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© Viceversaletteratura, 13.07.2020

Recensione – Merluz Vogn
di Matteo Ferrari

L’ultimo romanzo di Giorgio Genetelli, dialettalmente intitolato Merluz Vogn (‘Merluzzo unto’), è ambientato all’inizio degli anni Settanta, in un Ticino di paese ancora in parte ancestrale. Il protagonista del libro ha quasi undici anni, l’età in cui si è sempre pronti a stupirsi, e trascorre i mesi estivi affidato ai nonni, anzi ai noni, due anziani buoni e remissivi che vivono una loro quotidianità cementata dagli anni, con «abitudini comuni e vecchie di mezzo secolo. La nona sempre un po’ agitata e dimentica, il nono in viaggio da tempo verso l’olimpo della calma» (p. 10). Libero da qualsiasi controllo, il ragazzo occupa giornate infinite a scoprire il mondo in compagnia del Nandel, suo coetaneo e amico. Senza una vera trama, i capitoli riportano il susseguirsi di giornate e avventure. Dei genitori del protagonista si sa invece poco: la mama è ricoverata perché deve «riposarsi» (così viene ripetuto al ragazzo, ogniqualvolta la malinconia lo spinga a domandare) mentre il pa’ gira il mondo come marinaio: si tratta in entrambi i casi di presenze evanescenti, volutamente marginalizzate nella trama. Così, travalicata la generazione di mezzo, quella dei padri, il protagonista si trova affidato alla generazione precedente, quella dei padri dei padri, che è come dire in questo caso che si trova solo con se stesso e con gli amici.

Il paese dove si svolgono le vicende, non nominato ma riconoscibile, è quello natale dell’autore, Preonzo, piccolo villaggio della campagna bellinzonese, che nello sguardo del protagonista appare perso nel tempo. «Case di sasso addossate l’una all’altra, carraie polverose o infangate, il riale come confine indistinto, il fiume come l’oceano ignoto, i boschi tutelari, lo stradone un deserto, la montagna impennata» (p. 11). È il paese in cui l’autore è cresciuto e con il quale, pur non vivendoci più, continua a intrattenere un legame viscerale, come dimostrano i suoi titoli precedenti, tutti bene o male gravitanti proprio attorno a Preonzo, dall’esordio de Il becaària (2010) ad alcuni racconti de La conta degli ostinati (2017) fino a La partita (2018). Lo confessa per altro Genetelli stesso nel risvolto della Conta degli ostinati, parlando di sé in terza persona: «Il rapporto con il suo paese natale è fortissimo, anche se non ci va quasi mai e quando ci va si autodelude nel non ritrovare cose e fatti che invece crede siano ancora lì, piantati come i platani in piazza». Più che una presentazione – alla luce dell’ultima pubblicazione – questa nota biografica appare come una premessa, un proposito. Perché Merluz Vogn rievoca proprio «cose e fatti» di un’infanzia mitica come solo sanno esserlo quelle che stanno tra le nebbie dei primi anni e i tumulti dell’adolescenza.

Se i luoghi del romanzo (riprodotti per altro in conclusione in una rustica e forse non del tutto aggraziata cartina) sono compresi nel cerchio magico del villaggio, lo stesso appare nelle pagine travestito da selvaggio west: da una parte perché la civiltà è e pare ancora lontana, dall’altra perché tale è l’immaginario del protagonista, cresciuto cibandosi soprattutto di fumetti. Tra le pagine fanno dunque capolino Tex Willer, Topolino, Zagor o il Comandante Mark, e una pietra sulla montagna che sovrasta il paese, il Valegion, può persino somigliare alla Mesa de los Diablos. Molto western, insomma, a ricordare come la frontiera americana, prima dell’arrivo della fantascienza, abbia rappresentato per intere generazioni il vero luogo dell’altrove. Il titolo stesso del romanzo, Merluz Vogn, riproduce il nome che il protagonista attribuisce a se stesso nella tribù locale, quando immagina avventurose esplorazioni lungo un fiume Ticino travestito da Potomac.

Lo stesso universo del protagonista è tribale-dialettale, come di un mondo che ancora vive sospeso sulle soglie del presente. L’italiano del romanzo, di conseguenza, è volutamente spurio («due come noi che giravamo», si legge ad esempio a p. 69), intuitivo, non privo tuttavia di una sua grazia ritmica, come se sgorgasse libero da costrizioni. Al suo fianco, costante, il dialetto: prima di tutto in molti discorsi diretti, tradotti in nota, e nei toponimi (non solo i singoli luoghi del paese, ma anche i paesi circostanti, come Molon-Moleno o Crei-Claro, sono citati nel romanzo con il loro toponimo dialettale). Poi anche per singole parole («Le cavallette fanno pif pif e balzano a decine per traiettorie che non si possono sapere. Un bimotore torna col suo rombo ricurvo nel silenzio che parrebbe assoluto se il pilota non stuzzicasse il cielo e i saiotri non facessero pif e ancora pif», p. 5) e addirittura per interi blocchi testuali, quando a raccontare è la figura del nono. Si tratta a dir la verità in quest’ultimo caso di un impasto tra il dialetto più arcaico di Preonzo e l’italiano che gli fa a tratti da cornice («Il bancone di Cà dal Geni non si muoveva anche se il Tilio sembrava spingerlo con tutte le sue forze. Ag tremava apene i sgiunecc. L’è molò ’na man par branchèe el barbera ma u l’à scversò e l’è nacc a cupich col muson sol spigol vìu dal bancon e peu in schene par tere, ’me om scrovat», p. 101). Nel libro tali inserti vengono presentati con un’impaginazione inedita e curiosa, su due colonne, con il dialetto a sinistra e la sua traduzione a destra. Si tratta di brevi storie nella storia, e anche limitandosi alla sola versione dialettale (chè la sua traduzione, come tutte le traduzioni letterali, sebbene necessaria, suona artificiosa), si può apprezzare la naturale commistione senza soluzione di continuità tra le due lingue, che si mescolano e convivono con la freschezza intuitiva del racconto fermato sulla carta.

Più che romanzo di formazione, Merluz Vogn è dunque istantanea di un’infanzia: nessuna vera crescita del protagonista, ma la testimonianza scanzonata della scoperta del mondo da parte di bambini «ancora al di là del bene e del male […], in quei luoghi dell’infanzia dove tenerezza e crudeltà si confondono» (p. 105). Sebbene si racconti una stagione della vita facile a idealizzazioni quale l’infanzia, il romanzo vuole «bandita» – come si premura di specificare la quarta di copertina – la nostalgia. Merluz Vogn è per il suo autore un «romanzo post-dialettale», dove quest’ultimo aggettivo, per ammissione dello stesso Genetelli, definisce un’atmosfera vitale e non nostalgica (l’equazione è quella che vuole nostalgica qualsiasi produzione che tocchi il dialetto). Un’evoluzione dunque, sempre per ammissione dell’autore, rispetto alla tristezza che permea le pagine di Plinio Martini, l’autore del Fondo del sacco e del Requiem per zia Domenica, o all’idillio che trapunta quelle di Giuseppe Zoppi, i due autori per eccellenza che hanno raccontato in modi e tempi diversi il Ticino rurale delle valli. Se il secondo appartiene ormai a un’epoca e a un gusto troppo lontani dal presente, il primo, che gode ancora oggi di grande fortuna, non è un nome casuale, dal momento che Genetelli vi fa spesso l’occhiolino nelle sue opere; in Merluz Vogn compaiono ad esempio due emigranti di nome Gregorio e Maddalena (p. 46), come i protagonisti del Fondo del sacco; nel Becaària erano invece due inibiti adolescenti, Mario e Anna, a ricordare Marco e Giovanna nella scena chiave del Requiem quando, bloccati da un temporale in quota, sono costretti a trascorrere una notte di promiscuità al riparo di una baita.

Eppure, anche se la nostalgia si vuole bandita, un fondo di malinconia permea lo stesso Merluz Vogn: è l’assenza dei genitori e il silenzio, che è quasi omertà, che accompagna quest’assenza per tutto il libro. Da questo punto di vista, la libertà totale di cui il protagonista può godere finisce per essere macchiata da un mai pienamente verbalizzato e tuttavia sempre presente senso di abbandono. Narrativamente, è un punto a vantaggio del romanzo.

L’uscita di Merluz Vogn ha offerto a Gabriele Capelli l’occasione per ristampare Il becaària (senza, purtroppo, le belle illustrazioni di Laura Pellegrinelli che impreziosivano la prima edizione). Protagonista di quest’altro romanzo (anch’esso con un titolo dialettale, per altro, che si potrebbe tradurre con ‘lo sfaccendato’) è Mario Zanetti, un diciassettenne in cerca di sé durante un’estate di amori, ribellioni e malinconie nel Ticino degli anni Settanta (ancora una volta è l’estate, con i suoi spazi liberi, a fungere da momento rivelatore). Simili gli anni, sovrapponibile (forse) il protagonista: là un diciassettenne che cerca sé stesso litigando con i genitori e fuggendo dalla famiglia, qui un undicenne da cui è invece la famiglia stessa a “fuggire”. E se Il becaària è tematicamente più audace, perché tematizza il rapporto incrinato del protagonista con famiglia e società, la formazione di un’identità e la scoperta dell’amore, Merluz Vogn, che pure evacua i problemi dell’adolescenza in favore di un’infanzia dai contorni mitici, risulta stilisticamente più avanzato, e non solo nella ricerca di una polifonia tra italiano e dialetto.

Dopo il rancore incompiuto che emerge dal recente La partita, in cui Genetelli aveva raccontato la storia di una famiglia avvelenata da feroci dissidi – un esperimento a sé stante (per la lingua oltre che per i temi) e anche poco fortunato della sua produzione – lo scrittore di Preonzo torna dunque con Merluz Vogn all’ispirazione più genuina e picaresca dei suoi primi lavori e in particolare proprio del Becaària. La ristampa di quest’ultimo titolo offre l’occasione per appaiare i due tempi di quello che, sebbene scritto a distanza di una decina d’anni, potrebbe somigliare a un romanzo continuo. Non si legga però Merluz Vogn credendo che l’idea secondo cui ‘una volta si stava meglio’ (idea che sembra trasparire a volte dalle pagine del romanzo) sia da riferirsi a un generico passato prossimo o, peggio, a un Ticino maggiormente in armonia con la natura. Si provi invece a immaginare tale affermazione come riferita semplicemente all’infanzia: il romanzo riesce infatti meglio quando affronta l’infanzia tout court, intesa come scoperta del mondo, che non quando descrive l’infanzia in un Ticino del passato. Qualcuno leggerà magari il romanzo con quest’ultima aspettativa, inseguendo un Ticino perduto e forse anche idealizzato; finirà però per smarrire l’aspetto picaresco del romanzo, la spensieratezza che guida i suoi personaggi. E sarebbe peccato, perché è questo, crediamo, il tratto più riuscito e godibile del romanzo.

Link: Viceversaletteratura


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