© Osservatore romano, 26.11.2019
Ottantamila voci per ricordare un poeta
A colloquio con Marie e Catherine, la moglie e la figlia di Seamus Heaney
di Leonardo Guzzo
«And some time make the time to drive out west/Into County Clare, along the Flaggy Shore,/In September or October, when the wind/And the light are working off each other». Il tramonto settembrino orla di luce il rosario di montagnole che chiude a nord il golfo di Lerici; dentro, nel teatro Astoria, il pubblico è pronto all’applauso. Marco Sonzogni recita in inglese Postscript, tra le poesie più toccanti di Seamus Heaney. Del premio Nobel irlandese ha tradotto da pochi mesi Wintering out, silloge fondamentale del 1972, e per la sua versione in italiano, Traversare l’inverno, si appresta a ricevere il prestigioso premio Lerici-Pea. «Non è assegnato ogni anno, il premio alla traduzione — precisa la presidente della giuria Lucilla Del Santo — e segnala una voce poetica originale, vigorosa, accurata, che si fa interprete di un’altra voce poetica, eccezionale».
Marco Sonzogni è quella voce-interprete, capace di catturare l’essenza della poesia di Seamus Heaney e cristallizzarla in una versione (la prima integrale in italiano) che lascia il segno. «La poesia è adesione della parola al miracolo della realtà mentre si compie, freccia di spirito alla radice del concreto, scardinamento del cuore»: così ringrazia Sonzogni. Una bella signora bionda in prima fila ha una smorfia di commozione; un’altra vicino, più giovane e bruna, le stringe la mano. Sono Marie e Catherine, moglie e figlia di Seamus Heaney: attraverso lo sguardo luminoso, i modi accoglienti, la generosità di gesti e parole perpetuano l’eredità letteraria e la lezione umana del grande poeta.
«Avrei voluto capire tutto» mi dice l’indomani mattina Marie Heaney. Si riferisce al mio dibattito-intervista con Marco Sonzogni sul palco dell’Astoria; agli accenti, all’impasto delle parole che nessuna traduzione simultanea può cogliere. Nella hall di un hotel di Lerici abbiamo mezz’ora per parlare della “grande anima” da cui hanno raccolto il testimone, della sua persistente presenza, del modo in cui gestiscono l’enorme lascito che va da Death of a Naturalist, la prima raccolta del 1966, fino a Human Chain, il canto del cigno del 2010, e Aeneid Book VI, pubblicato postumo nel 2016: la riscrittura di Virgilio con cui Heaney si congeda da oltre cinquant’anni di scavo poetico e impegno morale. «La poesia di mio padre sopravvive, com’è ovvio, principalmente attraverso la lettura», spiega Catherine.
«Noi ci assicuriamo che venga pubblicata nel migliore dei modi, sia in lingua originale che in traduzione. Ci sono due grandi progetti in corso: una raccolta di tutte le poesie e una di tutte le traduzioni, con Marco Sonzogni tra i curatori, che vedranno la luce nei prossimi anni. Abbiamo anche relazioni con la Biblioteca Nazionale d’Irlanda, alla quale mio padre ha donato i suoi manoscritti nel 2011 per metterli a disposizione degli studiosi e del pubblico. L’anno scorso la Biblioteca ha inaugurato a Dublino, nel meraviglioso edificio della Bank of Ireland, una mostra intitolata Seamus Heaney: listen now again, dall’ultimo verso della poesia The rainstick. La mostra si basa sui suoi manoscritti e con ogni probabilità diventerà permanente. Un’altra mostra, Seamus Heaney: the homeplace, si tiene a Bellaghy, il piccolo paese natale di mio padre tra Belfast e Derry. La sua tomba si trova poco lontano e l’esposizione riguarda più specificamente gli aspetti privati della sua vita. La casa natale è stata trasformata in un palcoscenico per eventi che coinvolgono letterati e artisti di primo piano sulla scena nazionale e internazionale». Questa “vita privata” di Seamus Heaney mi incuriosisce da sempre: impossibile resistere alla tentazione di indagarla. «È stato semplice o complicato vivere al fianco di un premio Nobel?» chiedo a Marie. «Molto semplice» risponde, gli occhi azzurri illuminati. «Seamus era l’antitesi della primadonna: un uomo passato fondamentalmente intatto attraverso il successo. L’uomo morto nel 2013 dopo 51 anni di vita insieme era intrinsecamente lo stesso che avevo conosciuto il primo giorno. Era generoso, maturo, controllato, parlava del Nobel come di una valanga “perlopiù benigna” che l’aveva colpito, ma ha saputo gestirla, elaborarla e restare genuinamente buono».
La voce cristallina di Catherine fa eco: «Col passare del tempo, in Irlanda, Seamus Heaney è diventato una specie di orgoglio nazionale. Non solo per la sua opera ma per la sua levatura morale, per la sua integrità. Un’eventualità ancora più sorprendente se si pensa alle circostanze in cui ha vissuto: alla guerra civile, al fatto che provenisse dall’Irlanda del Nord, che dovesse stare in equilibrio su un filo sottile per rimanere onesto con se stesso, per non essere inghiottito dalla propaganda o strumentalizzato dalle parti in lotta». Sapere come vive ancora una presenza così forte, al di là delle sue opere, è la tappa successiva del piccolo viaggio emotivo che propongo alle mie interlocutrici. Marie gonfia il petto. «Io ho una specie di mantra che un’altra vedova mi ha suggerito dopo la morte di Seamus, una frase di san Giovanni Crisostomo sui cari defunti: “Non sono più dov’erano, sono dovunque noi siamo”. È un rapporto trasformato, non interrotto. Non ti aspetti risposta ma continui a parlargli». Catherine si muove in bilico tra pensiero e sentimento: «È incredibile quanto siano più intense, adesso, le sue poesie. Ho sempre avuto un rapporto molto profondo con le opere di mio padre, ma attraverso la sua mediazione; ora che non è più con noi, leggere i suoi versi riaccende la percezione della sua presenza, il suono della sua voce perfino. Ovviamente valgono i ricordi condivisi, pubblici: foto, video, interviste; ultimamente ne ho ascoltata una in cui papà sostiene testualmente che l’Elisio esiste nella memoria. Ma a me sono care in particolare le scritture private, minime si può dire: le note, le cartoline, le lettere, gli scritti improvvisati. Quelli ce lo restituiscono in una veste ancora più intima, spontanea e vitale».
Marie ricorda l’ultimo messaggio elettronico inviatole dal marito, pochi minuti prima di avviarsi alla sala operatoria in cui non sarebbe mai arrivato. Noli timere, diceva, nel latino tanto amato dal poeta. «Un artista di strada, Maser, lesse la notizia e ne rimase talmente colpito da realizzare un gigantesco murale. Don’t be afraid apparve, un mese dopo la morte di Seamus, sul muro laterale di un vecchio palazzo di Dublino, nel pieno della crisi finanziaria e delle incertezze politiche di questi anni. Conservo una foto che mi ritrae ai piedi di quell’enorme scritta, come fosse un ingrandimento del mio cuore». L’amore collettivo per Seamus Heaney, ennesimo prodigio letterario del ventesimo secolo in un Paese di appena quattro milioni di abitanti, è testimoniato da un episodio che Marie definisce singolare. «Due giorni dopo la sua morte, il 30 agosto 2013, si tenne a Dublino una partita di calcio gaelico. Un’immagine di Seamus apparve sul maxi-schermo dello stadio e ottantamila persone all’unisono cantarono cori e gli tributarono un lungo applauso. Credo che in poche altre nazioni un gesto simile sarebbe avvenuto per un poeta».
Mentre le parole di Catherine sono piane, serene, in quelle di Marie c’è una specie di ammaccatura, una lieve raucedine, come il segno di un viaggio più lungo e accidentato. Tutte e due riconducono ogni cosa, fosse anche enorme, a uno spirito genuino di stupore, di gratitudine, un’atmosfera di intimità familiare. Non ho paura di fare la domanda più banale: «Qual è la vostra poesia preferita tra quelle di Seamus?». «Impossibile!», protesta Catherine col sorriso. Poi distende i pensieri: «Le sue poesie hanno molti strati, dicono qualcosa a così tanti livelli… In termini di coinvolgimento personale scelgo A pillowed head, che celebra il giorno della mia nascita. La leggo e mi sembra di vivere cose che non posso ricordare, mi sento ancora “la bimba accolta a schiaffetti, palpabile”, che viene messa in braccio al papà. Una scelta narcisistica». Ride; Marie ha finito di pensare. «Oggi come oggi la mia poesia preferita è At the wellhead. Parla di me che amo cantare, di una vecchia cantante cieca, del prodigio della sua voce (vena d’argento nell’argilla pesante, acqua notturna che luccica alla luce del giorno), delle sue percezioni miracolosamente acute». Solo dopo capirò cosa ha voluto dirmi: l’ombra di Seamus, che è luce, e lei cieca del suo sguardo terreno si tengono per mano, in fondo al pozzo dell’assenza guardano insieme il cielo.
Subito, però, Marie guarda l’orologio. Con tempismo perfetto Martina Ricciardi, la segretaria del premio Lerici-Pea, viene a prendere lei e Catherine e le guida nella passeggiata dei poeti, che si inaugura quella mattina. Leggii d’argento, a intervalli regolari, ricordano tutti i vincitori del premio sull’incantevole lungomare che dalla frazione di San Terenzio arriva a Piazza della Repubblica. I nomi dei poeti incisi, le nazioni di provenienza, l’anno della vittoria bucano l’acciaio e aprono squarci sul mare ceruleo. La targa di Seamus Heaney occupa uno dei punti più suggestivi del lungomare, quasi il centro perfetto del golfo: la piccola processione che inaugura la walk of poetry si ferma a renderle omaggio; Marie si affianca alla placca come una sposa, Catherine legge un passo da Aeneid Book VI, testamento privato, poetico e politico del padre. Per un attimo l’espressione della sposa si fa sofferta. Il vento salmastro di Lerici porta ricordi dolceamari: i primi timidi approcci su un plaid steso in un prato, il “fiore bianco screziato di scarlatto” che era a vent’anni; il messaggio in extremis di Seamus, quel “non avere paura” gridato a lei, all’amore, al mondo in panne.
La processione lungo il mare riprende, Marie sfiora l’acciaio come se l’accarezzasse e si lascia portare. «Vano pensare di fermarti e tutto cogliere/ più a fondo. Tu, per te, non hai senso:/ un impeto che accoglie noto e arcano,/ mentre il vento in larghe morbide folate scuote i fianchi dell’auto/ e trova il cuore indifeso e lo spalanca».
Link: Osservatore romano