© Andreaconsonniwrong, 17.01.2022
“La chiave nel latte” di Alexandre Hmine (Gabriele Capelli Editore)
“È diventato un appuntamento fisso. Regolo l’antenna per migliorare la qualità dell’immagine, chiamo l’Elvezia e torno a sdraiarmi. Sento i suoi zoccoli che accarezzano la moquette, sbatacchiano sulle piastrelle e scricchiolano sulle assi di legno.
Le imposte sono chiuse. La mia cameretta è invasa dalla luce del televisore.
Eccola. Sposto il piumino affinché lei possa prendere più comodamente posto sulla sponda del letto.
Sento le sue risate, che spesso si trasformano in colpi di tosse. La divertono molto Zuzzurro e Gaspare, D’Angelo e Has Fidanken o il Beruscao. Invece mal sopporta i tormentoni di Greggio, quando dice cerrrto che è lui, o bada ben bada ben bada ben. Scuote la testa e commenta:
“Vardigh a dré!… Blagón!… Tagliàn!… Asnón!”
A me piacciono le sfitinzie, più di tutte Tini Cansino.
Finché non mi addormento.” (pp. 26-27)
Che bello leggere i libri facendosi cullare. Perchè è questo mi è accaduto leggendo il romanzo d’esordio di Alexandre Hmine “La chiave nel latte” (Gabriele Capelli Editore), Premio Studer/Ganz 2017. Mi sono sentito letteralmente cullato dalla voce dell’autore, nato a Lugano e di origini marocchine, che racconta con pochi innesti narrativi la propria vita dall’infanzia fino all’età adulta.
Ecco, io mi fermerei qui perché quella di Hmine è una voce che ti prende e ti sbatte a letto e poi ti riprende e ti fa correre per strada e giocare e giocare e poi ti accarezza e poi ti fa addormentare e poi ti fa il solletico e ti fa venire voglia di rimanere zitto e non aggiungere altro.
Poi se penso all’Elvezia, l’anziana donna alla quale il protagonista è stato affidato dalla giovane madre, mi vengono in mente le mie due nonne e al peso che hanno avuto nella mia vita. I loro capelli, le loro voci, i loro racconti, le sigarette, la busecca, la cassoela, le quaglie con la panna, la faraona, i racconti di guerra, il lavoro in fabbrica, i cimiteri. La mia nonna materna che mi avvolge nei suoi capelli lunghi due metri e mezzo e mi chiede perché sto sempre male. La mia nonna paterna che divide una sigaretta con me sul balcone di casa e mi racconta di nazisti, zucchine col burro, transatlantici, funghi, Walker Texas Rangers e che mi chiede di non morire.
Poi se penso al Liceo, penso a che razza di deficiente sono stato a non studiare abbastanza.
Poi penso che ogni giorno mi sento uno straniero qui a Lugano. Straniero dentro me stesso. Straniero nelle mie parole. Straniero perché ho bisogno di un permesso per amare, lavorare, mangiare, dormire. E poi insofferente, estraneo, lontano, pieno di sogni.
Perché la Svizzera è dentro di me ma fuori di me.
Perché i libri mi hanno salvato la vita e continuano a salvarmela.
Perché mia madre è sempre stata un ponte.
Un ponte fra il dolore e i sogni.
Fra la morte e i libri.
Fra la sua famiglia e quella di mio padre.
Penso alla sua mano calda e alla sua ira improvvisa.
Ai miei racconti che non ha mai letto.
A lei che mi guarda in ospedale e mi dice: Facciamo una scommessa su chi muore prima fra me e te. Ci stai?
E purtroppo ci sono stato e ho pure perso.
Poi se penso all’Alto Malcantone penso alla mia Brianza, alla provincia, al paesino dove sono cresciuto, al cortile, ai vicini, agli amici, le amiche, il primo bacio, le corse in bicicletta, i cartoni animati giapponesi, la mia solitudine.
“La chiave nel latte” è un romanzo fatto, di frammenti, di schegge, di stomaco, di cibo, di vuoti, di passioni, di salite, di boschi, di fallimenti, di odori, di funerali, di un’identità che si costruisce, si smembra, si autodistrugge, si odora, si profuma, si lava, si racconta, si determina, si apre.
Un romanzo davvero bellissimo.
Tutto qui.
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