente paratattica, l’aspetto di un tableau vivant, la rappresentazione di un quadro storico e sociale dal quale non è possibile prescindere vista la sua significativa collocazione geografica e temporale.

Il contrasto che si palesa nelle descrizioni di due realtà così vicine l’una all’altra e così conflittuali, quali quelle di una striscia di terra addossata al mare e schiacciata ai margini di territori occupati dal riconosciuto internazionalmente Stato di Israele è quello che prende il palcoscenico del romanzo e in ogni caso ne costituisce uno dei punti più rilevanti: Gaza con le sue strade polverose e quei calcinacci dai quali sembra uscir fuori vita e Tel Aviv dove Piper si reca insieme al marito per un incontro di lavoro del delegato. Pochi chilometri dividono le due città lungo la costa del Mediterraneo; Tel Aviv con i suoi moderni centri commerciali e palazzi residenziali, con le donne in abiti eleganti e le scarpe di vernice, con le piazze con fontane e una rigogliosa vegetazione, con le strade solcate dalle numerose auto, poco più a sud i check-point israeliani e una città con costruzioni mai terminate in strade immerse nella polvere e nella sabbia percorse da asini e carretti.

La cornice ma anche la sostanza del romanzo in fondo è questa: gli espropri, i controlli, le demolizioni e i rastrellamenti dell’esercito israeliano sulle spiagge al calar del sole per impedire fughe o ingressi via mare, gli stessi israeliani che controllano l’erogazione dell’elettricità nella Striscia decidendo se e quando lasciare al buio i suoi territori così come con l’embargo stringono nella morsa della fame e della povertà la sua popolazione da decenni. La dura realtà quotidiana della gente di Gaza si prende il libro oltre ogni sentimentalismo che pure è presente, non fosse altro per via negativa con la storia dei due coniugi che sembra naufragare nel disamore e nella noia.

Altro contrasto che emerge dalla lettura è quello inerente alla diegetica del romanzo di Anne-Sophie Subilia in relazione alla realtà rappresentata. Il punto di vista narrativo è inevitabilmente quello occidentale di una coppia di privilegiati che si trova in un paese martoriato del Medio Oriente afflitto dalla povertà e dall’insicurezza. Da rimarcare che la protagonista Piper (la moglie) è di nazionalità britannica e il Regno Unito dalla fine del primo conflitto mondiale al 1948, quando a seguito della guerra arabo-israeliana del 1947-1948 che segnerà il passaggio dei territori palestinesi sotto il controllo egiziano, è stata la forza di occupazione di quelle terre, il cui abbandono a sé stessa lasciando un cumulo di macerie è a detta di molti ancora oggi la prima causa del decennale conflitto arabo-israeliano che si perpetua fino ai giorni nostri.

Questa cattiva coscienza si palesa dal punto di vista narrativo in episodi come quello nel quale Piper si trova a osservare con sguardo compassionevole la famiglia dei vicini che vive sulla spiaggia in una baracca di pescatori, due mondi che si sfiorano e si guardano con diffidenza. Dal romanzo non è scevro il peccato originale di ogni narrazione coloniale o neo-coloniale che porta i nostri occhi occidentalizzati a vedere il lontano da noi con gli schemi della nostra cultura, spesso in modo esotico e in tal senso ottuso, echi che si trovano anche nelle visite alla coppia da parte del fratello di Piper e di altri parenti del marito, uno sguardo che in ogni caso negli occhi di Piper provoca una trasformazione e una progressiva presa di coscienza della donna determinandone la sua emancipazione e il completamento della sua identità. La conclusione del giardino (allestito dal giardiniere arabo Hadji) e la sua fioritura segna metaforicamente la rinascita della donna dal punto di vista personale e costituisce un qualche messaggio di speranza del quale mai come in questo tempo c’è bisogno.

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