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Dove nascono le madri
di Virginia Helbling


Indice
IN OSPEDALE
A CASA
FUORI
LONTANO
OLTRE


IN OSPEDALE

Autunno secco fatto di foglie sbriciolate e ricci vuoti. Il vento fuori asciuga anche gli occhi. Sono immersa in una luce polverosa e insistente con le mani in grembo, addosso ho la camicia da notte. Mia figlia fino a poche ore fa non c’era e adesso dorme coi pugni serrati come conchiglie, la bocca succhia nel sonno. Ho fatto una testolina e un petto che s’alza e s’abbassa, mani e piedi piccini, ginocchia, e una spina dorsale perfetta, chiodino dopo chiodino. Gli altri bambini non mi sembrano altrettanto stupefacenti. Mastica nel sonno e inghiotte. Sospira. Ha un respiro impercettibile, controllo se è ancora viva. È rotonda, calda, gialla e rosa. Sa di latte cagliato e di sonno. Ha gambe troppo gracili e la pancia gonfia: è un feto fuor d’acqua. Era parte di me nel ventre, intima e complice; ora questo esserino si allontana, lentamente si chiude alla mia comprensione e si fa mistero. Guardandola cerco di riorientare un universo che oggi ha cambiato il suo corso lasciandomi in sospeso a mezz’aria, fra il sogno e la realtà, in quell’aura senza tempo dove nascono le preghiere. E le madri.

Sfatta. Odoro di sangue e sudore. Sotto la doccia ho il capogiro, m’appoggio alle piastrelle mentre l’acqua del getto mi punge la schiena e la pelle s’inspessisce per i brividi. Quasi mi duole a sfiorarla, è pelle di febbre, di vecchia malata. Fra le gambe non oso toccare. L’acqua mi scivola addosso e il profumo del sapone cancella il mio odore d’animale. Un po’ torno a essere io, un po’ mi ritrovo. Lei mi aspetta di là, o neppure: s’è dimenticata di me, rifugiandosi in un sonno che l’avvolge da ore. Ha dei segni violacei a forma di ferro di cavallo sulle guance, là dove il medico con i suoi strumenti ha fatto presa per estrarla come una radice dalla mia pancia.
Lei là, nel suo lettino, con le ginocchia ripiegate, e io col ventre ancora gonfio, ma vuoto, sotto la doccia. Non sarò mai più quella di prima. Anche a distanza, anche fuori di me, lei mi tiene. Le orecchie superano il rumore dell’acqua e si tendono in ascolto. Trattengo il respiro per sentire oltre la cortina dello scroscio, oltre le mura che ci separano. L’udito d’istinto s’è fatto più acuto, coglie i bisogni della bimba da impalpabili moti d’aria, dall’elettricità o dalla densità dell’atmosfera. Chiudo i rubinetti per accertarmi che non pianga. Scosto la tenda. Nulla. Il vano adibito a bagno comune è cosparso di asciugamani umidi. Alcuni appesi ai ganci, macchiati di sangue e acqua, altri appallottolati a terra; li ho scavalcati entrando. La tenda della doccia mi s’appiccica al fianco e alla spalla, mi aderisce addosso fredda con le sue labbra di lumaca. Nel vapore si mescolano bave, unguenti, umori. Non voglio né toccare né essere toccata. Tutto quello che dovrebbe finire nello scarico aleggia fra queste mura umide, rimane impigliato in una fitta rete di vischiosità in sospensione. Dal soffitto gocciola un denso essudato comune, impregna i tessuti e lambisce lo specchio rigandolo. Ho tanto schifo addosso da sentirmi sporca anche dopo essermi lavata. La luce incerta sopra il lavandino non fa che rendere più spessa la patina unta che ricopre le superfici.
Mi vedo riflessa per la prima volta, sono una mole opaca in mezzo alla nebbia. La mia immagine mi stupisce, non mi riconosco. Le natiche, la schiena, il volto, sembrano di lattice deforme. E un po’ mi fa compassione questo corpo invecchiato d’un tratto che s’abbandona, che ha dato il meglio di sé per diventare uno scarto. Ha dominato su tutto, anche sui pensieri, annullati dal travaglio, mutati in urgente sopravvivenza, ha cavalcato da solo lungo la tangenziale fra la vita e la morte e m’ha riportata salva, con una bimba in braccio.
Di là cominciano le visite. La tenda che mi separa dalla stanza si muove a ogni passaggio. Temo si possa indovinare la mia figura nuda in controluce. Sto immobile, come una bestia braccata, ad ascoltare le voci. Hanno dimenticato di mettere un asciugamano per me o qualcuno lo ha utilizzato per sbaglio. Mi passo sul corpo la camicia da notte sudata.
Le pazienti camminano trascinando i piedi su e giù per il corridoio. Non riesco a pensare. C’è l’aria stantia della stanza e dietro il letto veglia un cerchio di luce in silenzio. La signora accanto a me mangia deglutendo rumorosamente. Mi disgusta il vapore della cena che si condensa sul coperchio di plastica e ricade nel piatto, s’impasta ai sussurri e agli sbadigli, avvolge le lingue in uno sciacquio brodoso, inzuppa il pane. Sdraiata sul letto chiudo gli occhi, mentre attorno a me fluttuano corpi molli, gialli, lenzuola stropicciate in esposizione.
Mia madre entra trafelata: “Come stai?”, chiede senza respiro. “Bene”. L’avvolge una nuvola d’aria gelida che si scioglie subito mentre mi bacia in fronte. “Perché non mi hai chiamata? Sarei venuta io a prenderti”, dice. “Perché hai fatto tutto da sola?”. “Erano le quattro del mattino, ho preferito far venire un taxi”. Si china sulla bimba togliendosi la giacca e il foulard. “Mio Dio!”, intenerendosi: “Com’è piccina!”. “Vuoi prenderla?”, le chiedo. “No, dorme”, ma ci ripensa: “Posso?”, si scalda le mani fregandosele una contro l’altra e Helena nemmeno si sveglia mentre viene sollevata dal lettino. Una smorfia nel sonno e si raggomitola fra le braccia di mia madre come per accoccolarsi in un nido. “Com’è andato il parto?”. “È andato”. “Difficile?”. “Lungo”. “Se mi avessi chiamata…”. Non t’avrei comunque lasciata entrare, penso, ma non glielo dico. “Erik non viene?”, mi chiede. “Non ce la fa prima di domani, stasera c’è il concerto”. “Diamine!”, esclama, ma corregge il tiro: “Potevi chiamarmi!”.
Me la sono vissuta così invece, con una corsa in taxi irreale. L’uomo che m’ha portata qui evitava i tombini: “Come va signora?”, guidava veloce. “Male, ma bene”. Lui mi deve aver raccontato della moglie, dei figli, forse di sua madre, non ho capito, c’erano le contrazioni, il rumore del motore. Non ha voluto che lo pagassi.
“Se mi avessi chiamata sarei rimasta con te”, dice ancora mia madre. “Lo so, ma era notte”, cerco di spiegarle, “e m’è venuto in mente il taxi”. Lei storce la bocca con disappunto. “La prossima volta ti chiamo, promesso”. Allora sorride e guarda la bimba. Le osservo e per un attimo mi smarrisco. Mia madre ha luce nuova. Sembra una Madonna col bambino, una nonna-madre, una Sarah. Forse finora non l’ho mai guardata veramente o l’ho fatto, ma senza distacco; il suo volto è sempre stato lo specchio delle mie emozioni. Mia madre considerata sempre e solo in quanto mia madre, mai per se stessa, a prescindere da me. “Una volta non si usava tenere i bambini accanto ai letti”, rompe il silenzio lei, “dormivano tutti in uno stanzone comune e venivano portati dalle mamme solo per la poppata. Quanto avrei voluto averti vicina più a lungo! Allora inventavo delle scuse, mentivo alle suore come una scolara, e mi facevo concedere un altro quarto d’ora”.
È come se sognassi, come se mi trovassi in uno strano dormiveglia con lo sguardo attento e la mente addormentata. La voce di mia madre, la presenza di mia figlia, l’immagine delle suore, lontano, in bianco e nero, le file di lettini di ferro nello stanzone a vetri sospendono il ritmo delle cose in un punto indefinito e astratto. Sfilano generazioni silenziose, volti di nonne visti in fotografia. Torna a galla un filo della storia dal profondo della mia coscienza e mi trovo a essere crocevia al contempo di chi mi ha preceduta e di chi verrà: consegnata alla storia, a un posto tutto mio. Assieme a mia figlia sono nata un po’ anch’io.
È notte fonda e Helena è con le infermiere. Non sono riuscita a capire il motivo del suo pianto. Finita la poppata ha cominciato a strillare dimenando le gambe. Si prospetta un’altra notte a metà. L’andirivieni continuo durante il giorno non mi ha permesso di riposare. Allucinata e ovattata, poco fa ho scambiato il suono del campanello d’allarme per il timer del forno di casa. Tutto in questo momento ha il potere di smuovermi dentro: piango perché sono esausta, perché oggi ho partorito una bimba e mi sembra già passato tanto tempo. Fuori c’è una falce di luna e le nuvole tirate dal vento risplendono di una luce turchina. Erik è lontano, costretto dal concerto. “È bellissima”, dico al telefono, “ha un faccino da folletto” e sento che anche lui, di là dal filo, piange.
Vado a riprendere mia figlia, senza di lei mi sento sguarnita.
“Poianaaa!!!”. E correvo a raccattare i micini sparsi nel cortile fuori casa. Tremano ancora le code ritte sulle zampe esitanti, su quei cuscinetti rosa di pelle di cucciolo, e già i gattini si allontanano dal cesto dove dorme la madre a ventre riverso, per perlustrare il mondo con occhi liquidi e azzurri come pozze di pioggia di cielo riflesso il mattino nei boschi.
Un’ombra solca le case a circoli e lassù, vigile, a caccia, scruta metodica il vagolare insicuro dei gatti lei, maestosa regina crudele, la poiana. Ho sentito un battere d’ali veloce, un gelo fiondato dal nulla. Ero lì, bambina, fra sette micini. Giocavo ed è scesa, giocavo con loro, è venuta. Implacabile. Adunco il suo becco e l’occhio una guerra, ha scorticato le nubi e lacerato l’aria. Ero lì e l’ha preso, ha rubato un gattino. Ho urlato e urlato e urlato e urlato.
Fuori un vento impetuoso strapazza gli alberi. Vorrei essermi svegliata accanto a Erik, mi calmerebbe e potrei raccontargli tutte le immagini che da ieri notte riaffiorano dall’abisso della mia infanzia. I sogni sono stati un macchinare contorto e faticoso con gattini strangolati o ammazzati con l’insetticida. Mi sono destata in un sobbalzo e il mio primo impulso è stato quello di controllare che Helena respirasse ancora. Le ho punzecchiato la spalla con l’indice finché ha corrugato la fronte con un profondo sospiro. In seguito non ho più chiuso occhio. Ricordo che da bambina, quando la gatta partoriva una nidiata numerosa, mia madre le toglieva alcuni piccoli per darli al vicino che li annegava nel secchio. “Non ha abbastanza latte per tutti”, mi diceva. Non riesco a scollarmi di dosso il dispiacere per tutti i gattini affogati.
Helena piange. Non so neppure come prenderla, non ho mai tenuto in braccio dei bambini. Chiamo un’infermiera e intanto cerco di consolarla infilando le mani sotto il piumino per accarezzarle la pancia, ma inutilmente, le mie dita sembrano di gesso. Gli strilli di mia figlia hanno risvegliato in me un istinto arcano che vorrebbe proteggere e nutrire. Credevo che i gesti appartenuti alle donne fin dalla notte dei tempi mi sarebbero sorti spontanei, invece come madre devo inventarmi dal nulla. Helena cerca con affanno il capezzolo. Testa che ciondola, viso proteso, malferma, ma decisa, tutto il suo tendere si fa bocca aperta. Lei conosce i passi per avvicinarsi a me, sono io che li ho dimenticati.
Mi sveglio di nuovo, nel sogno aveva i riverberi di un temporale, ma il rumore è quello di un letto: hanno portato un’altra signora. Non ha ancora partorito e le hanno legato alla pancia l’apparecchio che misura i battiti del nascituro. Sento un galoppo lontano che ogni tanto accelera la corsa. Il marito le è accanto, pare un voluminoso angelo custode in giacca di pelle. Sussurrano, ridono in sordina. Entra un’infermiera, controlla l’apparecchio, e quando esce un cicaleccio da confessionale intorbida il sonno fra baci e soffiate di naso. “Il paio di scarpe col pelo”, “la maglia stesa in lavanderia”, “poche cose”, “la giubba”, “i pacchetti”, “le carte”, “chiami tu?”. Ci penserà lui a sistemare ogni cosa, a portarle ciò che le manca, a dare l’acqua alle piante, che stia tranquilla, l’angelo custode veglia e lavora e lei è al sicuro, protetta, avvolta.
Succhiano caramelle, il rumore delle cartine e della lingua che leviga lo zucchero stropicciano le prime immagini di un sogno e mi riportano qui. Stagnola, baci, il galoppo lontano, qualcuno fruga in una borsa di pelle, i suoni minimi sono amplificati dall’immobilità dell’aria, dal mio sonno interrotto. Poi lui se ne va che è quasi giorno. Lei resta ancora con la luce accesa a guardare il telefonino. Infine spegne, s’addormenta e russa. Mi metto i tappi nelle orecchie, fatico a prender sonno.
A quest’ora dell’alba a casa penetra una luce smeraldina che fa tintinnare i vetri prima di posarsi sulle cose. Un merlo canta appollaiato sulla sommità del melo. Pochi minuti e cominciano anche gli altri uccelli in un piacevole chiacchiericcio che accompagna il sorgere del sole. Un’infermiera ciabatta rumorosa distribuendo termometri. Un bianco soffuso annacqua il sonno, pianti di bimbi in lontananza. Ho l’impressione di riemergere da un bagno di schegge di vetro. Gli occhi, le orecchie, la testa sono pervasi da granelli acuminati. La signora giunta stanotte non c’è più. L’hanno portata via col letto. Le altre si alzano per la doccia, cercano negli armadi, nelle valigie, una camicia da notte pulita, la fascia per i capelli. Hanno seni doloranti. Mi assopisco, l’aria fuori luccica, ho la bocca guasta, il viso gonfio.
Ho sporcato il letto, c’era sangue ovunque. L’infermiera non m’ha guardata, ha strappato le federe come se estirpasse erbacce. “Anche questa ha macchiato?”, la coperta di lana. “È un bel guaio!”, ha detto, sempre senza guardarmi. Io in piedi, con le vertigini: “La pago”. “No, non si preoccupi, non la deve pagare, ma dubito che verrà di nuovo pulita. Ma se li è messi o no gli assorbenti?”. “Certo”. Lei inarca le sopracciglia, fa una grossa palla con tutte le lenzuola sporche e la porta in un sacco di plastica in corridoio. Torna con della biancheria pulita e una collega. Rifanno il letto in silenzio. “Attenta a non sporcare anche questa”, dice mettendo un’altra coperta. “Non la uso, la tolga pure”. Si ferma e mi guarda severa: “Come vuole”. La prende e se ne va.
Helena mi sbircia appena e dorme. Solo la fame o il mal di pancia la svegliano. Vive nel sonno. Il suo universo è talmente raccolto che quasi quasi la sua corporeità è tutto ciò che esiste.
Una levatrice mi mostra come prenderla. Ho paura che mi possa scivolare di mano o di romperle un arto mentre la vesto. È un picciòlo, un pampino, un gambo d’acetosella. “Non sono così fragili come sembrano”, mi rassicura la levatrice, ed Helena s’abbandona nell’acqua tiepida con le gambe rannicchiate sul ventre. L’asciugo, la vesto, la porto a letto con me, l’allatto e m’addormento con lei al fianco attaccata al seno.
Ho mandato giù a fatica un po’ di tè. Non ho appetito. La mattina è pesante, pervasa da una cappa di luce lattiginosa che schiaccia il sole dietro i palazzi, la testa mi si è gelata dentro: vedo i colori del ghiaccio quando chiudo gli occhi e le immagini sono fisse, incollate alle orbite, incapaci di procedere in pensieri. Il mio unico desiderio è di annullare nel sonno il bianco opprimente che mi circonda e di riemergere nel pomeriggio, in penombra, con l’odore dolciastro dei fiori lasciati ad ammencire nei vasi. Helena pisola sul mio petto, la testa infilata nell’incavo del collo. Resto immobile per non interrompere la sua pace perfetta e scivolo dolcemente in un fresco angolo buio privo di sogni.
“Deve mangiare”. Il cigolio del carrello col pranzo mi scaccia dall’ombra, c’è ancora lo stesso bianco che penetra dietro i bulbi, sotto le palpebre. L’infermiera mette un vassoio accanto al mio letto e preleva Helena. “Così suda troppo”, dice e la ripone nel lettino. Helena mi lascia un’impronta calda e tonda sul collo e sul petto, dove dormiva rannicchiata. “Si alza a mangiare o le avvicino il vassoio?”. “Mi alzo”. Le altre stanno già tagliando la carne nei piatti. Rumore di stoviglie e posate. È tornata anche la signora che stanotte succhiava caramelle. Mangia in silenzio, a letto. Non le hanno ancora portato il bambino. Dal vassoio pesco dell’uva e il pane e li metto da parte. Vorrei chiudere la tenda color pesca che circonda il letto, non mi va di accucciarmi sotto lo sguardo di tutti, ma non oso. Starsene in disparte è scortesia. Mi copro la faccia con il cuscino e m’addormento come un insetto rintanato in un mucchio di foglie secche.
Mi sveglia Erik. Si direbbe un’apparizione. È bello da pungermi il cuore. “Come stai?”. È orario di visita e i letti sono nascosti da siepi di persone. Helena dorme ancora. Erik si passa una mano nei capelli e la indica come a chiedermi: “È lei?”, le si avvicina curvando un po’ le spalle, forse per farsi piccino e non spaventarla. Le prende la mano: nòcciolo e guscio, perla la bimba, ostrica il padre. “Come stai?”, ripete. “Com’è stata?”. “Una faticaccia”, dico, “e il concerto?”. “Solito”. Sfiora con l’indice la guancia di Helena, non osa prenderla. “Quant’è bella!”, dice piano. Gliela metto fra le braccia, adagiata sulle pieghe della camicia come in un soffice lenzuolo bianco. “È leggerissima”, e sembra leggero anche lui, un po’ impacciato: “Raccontami dai”. Ma non so bene cosa dire, son cose che a parole perdono forza. Ero là e a ogni urlo mi sentivo sempre più fioca, sempre più lontana. Ancora un po’ e muoio, pensavo, ed era l’unica cosa che riuscissi a pensare. La testa era buia, la voce tingeva di rosso le mura e i presenti sparivano a ogni grido per ricomparire subito dopo, impotenti. Ho urlato, a gambe divaricate, le feci uscivano dal retto assieme al sangue e ai liquidi, e il sedere, la vagina, non erano che parti di un organismo, le grida la sua espressione più intensa. Sopravvento della carne. Impossibile dar seguito al pudore in sala parto: la natura a un certo punto squarcia tutte le convenzioni. Ancora un po’ e muoio. Ancora un po’ e muoio, finché è arrivato un dottore e m’ha tolto Helena con il forcipe. Una studentessa addossata alla parete mi guardava inorridita con la mano sulla bocca. Non so chi l’abbia fatta entrare, avrei voluto mandarla al diavolo. Ma poi mi hanno messo la piccola in braccio e mi sono scordata di tutto.
Ho bisogno di odori e di luci familiari. La signora che succhiava caramelle piange. S’è fatta tirare dal marito la tenda color pesca tutt’intorno al letto e singhiozza un lamento senza voce che aumenta la sua massa a ogni respiro. Allatto Helena stringendo i denti, ho i capezzoli indolenziti e sanguinanti. Dalle vetrate filtra un riflesso azzurrognolo che scava la stanza, lasciando il fondo buio, inghiottito dall’ombra. Sono una sagoma scura in un’atmosfera abbacinante e slabbrata. Cosa ci faccio qui?
La notte srotola lunghi tappeti di sogni imprecisati. Ho la sensazione, svegliandomi al pianto di Helena, di aver tentato di decifrare invano pagine di libri dalla fitta scrittura, di aver cercato parole o numeri di telefono su elenchi sbiaditi. Mi resta addosso qualcosa d’irrisolto, un fastidio annodato nella parte più nascosta dei pensieri. Credevo d’aver dormito l’intera notte, invece è passata un’ora soltanto dall’ultima poppata.
Allatto di nuovo. L’involucro color pesca in fondo alla stanza è muto, la donna dev’essersi addormentata. Anche le altre dormono e l’effetto di essere sola in mezzo a tanti corpi abbandonati al sonno è straniante; sono l’unica desta, l’unica a seguire il percorso di un’auto su per la collina. Helena si calma dopo poche tirate, il latte mi gocciola dal seno, ma lei non ne vuole più. Sprofondo in una notte di ricerche infruttuose. Un’ora e mezza più tardi mi chiama di nuovo. Mi sveglio nel buio, spaesata e confusa. Pensavo di trovarmi a casa di mia madre, nel letto di quand’ero ragazza. Helena strilla e non vuole attaccarsi. Chiamo un’infermiera, ma la piccola si ostina e non riusciamo a farle prendere il capezzolo. “Se preferisce la porto di là”, mi suggerisce l’infermiera tenendo la bimba con la pancia appoggiata sul palmo della mano, una posizione d’equilibrista: se la tenessi io così mi cadrebbe come un uovo fresco dalle mani. “Grazie” rispondo e non vorrei lasciarla portar via con quel pianto disperato che mi fa sudare, ma ho tanto bisogno di dormire, di chiudere per qualche ora tutto quanto fuori, che per non restare all’erta, per non captare la voce di Helena da lontano mi metto i tappi nelle orecchie e provo a ritornare nel mio letto di fanciulla, con la piccola finestra che inquadra il pino, i richiami dei merli appollaiati sul tetto.
Mi riportano Helena dopo due ore: “Vuole la mamma”, sentenzia l’infermiera consegnandomela prima ch’io sia sveglia del tutto. La allatto di nuovo, scomoda nel mio letto, col mento che preme sul petto e la testa pesante. Helena succhia un po’ e poi si stacca urlando. Rimango immobile, accartocciata, e la lascio piangere in braccio. Guadagno così, con gli occhi chiusi e la testa ripiegata, pochi secondi di buio, di palpebre umide che imbalsamano gli occhi. Pochi secondi, li conto, per non dar retta a Helena che strilla e prendermi queste briciole di tempo per me, dieci. Poi mi alzo, la metto nel lettino e con lei esco dalla stanza. Il corridoio è come una lastra di ghiaccio, scivolo avanti e indietro, passo dopo passo, lenta, misurando il rumore delle pantofole che strisciano, i respiri di Helena fra un urlo e l’altro. Ci sono dei quadri alle pareti, volti di bimbi nati negli anni passati, acquerelli tenui di paesaggi campestri. La luce riflessa sul linoleum del pavimento mi segue fedele mentre osservo le fotografie, i dipinti, le cornici, la carta da parati, le scritte sulle porte e sugli armadi. Devo concentrarmi, perché il pianto di Helena s’incide e s’incarna, mi scuote i nervi con dolore e resistere è una vera tortura.


continua…

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