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© Il mestiere di leggere, 26.07.2020

Letteratura, Letteratura svizzera, recensioni
Begoña Feijoo Fariña, Per una fetta di mela secca

La colpa non sta in noi. È in loro. Lo so, lo sapevamo tutte in fondo ai nostri cuori. È stato solo più facile prendersi colpe che ammettere di subire ingiustizie. E anche se lo so il pensiero ha messo radici troppo profonde in me e torna. Torna il una come me il buona a nulla e il ladra. E così eccomi qui ora, il giorno del mio trentesimo compleanno, ad avere paura del mondo fuori dalla porta. Compio trent’anni e sono sola dentro questa piccola casa e sola al mondo. Perché il mondo fuori dalla porta non sa, non ha visto. Il mondo fuori dalla porta pensa che se sei stato punito hai commesso degli errori. Il mondo fuori dalla porta vuole credere che la giustizia, per il nome che porta, sia giusta. E che siano giusti l’ordine, la pulizia, le messe la domenica e il sonno la notte. (pag. 103)

Per una fetta di mela secca, di Begoña Feijoo Fariña, Gabriele Capelli editore 2020

Il romanzo della scrittrice Begoña Feijoo Fariña porta alla luce una pagina buia della storia sociale svizzera. Attraverso la vicenda della protagonista Lidia Scettrini – un nome inventato ma dietro cui si celano storie vere – racconta le vicissitudini che hanno dovuto subire molti bambini e adolescenti in un arco temporale che va dagli inizi degli anni Quaranta del Novecento fino addirittura agli anni Ottanta.

Una storia dolorosa, raccontata in prima persona da Lidia che, ormai donna di mezza età, ripercorre il suo passato: dalla Lidia bambina e via via, coprendo l’arco della sua vita, fino alla donna di oggi; una vita segnata per sempre dal trauma che ha subito e da tutte le conseguenze che ne sono derivate. La storia di una per alzare il velo di omertà sulle storie di molti.

Nel suddetto periodo in Svizzera veniva applicata una prassi che, seppur sulla carta poteva sembrare un modo di tutelare l’infanzia disagiata, nella realtà dei fatti dava luogo a crudeltà inaudite. I bambini e i ragazzi che per qualche motivo venivano ritenuti difficili, o perché vivevano in famiglie molto povere, o per fatti bollati come reati o pseudo tali, o perché i genitori si separavano, o si trattava di figli naturali di madri sole, o orfani, questi bambini e ragazzi venivano affidati ad istituti e poi dati in affido a famiglie di contadini. Tutto questo avveniva contro la volontà dei genitori, d’ufficio e senza possibilità d’appello; i bambini venivano letteralmente strappati alle loro famiglie d’origine , chiusi in istituti in cui subivano maltrattamenti fisici e psicologici, per finire poi in famiglie che li accoglievano al solo scopo di aumentare la forza lavoro nelle proprie fattorie. Ragazzini malnutriti, picchiati e, peggio ancora, abusati. Tutto questo sotto l’apparente e paternalistico consenso delle autorità che chiudevano gli occhi di fronte all’evidenza, che ritenevano così di “salvarli” da condizioni difficili, e di educarli a diventare onesti e timorati cittadini.

Una pagina davvero aberrante, a cui in tempi recenti si è cercato di fare ammenda, con la pubblica ammissione della crudeltà, con le scuse offerte a chi ha patito tanta sofferenza, e con la messa a disposizione di un risarcimento monetario (come si può quantificare il dolore?). Atto dovuto, ma purtroppo non in grado di cancellare il passato.

Dunque, un romanzo che tocca i sentimenti di chi lo legge, lasciando un’amarezza impotente di fronte ad un qualcosa che sembra frutto del peggiore incubo. Una scrittura che non tralascia niente, che mette sulle pagine ogni singolo particolare, senza compiacimento, ma anche con forza e onestà.

Conosciamo dunque Lidia bambina, che vive felice in una famiglia modesta, in campagna; di fianco a lei la giovane madre amorevole e un padre che però, dopo pochi anni, decide di abbandonare la moglie e rifarsi una vita con un’altra donna, in un’altra località. Ecco che la parola divorzio entra nel lessico familiare; un’ombra scura gettata sulle spalle della madre – se lui l’ha lasciata, un motivo ci sarà, commentano i paesani – una colpa che madre e figlia dovranno scontare duramente.

Lidia, a scuola, dopo l’ennesima vessazione da parte di un compagno, gli ruba la merenda – una fetta di mela secca – e per questo, viene allontanata dalla madre che, a detta dell’ispettore incaricato, sta crescendo una figlia ladra. Un atto senza possibilità di replica, una sopraffazione da parte di chi è più forte, lo Stato, ai danni del più debole, una donna povera e sola, anche se una madre in grado di badare a sua figlia, e con amore. Una decisione dell’autorità a cui nessuno, nemmeno il padre, si può opporre.

Rinchiusa in un istituto di suore che funziona come un lager, Lidia subisce maltrattamenti di ogni genere; si consola almeno del fatto di avere intorno a sé altre bambine e ragazze con cui stringere un patto di mutuo soccorso e dalle quali ricevere un po’ di quell’affetto che le è stato strappato a forza, allontanandola dalla madre.

Ma il peggio non è l’istituto, il peggio verrà quando sarà affidata ad una coppia di contadini. Un vero e proprio inferno attraverso il quale dovrà passare, fino al raggiungimento della maggiore età, quando, infine, sarà liberata. Liberazione che però non sarà capace di cancellare quello che ha subito.

Un romanzo che si legge con trepidazione, ma anche con rabbia: come è possibile che questa prassi sia andata avanti per così tanto tempo? Come è possibile che nessuno di quelli che dovevano sorvegliare il destino di questi bambini si sia mai reso conto delle reali condizioni in cui vivevano e dei maltrattamenti che subivano?

Link: Il mestiere di leggere


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