Fallimento terapeutico

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Alessia J.
Fallimento terapeutico
Una storia vera

978-88-97308-13-3

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Prefazione
Micaela Castiglioni[1]

Non è stato facile attraversare le pagine di questo libro che restituiscono le tappe di un doloroso e quasi infinito pellegrinaggio dentro vari reparti di terapia intensiva e di riabilitazione di più ospedali e centri. Ma sono convinta che sia uno sforzo emotivo che necessiti di essere fatto per essere attenti testimoni, con l’autrice del racconto, di un caso (forse, e purtroppo, tanti casi?) di fallimento terapeutico e di malasanità.
Alessia e Gustavo, sono una coppia come tante altre, di media età, unita da un profondo legame d’amore, che conduce una vita perlopiù tranquilla fino all’irrompere brusco e improvviso della malattia di Gustavo. Per una cura omeopatica sbagliata inizia il vero e proprio calvario di Gustavo dentro la malattia e dentro un susseguirsi di luoghi di cura, che di fatto, saranno luoghi di non cura. In questo doloroso calvario si trova catapultata inevitabilmente anche Alessia.
A medici freddi, indifferenti, fuori luogo sarcastici, si alternano medici arroganti e perfino incompetenti che confondono la relazione di cura con un rapporto di potere. Del resto, non è poi così difficile sentirsi potenti di fronte alla fragilità e alla dipendenza di chi sta male. Soltanto qualche infermiere si dimostrerà capace di prendersi cura di Gustavo, ascoltando contemporaneamente i bisogni di Alessia. Ma la sofferenza più profonda che viene inferta, in particolare, a Gustavo consiste nel renderlo invisibile. Tu, paziente, non ci sei, non ti vedo, non ti riconosco, pertanto, non faccio assunzione di te, non mi faccio carico di te dentro una relazione di cura che possa restituirti un volto, una storia, delle emozioni e dei vissuti, anche pesanti.
Gli operatori in cui s’imbattono Gustavo e sua moglie, per quasi due lunghi anni, sono convinti che il loro agire sia soltanto tecnica, prescrizione continua e massiccia di terapie e farmaci, nonché di esami invasivi, senza contare gli errori tecnici commessi, gli interventi e le prestazioni cui è stato sottoposto Gustavo, a-finalizzati, contradditori, se non perfino nocivi. Quando va bene, l’operatore di turno si limita a guarire la malattia di Gustavo, il suo dolore fisico, il suo corpo-cosa, ma esclude completamente la dimensione del senso, del significato (Bertolini, 1994) che ha per lui la sua personale esperienza di malattia e di sofferenza, non soltanto fisica. Che fine ha fatto l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle aspettative… di Gustavo; chi accoglie i suoi timori, le sue paure, le sue angosce…? Eppure, Gustavo, come ognuno di noi, non è fatto solo di polmoni, fegato, milza…, Gustavo è sì paziente, ma è prima di tutto una persona che sta male, che soffre, e che anche dentro il forte dolore, e le forze fisiche che vengono sempre meno, cerca di dare un senso a sé, alla sua quotidianità: dipinge quando ce la fa, passeggia ogni tanto con la moglie nei corridoi o nei giardini dell’ospedale, scrive brevi appunti che lo mettano in contatto più intimo con Alessia, quando la parola inizia sempre più a venire meno.
La vicenda che ci restituisce Alessia, tramite una scrittura cronachistica molto meticolosa, che si articola di giorno in giorno, come una sorta di diario della storia di malattia del marito, ci riporta a quanto afferma Good: “[…] la persona, il soggetto della sofferenza, viene rappresentato come il luogo della malattia piuttosto che come agente narrante, il paziente diventa progetto medico”. Gustavo, progressivamente, è diventato un progetto medico, tra l’altro, un progetto con fallimento (2006, p. 23).
Paradossalmente, Gustavo e Alessia rappresentano per i medici una fastidiosa interferenza a quell’abituale e comodo procedere che si fonda sulla certezza, non messa in discussione, del “si fa così, perché si fa così”; “il dottore vuole così, ha deciso così”. L’unico esperto, trincerato e protetto dal suo ruolo, avvolto da un’aurea quasi mistica, è il medico: eppure, sia Gustavo sia sua moglie, anche loro malgrado, sono stati obbligati a diventare esperti della vicenda di malattia che li riguarda[2]. Esperti negati.
Se la cura, come ci ricorda Mortari[3], è attenzione all’altro, disponibilità a fare un passo indietro per far posto all’altro, empatia, responsività, tenerezza, responsabilità…, senza per questo annullare se stessi, questo atto di cura è prestato da Alessia, non certo dai vari professionisti con i quali lei e Gustavo sono entrati in contatto. Anzi, in uno dei tanti spostamenti d’ospedale, il disagio di Gustavo si pensa un po’ frettolosamente e in modo semplicistico che sia cosa da psicologo: non c’è la disponibilità per costruire proprio tramite e dentro la relazione di cura quotidiana un contenitore rassicurante dove poter pensare e trasformare insieme, almeno un po’, le ansie, le paure, le cadute, ecc., di Gustavo. E l’invio allo specialista semplifica la questione e soprattutto non chiede al medico
di esporsi, di coinvolgersi, nell’illusione che il terapeuta svolga quasi una funzione salvifica.
Così, Gustavo e Alessia si ritrovano sempre più soli, fino alla morte di Gustavo, dopo circa due anni dall’esordio della sua malattia: “Dopo nove mesi e un giorno ritorno a casa da sola.
Apro la porta della nostra casa. Vuota. Triste. Le tapparelle chiuse. Mi guardo in giro, non mi sembra di essere a casa, mi sento sospesa chissà dove […]”.
Ecco che Alessia sceglie di darsi un progetto: quello di riordinare gli appunti del suo diario per trasformarlo in un libro. La sua scrittura ripercorre giorno dopo giorno la terribile esperienza vissuta. Leggendo, a tratti, ho avuto quasi l’impressione – non vi sembri irriverente o poco pertinente – che l’autrice procedesse quasi secondo il registro di un racconto giallo, meglio ancora, noir. Proprio per trasmettere al lettore il senso dell’incertezza – della confusione, dell’impotenza, degli improvvisi colpi di scena… – sperimentato.

[1]Ricercatrice e docente di Pedagogia Generale II e di Educazione Permanente e degli adulti, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “R. Massa”, Università degli Studi di Milano-Bicocca.
[2]Si è fatto riferimento a quanto sottolinea il modello della medicina biopsicosociale, o anche, medicina narrativa.
[3]Per un approfondimento di tali dimensioni si rimanda a L. Mortari, La pratica dell’aver cura, B. Mondadori, Milano, 2006.


La cronaca di milleduecentotrentacinque giorni di sofferenza.
Seicentosettantacinque giorni di ospedale, cinquecento nel reparto di terapia intensiva
La cronaca di ogni singolo giorno, vissuto al fianco di mio marito.
La cronaca di un orribile e interminabile incubo, dove superbia, arroganza e potere alimentavano la sfiducia, l’insicurezza, il dubbio…
La cronaca di errori, negligenze, modi di agire, incompetenza, disperazione, sofferenza, dolore.
La storia di un immenso amore.

Immagino un ospedale dove l’umanità, il rispetto, la comprensione e l’amore per il prossimo siano la realtà.
Immagino un ospedale dove potere, arroganza e superbia non esistano.
Immagino un ospedale dove ci sia il sorriso.
Vorrei con tutto il cuore evitare che altre persone debbano subire la nostra stessa pena e che tutto si ripeta.
Vorrei contribuire a costruire un luogo dove i pazienti non si sentano cose ma esseri umani, ascoltati e curati con amore.
Vorrei posare il primo mattone.
Per questo motivo ho deciso di raccontare la nostra sofferenza, il nostro vissuto, una cronistoria basata rigorosamente sugli scritti di mio marito e sugli appunti che prendevo, meticolosamente, ogni giorno.
Ho volontariamente omesso i veri nomi delle persone e dei luoghi.
I nomi dei curanti, medici e sanitari, sono tutti di genere maschile e di fantasia.
Il periodo nel quale si è svolta questa vicenda non ha nessuna importanza, il fluire del tempo sarà scandito dagli anniversari del nostro matrimonio e dal susseguirsi delle giornate.
Per una maggiore libertà di lettura, esente da pregiudizi, dopo lunga riflessione, ho deciso di usare nomi di fantasia anche per noi protagonisti e di firmare con uno pseudonimo.
Mi auguro che chi leggerà la nostra storia avrà modo di riflettere e di aggiungere, forse, un altro mattone per costruire questo luogo.


Pubblicato con il contributo finanziario del Cantone Ticino derivante dal Sussidio federale per la promozione della cultura italiana.


ESTRATTI

Gustavo è partito alle undici con l’elicottero. È una giornata fredda e grigia. Acquisto un biglietto di sola andata e aspetto l’arrivo del treno, immersa nei miei pensieri. Trovo posto accanto al finestrino. Sistemo le borse e mi siedo.
È un viaggio poco allegro, che non finisce mai. Alle cinque di sera arrivo nella Svizzera interna. Prendo un taxi perché non so dov’è l’albergo e poi scopro che è a pochi minuti a piedi dalla stazione. In albergo chiedo informazioni su come raggiungere l’ospedale, ma ormai è buio, così prendo un altro taxi. Arrivo all’ospedale. È molto più grande di quelli che ci sono da noi. Entro. Un potente getto di aria calda m’investe, mi guardo in giro e vedo un signore seduto dietro un computer. Mi avvicino, chiedo dove posso trovare mio marito.
«Intensivstation, Violetter Lift » risponde porgendomi un piccolo pieghevole con l’ubicazione del reparto, e indicandomi nel frattempo con la mano la direzione per il “Violetter Lift”. Lo ringrazio, mi avvio nella direzione indicata, apro il pieghevole e vedo che è una piantina con le istruzioni per raggiungere il reparto, tanto è grande questo posto. Percorro corridoi su corridoi e arrivo poi non so come davanti a questo Violetter Lift; entro per poi uscire al piano indicato sul foglietto. Un altro corridoio, lungo anche questo, e poi mi perdo.
È enorme qui! Corridoi, poi corsie, poi corridoi. Finalmente arrivo davanti a una sala d’aspetto molto piccola, ricavata nella rientranza del corridoio. Vedo una porta automatica, anche qui c’è un citofono, mi annuncio, qualcuno risponde, un paio di secondi dopo la porta si apre ed esce un infermiere.
«Parlez-vous français?»  chiedo piena di speranza.
«Nein, do you speak English?» ribatte.
«A little…»
«A little is better than nothing, aber hier spricht man Deutsch» dice un po’ bruscamente.
Sono in ansia per mio marito, ho la mente vuota e sono anche un po’ intimorita. L’infermiere mi fa strada. Oltrepassiamo la porta automatica e percorriamo un piccolo corridoio; vedo un grande spazio aperto davanti a me. Letti con persone piene di tubi e macchinari. È diverso, ma nello stesso tempo uguale a quelli che avevo visto in Ticino, solo che qui sembra tutto molto più asettico, efficiente e silenzioso. L’infermiere si ferma, mi indica una porta alla mia sinistra.
Prima di entrare però mi mostra un grembiule giallo, mascherina e guanti. Mi spiega che forse Gustavo ha un batterio, aggiunge che per prevenzione verso gli altri pazienti prima di entrare in camera mi devo vestire, e prima di uscire devo lasciare il grembiule e il resto in un sacco della spazzatura. Dopo questa laboriosa spiegazione un po’ in inglese e un po’ in tedesco, mi vesto e finalmente posso vedere mio marito.

Gustavo è sedato perso. Entra il dr. Allan.
«Venga signora» mi dice, e usciamo dal reparto. «Mi hanno detto che lei parla francese.»
«Sì.»
«Bene, per me è meglio. Stamattina ho provato a fermare la sedazione e ho fatto togliere il respiratore, ma dopo un po’ si è agitato tanto, era tachipnoico. Non volevo lasciarlo in quello stato e allora l’abbiamo rimesso al respiratore e ricominciato la sedazione.»
«Lo sapevo che sarebbe successo, sono queste le reazioni che le descrivevo ieri. Gustavo non sopporta quei farmaci.»
«Me ne rendo conto. Le chiedo che cosa mi suggerisce di fare quando suo marito ha queste crisi, perché altrimenti il dr. Fritjof gli darà le benzodiazepine.»
«Era già così al nostro arrivo e anche quando ha fatto la prima polmonite da aspirazione. Il dr. Günter gli dava sempre questa roba anche se vedeva cosa capitava.»
«È il dr. Fritjof che comanda, non il dr. Günter, e anch’io purtroppo non posso decidere nulla.»
«L’ho detto mille e mille volte che cosa capita a mio marito, ma…»
«Vede signora, dieci medici, dieci teste, e lei non può dire loro quello che devono fare.»
«Me ne guardo bene! Ma se non sopporta certe cose, e loro non lo sanno, lo dovrò pur dire! Lei è l’unico medico che mi ha ascoltato.»
«Per questo le chiedo cosa dobbiamo fare adesso, e se lei ha un’idea il dr. Fritjof non darà le benzo a suo marito, in caso contrario sì.»
«Bisognerebbe togliere tutto quello che non è indispensabile per la sua sopravvivenza. Non so fino a quando sopporterà tutti questi veleni.»
«Ho provato, ma non funziona.»
«Deve passare l’effetto del Temgesic, della Garamycin, del Diso e del Paspertin. È sempre stato così, anche nella Svizzera interna, quando lo hanno operato. Mi chiamavano la notte quando era agitato e mi voleva accanto. Noi abbiamo il nostro sistema e la paura passa. Mio marito sta male, ma gli effetti devono passare da soli, non c’è altro da fare. Per questo mi lasciavano rimanere con lui. Sono io la sua benzodiazepina» gli dico, e il dr. Allan sorride.
«Per me va benissimo, ma non so cosa farà il dr. Fritjof.»
«E lei cosa farebbe?»
«Io toglierei tutto» risponde molto deciso.
«Lei è l’unica persona, scusi, l’unico medico che mi abbia mai ascoltato.»
«Purtroppo io non ho molto potere… e so che queste cose possono essere molto dannose. Ricordo il caso di una paziente con il Parkinson che è stata curata a casa per anni dalla figlia, poi è arrivata qui ed è morta per colpa dei… Ma lei deve cominciare a pensare cosa fare quando tornerete a casa.» Si ferma e mi guarda. «Pensano che suo marito non possa più progredire» aggiunge.
«Prima di affermarlo avrebbero dovuto fare qualcosa! Verificare se respirava ancora con il naso e aiutarlo ad abituarsi alla maschera; non farlo fare a me! E poi anche… di positivo è stato fatto troppo poco e adesso è ancora peggio. Eravamo felici di poter venire qui, ci aspettavamo una riabilitazione; non questo.»
«Se ha bisogno mi chiami, anche se non sarete nel mio reparto. So cosa vuol dire stare male e vi posso capire benissimo. L’ho provato sulla mia pelle per cui so di cosa parlo. Le do un piccolo consiglio: non appena suo marito è stabile lo porti a casa.»
«Gustavo non ha mai avuto peggioramenti di salute, sono stati tutti errori, negligenze o farmaci ad averlo ridotto in questo stato. È sempre ritornato indietro e abbiamo sempre dovuto ricominciare da capo. Ci aiuti lei per favore, perché fuori di qui non so dove andremo.»
«Ma non tornate in reparto?»
«Non so, tutte le cose di Gustavo le hanno depositate in uno stanzino, c’è un altro paziente al suo posto.»
«Conoscevate già il dr. Eike?»
«No, l’avevamo visto solo a Natale, perché era di guardia.»
«Senta, oggi sono io il capo qui, ne parlerò con il dr. Fritjof, ma non so cosa deciderà.»
«Grazie. L’infezione è scesa almeno?»
«Sì, quella sì. Non so quanto tempo resterete qui, il problema sono le reazioni ai farmaci e le benzodiazepine. Si deve togliere il respiratore al più presto, ma se suo marito ha le crisi dovute ai farmaci non si può. Le do un consiglio signora, non dica più nulla ai medici, che tanto fanno lo stesso quello che vogliono senza ascoltare, anzi…»
«La prego, ci aiuti lei, per favore!»
Il dr. Allan posa la sua mano sulla mia, mi viene da piangere.
«Odio piangere» gli dico con le lacrime agli occhi.
«Perché?» chiede gentilmente.
«Perché non serve a niente. Devo lottare per mio marito, non piangere!»
«Bisogna essere forti, ma piangere serve per capire poi cosa fare. Anche per me non è sempre facile, e non sono sempre forte.»
Il medico mi guarda e mi tiene a lungo la mano.
«Ho molta ammirazione per quello che sta facendo.»
Si commuove anche lui, poi mi lascia la mano e se ne va senza dire una parola. È stato un momento molto intenso, per entrambi.
È molto bello poter parlare con un medico che ti ascolta, e soprattutto che capisce di cosa stai parlando. C’è stata comprensione, empatia, è la prima volta da quando siamo qui che capisco di essere veramente ascoltata. Solo qualcuno che ha provato a essere dall’altra parte può capire cosa significhi.

L’ambulanza si ferma. I volontari fanno scendere la lettiga con mio marito e si avviano per corridoi e ascensori. Io li seguo con le borse in cui si trovano le cose di Gustavo. Faccio fatica a stargli dietro, vanno molto velocemente. Rieccoci davanti ad un’altra porta automatica, la aprono e io non sapendo cosa fare li seguo entrando con loro in un altro corridoio. La lettiga mi nasconde la vista, sbuca da non so dove un infermiere, gli sorrido e lo saluto gentilmente.
«Deve tornare indietro e andare in sala d’aspetto» mi dice senza salutare e senza indicarmi dove si trovi.
Vedo che Gustavo alza una mano, ma le porte si chiudono e lui scompare.
Dopo parecchio tempo un infermiere viene a prendermi e mi accompagna da mio marito.
Appoggio le borse sul pavimento, cerco una sedia ma non c’è. Gustavo mi guarda.
«È più grande qui.»
Vengono a chiamarmi.
«Il dottor Adelfo le vuole parlare» mi comunica un infermiere, lo seguo.
Entra con me nello studio del dottore.
Ci presentiamo.
«Suo marito non sarà trattato come signor Gustavo, ma come Pinco Pallino. Qui non troverete sicuramente il medico gentile che cercate, e qui il medico curante sono io» esordisce il dr. Adelfo con un tono molto aggressivo, lasciandomi senza parole. Aggiunge poi che mio marito è grave, anzi gravissimo! E poi termina dicendo che rifaranno tutti gli esami.
Si alza: «Lei deve stare calma, e attenersi al contratto. Un’ora al giorno di visita.»
La conversazione è finita.
Mi sono sentita una delinquente. Un’esperienza tremenda. Torno da mio marito con il cuore in gola e un sorriso sulle labbra.

Finalmente trovo l’ufficio e mi presento alla persona di contatto. C’è un gran viavai lì dentro.
«Le devo dire che purtroppo la Cassa Malati non paga molto» mi dice subito.
«In che senso non paga?»
«C’è un massimo al giorno e anche se suo marito ha bisogno di aiuto 24 ore su 24 non cambia nulla.»
«Ma ha un’assicurazione privata, e ha sempre pagato.»
«Purtroppo non so cosa si potrà fare. Adesso arriveranno due signori per parlare con lei, anzi dovrebbero essere già qui» dice guardando l’orologio. «Sono i responsabili per le cure a domicilio della vostra regione.»
«Vediamo» rispondo, sorpresa da quello che ho appena sentito.
Un impiegato entra accompagnando le persone che devo incontrare. Li informo sullo stato di salute di mio marito. Poche parole e niente sorrisi: molto freddi.
«Noi possiamo mettere a disposizione degli infermieri solo se a casa vostra c’è un letto elettrico che si può alzare» mi dice uno di loro.
«Nel letto abbiamo già dovuto far mettere una rete elettrica, quando mio marito ha iniziato a stare poco bene.»
«Ma si alza?»
«Sì, lo schienale e i piedi si possono sollevare fino a ottenere una posizione seduta.»
«Ma si può alzare tutto il letto?»
«No, tutto il letto no.»
«Questa è una condizione, il letto deve poter alzarsi perché il nostro personale non vuole avere male alla schiena, e l’altra è che ci vogliono le sbarre.»
«Le sbarre per che cosa?»
«Il nostro personale non vuole farsi toccare dal paziente quando lo rinfresca o fa altro; il paziente si deve tenere alle sbarre.»
«Guardi che mio marito non ha una malattia contagiosa, non è appestato!»
«Il nostro personale non vuole farsi toccare e queste sono le condizioni.»
«Ma il vostro personale è in grado di broncoaspirare le secrezioni col sondino endotracheale, gestire aspiratore e ventilatore?»
«No, noi non facciamo questi lavori, e non possiamo nemmeno garantire una presenza costante e continuativa con lo stesso personale.»
«Vi ringrazio, ma vedo che voi e il vostro personale non potete aiutarmi.»
Ci salutiamo. I due signori escono.
Sono molto sorpresa dalle loro richieste. Degli infermieri che non vogliono farsi toccare dal paziente che hanno in cura… è pazzesco!
Anche la persona che li ha contattati è molto sorpresa.
«Bisognerà cercare qualcun altro, ma non so chi» mi dice.
Ci salutiamo. Probabilmente ci sono delle cose che mi sfuggono. L’assicurazione non paga e degli infermieri professionisti non sono in grado di aiutarmi. Ho sempre pensato che la realtà fosse un’altra, e tutti i discorsi dei politici? “Bisogna fare in modo di tenere i pazienti a casa loro, le cure a domicilio…”
Tutte belle parole.

Il dr. Remo e Tristano, l’infermiere, ci stanno aspettando.
Ci accomodiamo.
«Si sa qualcosa riguardo al medico che dovrà venire a casa?» chiedo al dr. Remo.
«Sì, l’abbiamo trovato ed è convenzionato con la vostra Cassa Malati. Dovrà venire qui a vedere suo marito.»
«Si sa quando? Mi piacerebbe conoscerlo.»
«No, non so. L’ho convocata per dirle che entro otto giorni deve portare a casa suo marito.»
«Ma se non so nemmeno chi verrà ad aiutarmi…»
«Senta, o lo porta via o lo mandiamo in un altro istituto.»
«Cosa? Non è possibile!»
«Lei deve darsi una mossa» risponde il dr. Remo.
«Cos’è che dovrei fare?»
«Anche lei deve cercare…»
«Cosa crede che stia facendo?» rispondo interrompendolo. «Ho chiamato molte agenzie private ma nessuna di quelle che ho contattato, guardando gli annunci sui giornali, è in grado di fornire personale qualificato.»
«Noi le abbiamo convocato uno Spitex pubblico.»
«Già, mi hanno messo solo condizioni.»
«Se lei non li vuole si deve arrangiare.»
«Certo che mi devo arrangiare, anche ieri mi hanno chiamato.»
«Vede…»
«Tristano» rispondo guardando l’infermiere «insiste perché io assuma questa gente, ma non vanno bene, perché non sono in grado e non possono broncoaspirare. Non lo fanno perché mi hanno detto che hanno i loro regolamenti, e allora vede anche lei che non servono. Altre proposte da parte vostra non ne sono venute. Da voi non ho il minimo aiuto, devo fare tutto da sola e mi ci vuole tempo. Non c’è umanità in questo posto! In più, solo dopo che ho insistito parecchio sono riuscita ad avere qualche piccola informazione sul respiratore da parte del vostro specialista, e non è corretto da parte vostra, sapendo che è di importanza vitale per mio marito. Per quanto riguarda poi il materiale ho dovuto arrangiarmi con i nomi dei fornitori che Tristano mi ha dato, e il mio farmacista ha dovuto contattare tutte le aziende. Nessuno mi ha aiutato nemmeno per quanto riguarda la scelta della carrozzella. Le sembra normale?»
«Senta, non dobbiamo litigare» risponde il dr. Remo.
«Non si tratta di litigare. Gustavo non va da nessuna parte, da qui viene a casa, e solo quando tutto sarà sistemato. Anche il dr. Kris vi ha detto che doveva essere tutto pronto per la sicurezza di mio marito, e ci sarebbe voluto del tempo, tre o quattro mesi addirittura, ricordo. E in quella seduta nessuno di voi ha avuto niente da obiettare; adesso per una questione di soldi volete buttarlo fuori, e non si merita tutto questo.»
«Non ho deciso io, sono i capi» risponde il dr. Remo.
«Ma se non ho ancora gli infermieri!»
«Non staremo a guardare un giorno in più o in meno, ma al massimo entro tredici giorni.»
«Signora, se vuole la posso aiutare con la lista del materiale, e per i farmaci il dottore le farà una ricetta» interviene Tristano.
«Grazie, anche per il girello avrei bisogno della ricetta.»
La seduta è tolta.
Biagio è allibito e se ne va.
Io sono completamente scombussolata.

«Lei fa bene a coltivare la speranza, è il suo ruolo, sta combattendo una guerra… ma non conosce il suo nemico.»
«E chi sarebbe il nemico?»
«La politica, il punto di vista medico.»
«La politica, sì, saremmo dovuti venire subito qui dopo la Svizzera interna. Ha ragione sa, si è preferito fare politica anziché capire chi fosse il paziente e perché sarebbe dovuto venire da voi. Così ci rispedirono in Ticino, sapendo benissimo che in quel posto mio marito non avrebbe mai potuto fare una riabilitazione. Lì abbiamo incontrato un altro medico che oltre ad aver peggiorato la situazione in tutti i modi mi disse dopo tre mesi che non arrivavano più soldi, la Cassa Malati non pagava più abbastanza e allora decise di sbatterci fuori dalle cure, così!»
«Non per difendere il medico, ma ha dovuto fare in quel modo perché altrimenti lo avrebbero punito dal dipartimento delle finanze. Ci sono dei budget…»
«Ma l’ospedale non dovrebbe curare i malati?»
«Sì, ma è una questione di costi.»
«Allora anziché curare un malato gli mettete la testa sotto l’acqua e lo tenete sotto.»
«È brutto da dire ma è un po’ così» mi risponde il dr. Wim.
Rimango senza parole, sono inorridita da quello che sento.
«Voi siete rimasti vittime del sistema e della politica, e un Cantone che non vuole prendere a carico un paziente è una vergogna!» aggiunge.
«Siamo venuti via dalla Svizzera interna che mio marito respirava da solo, lì almeno l’hanno curato! Ci hanno messo una settimana a fargli guarire le gambe, cosa che in sei mesi da noi non sono riusciti a fare. Ha dovuto subire cinque interventi ai polmoni, decorticazione e il resto, ma non sarebbe stato necessario, ci hanno detto, se le cose fossero andate come dovevano in Ticino.»
«Ma sa, forse la decorticazione non era indispensabile.»
«Senta, tolga mio marito dalle cure e poi ce ne andiamo.»
«Togliere suo marito dalle cure non è un problema, ma ci vuole tempo.»
«Va bene.»
«Potete rimanere fino al 675° giorno, ma voglio aiutarla a organizzare le cose a casa vostra, visto che vuole portarlo lì.»
«Certo, Gustavo non va da nessun’altra parte.»
«Voglio darle una mano a trovare personale qualificato, e anche per il lato economico vedo di parlare con qualcuno per non mandarvi in rovina.»
«Me ne aveva parlato anche il dr. Eike, ma…»
«Le procuro io un appuntamento, e poi la farò contattare dall’impiegato per iniziare a organizzare il rientro a casa. Lei non ha tanto bisogno di medici quanto di personale qualificato che l’aiuti.»
«Guardi che l’ho curato da sola per molti mesi prima di venire qui, ce la posso fare benissimo.»
«No, lei non può farcela da sola e non può nemmeno assumersi questa responsabilità.»
«Certo che quando siamo arrivati non era in questo modo che avevamo immaginato di rientrare a casa. Con tutto quello che è capitato hanno distrutto mio marito. Farmaci compresi! Due psichiatri avevano detto che questi medicamenti non andavano bene per lui! Avevano chiesto apposta il loro parere.»
«Gli psichiatri dicono le cose e poi se ne vanno.»
«Ma lo hanno detto, però. Anche certi infermieri distribuiscono farmaci come fossero caramelle solo per tenere tranquillo un paziente, senza preoccuparsi di capire qual è il problema e senza pensare alle conseguenze. E non sanno che la Temesta è una benzodiazepina.»

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