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La conta degli ostinati
di Giorgio Genetelli
Racconti


A Giorgia e Gori,
le avanguardie


Indice

  1. Per un bacio
  2. Il trittico
  3. Col cane dietro
  4. Una causa persa
  5. Matlosen
  6. Morto per amore
  7. Rosso fiür sgiüp
  8. Uomo Di Maggio
  9. La disfatta
  10. Rafel
  11. Riccioli Neri
  12. La Piazza non è del Re
  13. Testamento in Patagonia
  14. L’ultima domanda
  15. Barattoli e rose
  16. Betulle
  17. Cinque centesimi di terra
  18. Le castagne sono pronte

Léntele da punighèe,
camòlo e baréze


1
Per un bacio

Posso dire che c’ero quando il platano cascò. Non un fulmine e nemmeno un castigo: venne giù per debolezza e attesa, e tutte le questioni finirono. Duravano da mesi, con radici negli anni, e in quel giorno, il tempo di un istante, la caduta sbarrò il futuro a Climico e Palmazia.
Non ero che un bambino di quarta elementare e questa non è la mia storia, ma la ricordo bene, o forse ricordo solo il dissapore che ne fluiva. I due giovani avevano una gran voglia di slacciarsi e allacciarsi, all’alba di un divenire del quale si intuivano i germogli e non si immaginavano le putrescenze di oggi. Uno era figlio dell’Avvocato, l’altra orfana di padre e con la madre ladra e inadempiente sociale. Al limite l’Avvocato avrebbe anche potuto difendere la Ladra in una delle tante rogne per vilipendio o appropriazione indebita, ma caricarsela sulle spalle come consuocera mai e poi mai. Quindi, caro il mio Climico, gli disse, dimentica la ragazza Palmazia, che tanto di donne ce ne sono centomila. Dal canto suo la madre ladra consigliò alla figlia di seguire l’amore, ma di non farsi calpestare dai ricchi e dai maldicenti. Dunque la ragazza avanzava nei sentimenti a testa alta, ma il ragazzo tentennava. Disposero, anzi, dispose lui, di vedersi di nascosto, fino al momento giusto.
«E quale sarebbe? Quando saremo morti?» chiese lei.
«Prima, ma dopo adesso» rispose lui, più incerto che sicuro.
La Palmazia, figlia di Ladra, poco disposta a stare nell’ombra per rubare l’amore, lo mandò a cagare e partì per l’Olanda, senza nemmeno una riga di commiato. Il Climico, che per una settimana e mezza si appostò nel boschetto sopra l’argine che negli ultimi tormentati tempi era stato il loro ritrovo segreto, aspettando invano la ragazza, cominciò a intuire che qualcosa non funzionava più. Pose alcune domande fumosissime al bar, ma dopo un paio di giorni si decise a presentarsi dalla Ladra.
«È andata in Olanda» disse la donna.
«Sta via tanto?» chiese lui, con l’ottusità di chi ci arriva sempre un po’ dopo.
«Abbastanza.»
Con questa incertezza tra capo e collo, si arrese all’attesa di non sapeva cosa e nemmeno per quanto tempo.
Con somma gioia dell’Avvocato passarono i mesi e anche un annetto, senza che della Palmazia comparisse quantomeno l’ombra. Lentamente il Climico tornava nel grembo di quella borghesia che sembrava prontissimo ad abbandonare quando l’amore stava ancora ai nastri di partenza. Si era rimesso nel trantran dell’università, tra codicilli da mandare a memoria, amici rampanti e donnine ansiose, ma ogni tanto pensava all’Olanda. Cominciava a essere davvero infastidito da tulipani e mulini o cose così. Poi tornava all’ateneo e la cerchia sociale sembrava lenirlo.
Il problema era il paese, così fermo e vuoto senza la Palmazia, che di certo, ormai, si stava accoppiando con un qualche filibustiere dal passato torbido e dal futuro precario, spassandosela senza cautela. Il Climico s’arrovellava.
Tornò dalla Ladra, ma non ebbe soddisfazione.
«Mi scrive ogni tanto, sta bene.»
Sta bene… E io? Il Climico soffriva, ma non gli passava nemmeno per la testa che un vero cuore in amore avrebbe preso ali o rotaie per Amsterdam. No, preferiva struggersi un pochetto e poi dedicarsi agli studi, che i filibustieri a queste cose non ci pensano nemmeno, i coglioni.
Ma non poteva andare avanti in eterno in questo modo. Si trombò, una sera di Campari col bianco, una futura avvocatessa, immaginando vulcani e trovandosi sotto le coperte una specie di ghiacciaio che stava all’amore come gli stivali al leone.
Malinconico e silente, nonché fuggiasco dalle mire fidanzatesche dell’avvocatessa gelata, cominciò di corsa a peggiorare. E dopo una manciata di mesi, anche gli studi tracollarono. L’Avvocato non se ne accorse, impegnato com’era nel fatturare trapassi di proprietà e cause di divorzio. Il Climico prese a sbevazzare nei festivi e a dormire nei feriali, sempre più smunto e inappetente. Non si riebbe nemmeno quando la Gelata, in un sussulto tattico, tentò un pompino nell’aula semibuia preposta alle arringhe, cosa che in casi sani avrebbe eccitato anche un corniolo.
Le bottiglie della vetrinetta del salotto, quelle che l’Avvocato affiancava a bicchierini dall’orlo dorato e a medaglie al valore da esibire a giudici e dottori, divennero una vera compagnia. In settembre il Climico era in un bello stato d’avanzato alcolismo, sostenuto in modo dilettantesco.
Rimuginava sull’Olanda, della quale immaginava una libertà scostumata, e sulla Palmazia che di certo vagava di fiore in fiore e se ne fotteva delle convenzioni e di lui stesso. Elucubrare in questo modo tormentato non migliorò le cose che gli toccavano per convenzione. Quindi scardinava la vetrinetta dell’Avvocato.
Tra le nebbie del bere, però, si stava affacciando una specie di coraggio. Dapprima confessò alla Gelata che fino a un deciso miglioramento tecnico non se ne sarebbe parlato più (quindi sarebbe stato mai), suscitando le ire contenute della futura avvocatessa. Liberato dalle inadempienze e dai bisogni, elaborò quindi un riscatto che passava per forza dall’azione. Una lettera.
La portò a mano alla Ladra, con la preghiera di farla avere alla Palmazia, su qualunque galeone si fosse imbarcata.

Preonzo, 24 ottobre 1967

Egregia Palmazia,

imperocché io sto qua attaccato al bar con grave nocumento della mia salute, ingiungo un tuo ritorno, con annessa promessa di affrontare mio padre l’Avvocato, per convolare a giuste nozze, se ancora ti interessasse. In caso di risposta affermativa, ti prego di ritornare la decisione (per iscritto) alla tua amata madre, che io rispetto, come ho sempre fatto, anche nella sua vedovanza bisognosa.
Se invece tu volessi navigare ancora pei sette mari con qualunque olandese volante che ti possa arrecare soddisfazione, ti invito comunque a comunicarlo, cosicché io possa scivolare per sempre nell’abisso del vizio e del gelo.

Tuo Climico.

Nell’attesa febbrile di una risposta, si dedicò con trasporto allo studio dell’animo umano frequentando l’Eiron, un grotto al limitare dell’abitato nel quale soggiornava il Senesio, alambiccatore di vaglia e propenso all’offerta di alcolici a ogni ospite del suo antro. Furono cinque settimane di abbrutimento di un certo livello.
Convocato dalla Ladra, si presentò in condizioni di mancata toilette, cosa che del resto aveva cominciato ad apprezzare come stile di vita.
«Lei torna. Ma tu làvati» gli comunicò la donna.
Dato che nella lettera spedita alla madre la Palmazia non dava indicazioni o data del rientro, il Climico s’appostò in piazza, dove troneggiavano da decenni tre platani all’apparenza indistruttibili. Di giorno stava lì, la sera s’abbeverava dal Senesio, poi tornava a casa a una qualche ora della notte e il mattino si lavava la faccia nella fontana della piazza. Aveva imparato a memoria gli orari del postale e aguzzava gli occhi a ogni tornata del mezzo pubblico. Per innumerevoli giorni vide discendere massaie, bambini, vedovi e operai, nessuno che assomigliasse a una ragazza dai capelli biondi come il grano e con passo di cerva giovane.
Quando dal Senesio era già stillata la grappa nuova, con effetti che si possono immaginare sull’animo del Climico, venne la neve. La panchina sotto il platano a nord era diventata inospitale, ma lui si piazzava là come Ippocrate, provando a guarirsi. I postali continuavano a transitare senza esito e della Palmazia non si avvertiva nemmeno l’aria. Di tanto in tanto andava dalla Ladra, che gli offriva un caffè per non peggiorare le cose.
Un giorno lei gli consegnò una busta gialla, con timbri da mezzo mondo.

Ciao, sono ancora in giro.
Ti penso sempre, ma non sono sicura di te, ho paura delle tue paure.
Però forse torno, quindi mettiti in ordine e smettila di disgregarti.
Ti bacio

Palmazia

Si mise in ordine. Ogni giorno poteva essere quello buono e lui sperava che fosse quello o al massimo domani. Tornò a lavarsi e pettinarsi, costrinse il Senesio a dispensargli consigli senza farlo annegare nella tazza del vino, dormì regolarmente nel suo letto e cominciò a vestirsi in modo normale, senza gli estremi avvocateschi o da clochard. Era bello, il Climico: alto, moro, ossa lunghe e occhi profondi, passo breve da velocista. Riprese fiducia, anche se gli toccava stare ore in piazza, sotto il platano settentrionale, a scrutare tutte le corse del postale. Ne approfittava per studiare Platone e per leggere Dostoevskij, che lo spingevano in profondità dalle quali si sollevava da sé, soddisfatto.
Quando in gennaio la neve si fece pesante, un giorno che gli pareva di dover alzare più spesso del solito lo sguardo dai libri, come se sentisse una primavera tutta sua, il postale si fermò, giallo e odoroso di nafta, aprì la porta con uno sbuffo d’aria compressa e lei scese.
Io ero lì, appena dietro la Palmazia.
Il Climico appoggiò la Repubblica e s’alzò di scatto. Lei scioglieva neve con la bellezza dell’amore riapparso e si vedeva che s’era decisa a non aver più paura. Nessuno dei due udì lo scricchiolio, come potevano? Si affondavano gli occhi negli occhi, avvicinandosi col languore dei duellanti in armistizio. Il ramo del platano cadde come se fosse tutta la pianta a cadere. Con il cuore ricomposto, il Climico si trovò il cranio spezzato senza il tempo per dire che l’amava, che se ne fregava dell’Avvocato e delle malignità. La Palmazia lo raccolse che ancora respirava, giusto il tempo per un bacio, l’ultimo della sua lunga vita.


2
Il trittico

In tre. L’Asino, il giovane Meo e lui, l’Adelmo. Un trittico, più che un triangolo. I vertici sentimentali si rincorrevano invano senza mai formare una figura geometrica chiusa e finita. L’Asino amava il giovane con la dedizione degli animali all’uomo; l’Adelmo fraternizzava con l’Asino e il Meo con precisa distinzione tra bestia e persona; il Meo fuggiva l’Asino con angoscia e tedio, a seconda dell’animo suo. Non si poteva lasciare il giovane solo con l’Asino, altrimenti il primo si allontanava infastidito inseguito per amore dal secondo; non si poteva lasciare l’Asino solo con l’Adelmo, perché l’animale soffriva l’assenza del ragazzo e diventava nervoso; quando l’Adelmo restava solo col Meo, l’Asino ragliava disperato.
Dunque, salvo in alcune ore della notte dove trovavano da riposarsi al sicuro nei loro sogni, stavano in trittico, senza voglia, e capacità, di triangolare cateti e ipotenusa.

Asino

La storia dell’Asino è piuttosto semplice. Nessuno lo voleva più per via del carattere intemperante e lo trascinarono alla fiera per provare a rifilarlo a qualche ignaro sconosciuto. Di macellarlo, neanche per idea, che un diavolo simile, pensavano, avrebbe avvelenato tutti. Ucciderlo e basta non era morale.
Una giovane bestia indocile che non socializzava né con capre né galline, e meno ancora con quelli del suo stesso genere. Il prezzo era così basso, cinquantasette franchi trattabili, che l’Adelmo tentò l’affare. Il Meo, che in mezzo a tutta quella fauna avrebbe voluto andare al cesso ogni tre minuti per l’inquietudine che il tutto gli scatenava, s’irrigidiva come un manico di badile poiché l’Adelmo era attratto dall’Asino e sapeva che questa cosa gli avrebbe demolito la serenità. L’Asino, invece, una volta strappato alla fiera e al suo vissuto, avrebbe raggiunto una certa mansuetudine.

1966

Alle tre del pomeriggio erano già sulla strada di casa, rasserenati a geometria variabile: l’Asino dalla presenza del ragazzo, il ragazzo da quella dell’Adelmo, che di suo conto era fiero di aver portato via la bestia per meno della metà del prezzo.
A mezzo cammino, assetati, legarono l’Asino al palo della luce di fianco all’Osteria del Tiglio e si sedettero al tavolino di latta rossa, pronti per la birra. Il problema relazionale balenò in tutta la sua chiarezza non appena appoggiarono le labbra riarse al boccale gelato. Un raglio dolentissimo e tonante.
«Avrà sete?» chiese l’Adelmo al ragazzo.
«Non m’interessa quell’Asino!» esclamò il Meo, pallido come appena prima di una crisi.

Adelmo

La storia dell’Adelmo è più complessa di quella dell’Asino. Alle spalle un paio di catastrofici affari di cuore e alcune imprecisate ma perigliose scelte su cosa farsene della vita. All’imbocco dei quarant’anni s’era relegato in fondo alla Bavona, valle alpina roboante di genti in estate, malinconica nelle stagioni di mezzo e sepolta dalla neve in inverno. A furia di bracciate, nuotò nella corrente del lavoro occasionale, racimolando quel tanto che bastava con doti casearie affinate nel dubbio e alcune capre che poi diventarono una ventina. Si aggiunsero sette mucche e un toro riottoso che non voleva nessuno nemmeno quello, ma che andava bene per la monta a pagamento. La sua strada era stata tortuosa e affollata, ma gli mancava sempre qualcosa che non sapeva bene, probabilmente una donna che lo amasse.
In mancanza di ciò, l’impennata di gioia giunse allorché conobbe il Meo. Diventarono amici per un caso della vita di cui si dirà più avanti. Il suo sgangherato trattore, un Hürlimann verde, era fascinazione assoluta per il ragazzo. Quando riuscì a convincerlo a montarci, il Meo avrebbe voluto non discenderci più. Ogni giorno avanti e indietro a far provviste, a vedere la teleferica, con o senza carro dietro, l’Adelmo alla guida, il Meo sul sellino alla destra del macchinista. Poi l’Adelmo convinse il ragazzo a salire in teleferica per vedere i lavori alla diga. Al Meo si aprì la meraviglia di quel Nuovo Mondo fatto di ruspe, camion, scavatrici e operai. L’amicizia si levò in volo nel cuore del giovane. L’Adelmo cominciò a intravedere un senso nella sua vita.

1966

Finirono la birra di corsa e ripartirono, il Meo dieci passi avanti, come all’attacco sull’Izoard, l’Asino a rincorrere, e l’Adelmo a trattenerlo con immensa fatica. Più l’animale aumentava il passo, più il Meo tentava l’allungo. Arrivarono a cascina di corsa, stravolti, e fu l’Asino a intuire che lì ci si poteva fermare, avendo visto il ragazzo chiudere la fuga.
«Era ora, maledetti» singhiozzò l’Adelmo, come se parlasse direttamente dal mantice del suo sterno infiammato.
Passarono la prima notte in trittico, inchiodati ai loro dubbi.

Meo

La storia del ragazzo sembra uguale a quella di tanti altri tipi strani. Discosto e silenzioso, aveva camminato solo dopo i tre anni. Il ritardo apparve chiaro a tutti da subito, tranne a sua madre, che con l’amore scacciava le perplessità. Bartolomeo lo aveva scelto lei, come nome, in onore alla chiesa di Vogorno che tanto le era piaciuta, in uno dei pochi giorni di libertà della sua vita di moglie devota. Tra il marito e gli altri tre figli, le sembrava a volte di non avere nemmeno tempo e diritto per respirare. Nonostante l’incomprensione patita e subita ogni maledetto giorno, sembrava che ogni dolore le scivolasse sulla pelle ambrata dandole una specie d’immortalità. Era bellissima. Per questo non pareva possibile, agli occhi voluttuosi e indagatori del villaggio, che potesse essergli capitata la disgrazia di un figlio deficiente. Intuita la commiserazione, Maddalena ostentò senza più nessun pudore la potenza dell’amore materno per Bartolomeo. Maledicendo tutti con la forza del pensiero.
Il primo a cadere sotto i fulmini dell’anatema fu il marito, rovinato a catapicco in fondo a un precipizio inseguendo pecore volanti. Maddalena non l’avrebbe voluto, in fondo, ma una maledizione resta una maledizione e quindi amen. Partiti poi i tre figli distratti e conformi, all’inseguimento di sapere e fortuna, che in quel posto valeva come cercare un lichene nel bicchiere del vino, restò sola col ragazzo. Per mangiare si adeguò all’assistenza dei vecchi del ricovero.
Tutta quella libertà di giornate svuotate dalla presenza rumorosa di fratelli padre e madre, svegliò il Meo, che cominciò a girovagare, arrangiandosi a conoscere quel mondo aspro che lo circondava. Nel peregrinare, a godere della neve o raccogliendo fiori da portare alla mamma, un giorno cadde a terra fulminato da una corrente interiore che lo lasciò a sbattere per infiniti minuti. Stoico qual era, si rialzò rattrappito e come un granchio si avviò verso casa. L’Adelmo lo vide da lontano e capì che qualcosa andava meno del solito nella camminata sghemba di quel ragazzo. Scese dal trattore e lo raggiunse. Il Meo perdeva sangue dalla fronte, niente più di un graffio, ma il suo viso era del colore della cenere fredda, impiastricciato di bava e raggrinzito dallo sforzo.
«Che hai fatto?»
«Niente di niente.»
«Ti fa male?»
«No!»
«No?»
«Sì…»
Mentre gli parlava, il ragazzo guardava l’Hürlimann, cento metri più su. L’Adelmo, capito al volo che il mezzo agricolo era un’attrazione per quel giovane stravolto, mise insieme le due cose. Convinse il Meo a montare in carrozza e lo portò al ricovero, che lì di malanni se ne dovevano intendere.

Maddalena

E le cose si mischiarono. Mentre i medici visitavano il Meo, l’Adelmo si occupò della mamma. La Maddalena non aveva mai visto il figlio ferirsi o ammalarsi, e a osservarlo adesso in quello stato le si frantumò il cuore. Non smetteva di piangere, di quel pianto sommesso che è più straziante delle urla, e l’Adelmo le cingeva le spalle, goffo.
Annotare. L’Adelmo non era il solito uomo che immaginava robacce non appena una donna gli si scioglieva tra le braccia: a suo modo era un gentiluomo, e neanche tanto rozzo di modi. Certo che però, una creatura come la Maddalena non l’aveva abbracciata mai, neanche ai funerali, dove tutti cingono tutti, come se solo la morte permettesse una forma di vicinanza.
Tornando a casa sul trattore, fece di tutto per non ripensare al profumo della donna e a quella leggerezza dolente.


continua…

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