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Anche i bruchi volano di Daniele Dell’Agnola


Ai nostri figli Yaeli e Nael, che ci insegnano a scoprire.

Alla mia compagna Mica.


Indice

Prologo a modo mio
La ragazza sull’albero
Clandestini
L’alluvione
La mongolfiera
Lo sparo
L’interrogatorio di Elias
Sophie al garage di Ulisse
La pistola
Il Farfalla


Prologo a modo mio

Ho letto da qualche parte che il prologo è una specie di introduzione. Bene, questo è il mio prologo. È breve, non c’è molto da dire.
Mi chiamo Felix, ho dodici anni e vi racconto com’è andata la storia della mongolfiera, di cui hanno parlato anche i giornali. Se mi sono deciso a scriverla è perché Sophie mi ha spinto a farlo. Lei ha venticinque anni ed è la mia maestra personale. Solo che dice di essere diventata la mia allieva, perché sono molto sveglio, scrivo bene e so un sacco di cose grazie a Wikipedia e a mio papà, che fino a dodici anni mi ha letto tonnellate di libri.
Sophie ha detto che la mia è una gran bella storia. Spero che piaccia anche a voi.

Ciao


La ragazza sull’albero

20 maggio

Elias è biondo, ha quattordici anni e s’appoggia al muretto con i gomiti a comandare tutta la scuola. Ulisse, il bidello, lo sbircia dal vetro del corridoio perché non si fida di quelli con gli occhi blu. Marcello, grasso come un bruco che non diventerà mai una farfalla, passeggia ai margini del piazzale durante le pause. È dislessico. Suo padre è un pediatra e ha l’abitudine di ghignare anche quando gli racconti storie tragiche. Una volta, durante una visita al mio pisello, mi ha chiesto se ero triste. Gli ho risposto di sì, mentre l’ansia montava su per la gola
«E perché sei triste, Felix?» ha rilanciato.
«È morta la nonna» ho urlato con lo stomaco in subbuglio, mentre lui tirava indietro la pelle. Sul suo volto è comparso il solito sorrisetto, poi mi ha prescritto i farmaci. Perché sono iperattivo. È come in certe tribù, dove chi entra nell’età adulta riceve in regalo una sciabola. Qui ti impongono rituali nutrizionali a base di metilfenidato, con la speranza di farti diventare un uomo forte. La verità è che vogliono tenerci sotto controllo, a noi iperattivi.
Non lo sa nessuno che prendo quella roba, neanche il maestro di classe.
Sono basso di statura e sogno di diventare paracadutista per guardare i laghi dall’alto, planando nella pace del cielo, la stessa che ti saluta a diecimila metri dal suolo, quando vedi sorgere il sole dal finestrino dell’aereo. M’incanta l’idea di reincarnarmi nell’ala di un aereo, che s’alza e guarda le vite delle persone rimpicciolirsi e sparire. In cielo sei distaccato.
Amo le farfalle, odio i bruchi.
Ho appena pestato Marcello, detto “Marcello Porcello”, durante la lezione di matematica perché mi ha sussurrato «Ciao tappo!» mentre stavo piegando un aereo di carta sotto il banco. L’ho rovesciato per terra ai piedi del prof come si fa con le botti. L’insieme dei numeri naturali è stato sospeso e il signor Killian, sporco di gesso, mi ha trascinato fino all’ufficio della preside, dal quale sono uscito cinque minuti dopo come un missile felice: espulso per mezza giornata.
Sul bus di linea stava seduta una vecchia con la borsetta stretta alle gambe e la bocca all’ingiù. Sono sceso con la sensazione che il mondo fosse imbronciato con me, nonostante la splendida giornata di libertà. Appena ho spalancato la porta di casa ho visto gli occhi gonfi e arrossati di mamma: le solite discussioni con papà, ho pensato.
«Qu’est-ce qu’il y a eu à l’école?»
«Rien. Elias mi ha dato un calcio nel culo.»
«Et toi?»
«Niente. Elias ha tre anni più di me, mamma. C’est tout, quoi!»
«È un bullo? Demain je vais… il faut lui parler et…»
«Smettila. Me la sono cavata. Io ho picchiato Marcello; tanto è grasso come un bruco e dislessico come uno scemo.»
Se mi sentisse papà, reagirebbe con una sberla. Lui è un maestro e sostiene che i dislessici sono intelligenti. Effettivamente Marcello ha il quoziente intellettivo di un marziano. La mamma si mette le mani nei capelli e sussurra: «Felix, il nous ont volé les vélos.»
«Le bici?»
«Tutte e tre. La mienne, la tienne e quella di papà con il rimorchio pour Maelle.»
Mi rannicchio sulla sedia con gli occhi bassi. Avrei voglia di spaccare il tavolo in due e di sfasciare la vetrina di una banca medio-grande. Le biciclette sono costate fatica e desiderio. Se piglio il ladro, lo uccido a pugni.
«E chi è stato, mamma!?»
Il suo silenzio mi fa sentire solo, nonostante la TV accesa, la radio a tutto volume e il caos ovunque. La nostra nuova gattina striminzita, regalo di papà, miagola e la mamma la prende in braccio. Dobbiamo decidere come chiamarla e io ho optato per Undine.
Wilhelm è accucciato sotto il tavolo a dormire. Ha appena divorato un osso, forse per sfogare la frustrazione dovuta alla nostra mancanza di considerazione a causa della nuova arrivata e del furto delle bici. Cani come Wilhelm non ne esistono: è talmente buono che, se trovasse i ladri, li lascerebbe tranquilli a bere birra in giardino.
Qualcuno bussa alla porta. La mamma va ad aprire, mentre mia sorella Maelle, che ha un anno e qualche mese e pasticcia tutto quello che trova sotto le mani, si spalma una pasta gialla sulla faccia. Gorgoglia e inghiotte saliva mista a pappa. Sbava e urla, sputa e probabilmente produce uno sbrodoloput dal culetto dopo uno spingi-spingi nucleare: è a quel punto che di solito scoppia l’uragano Maelle. Pappa e cacca sono una realtà concreta.
La mamma è ancora sulla porta. Vado da lei per dirle che Maelle sta imbrattando il tavolo di semolino. Lei tiene Undine stretta al petto, tanto che la micetta miagola, infastidita dalla presa. Sulla soglia c’è la nostra vicina di casa, la signora Kutzman, settant’anni, vedova svizzera tedesca, fanatica sostenitrice di Radio Maria, senza figli, ma con sei gatti che le tengono compagnia e con i quali Wilhelm, emblema della tolleranza, gioca offrendosi come cuscino, letto, tappeto, nascondiglio e ripostiglio di lucertole.
La Kutzman piange. Dice che non trova più i gatti, è convinta che glieli abbiano ammazzati. La ascoltiamo narrare per la trentesima volta la storia della sua vita con quell’accento da nazista. Racconta di suo marito, un basilese di sangue puro. Ci propina i soliti discorsi sui tempi della guerra e sui giovani di oggi che hanno troppo, prima di sciorinare le sue teorie sulla gente che ha smesso di pregare: ecco perché tutto sta andando in malora.
Quando le spiego che hanno rubato le nostre tre biciclette strilla una cattiveria sugli zingari, aggiunge qualcosa sui burqa, i negri e i siriani, poi si fa il segno della croce, contempla la Madonna nel vuoto e, dopo qualche secondo di pausa spara una raffica di pettegolezzi sulle crisi famigliari del quartiere: descrive le amanti bionde del signor Burla, le fughe della giovane Lara Lafranchi, le urla e il divorzio imminente dei Montemartini, le porte che sbattono e le telefonate agli avvocati origliate passeggiando per la strada.
Intanto mamma fa i salti mortali per imboccare Maelle, ordinandomi con gli occhi di sparecchiare, pulire il tavolo, preparare i biscotti e il caffè per la Kutzman, che continua a ripetere che sono davvero un bravo bambino. Forse un poco basso di statura, per l’età che ho.
Quando la vecchia chiede: «E suo marito lavora fino a tardi?» cala il gelo.
Papà è uscito di casa con la rabbia nei denti due sere fa, quando ci ha portato Undine dentro una scatola delle scarpe foderata con un panno. Lui e la mamma hanno cominciato a discutere per una cavolata (un dentifricio, una camicia macchiata, il modo di togliersi le scarpe e di appendere la giacca). In realtà la mamma sospetta che papà abbia un’altra e si attacca a qualsiasi pretesto per litigare; le solite tattiche femminili, come le chiama papà. Solo che lui l’altra sera è sbottato, spaccando l’asse del cesso. Maelle è scoppiata a piangere in braccio a mamma, la scatola di scarpe è finita per terra, Undine è fuggita sotto il tavolo e si è rifugiata sotto la pancia pelosa e morbida di Wilhelm, mentre la mamma diceva a papà che gli concedeva dieci minuti per togliersi dai piedi e che da quel momento poteva considerarsi separato.
Sono rimasto lì da solo con i pugni stretti, piccolo e stordito come un microbo ubriaco. Papà mi ha dato un’affettuosa sberla, è sceso dalle scale e la porta di casa è implosa in un tuono. Wilhelm è uscito da sotto il tavolo per controllare cosa succedeva, seguito da Undine. Ha abbaiato una volta, prima di tornare a sdraiarsi a terra come un sacco. Quando succedono queste cose mi rifugio pure io nell’angolo più protetto della casa, lo abbraccio e il suo pelo mi calma.
Per la Kutzman la fuga di mio padre è una notizia da divulgare, assieme a quelle sul signor Burla, sui Montemartini e sulla giovane Lara Lafranchi che va con tutti. La vecchia finisce in fretta il caffè, ci regala un rosario e saluta.
È un bruco che non è mai diventato farfalla.


21 maggio

Mi sveglio alle sette del mattino e sento il miagolio dei sei gattini della signora Kutzman: giocano sulla terrazza con Wilhelm, salendogli sulla schiena, mentre Undine vaga qua e là, incerta e smarrita, alla ricerca di un punto di riferimento.
Entro mezzogiorno tutto il quartiere sarà a conoscenza della nuova condizione di mia madre, lasciata da un marito che, alla soglia dei quaranta, ha deciso che la vita bisogna godersela. Mio padre, maestro elementare, ha conosciuto la mamma durante uno stage in una scuola di Friburgo e ha dedicato gli ultimi dodici anni della sua vita a leggermi storie la sera, quindi la causa della mia sindrome da deficit di attenzione e iperattività non è da attribuire a lui.
Mentre mamma è ancora a letto metto un po’ di cibo nello zaino, ci infilo Undine lasciandole un’apertura per il musetto, trascino Wilhelm con me ed esco, camminando fino al fiume e proseguendo la marcia lungo la golena che lo costeggia. A riva ci sono piccoli boschi e banchi di sabbia. I sassi emergono dall’acqua come isole e invitano ad attraversare il fiume. Di là vedo una capanna diroccata con della legna accanto. Wilhelm abbaia dalla strada, mentre io già poso i piedi su una roccia.
«Wilhelm, vieni!»
Un sasso viscido mi fa perdere l’equilibrio. Scivolo senza capire cosa stia accadendo, poi il rumore dell’acqua diventa sordo. Perdo conoscenza.
Mi risveglio fradicio, sdraiato di lato sulla sabbia. Wilhelm lecca Undine che gocciola e trema. Alzo gli occhi verso il cielo e vedo una ragazza seduta tra i rami con le gambe penzoloni. Sorride. Ha gli occhi grigi, un volto da selvaggia, la pelle bianca, i capelli neri e una margherita in bocca. Sento una scarica di dolore che parte dalla nuca e arriva alla fronte. La ragazza scende dalla pianta con una borraccia in mano e si avvicina.
«Hai battuto la testa» mi dice con accento tedesco, rovesciandomi in testa il contenuto della borraccia.
Non ho il tempo per reagire: la doccia gelida mi toglie il fiato. Wilhelm abbaia e smette di leccare Undine.
«Il tuo cane è buono. Du bist verrückt. Cosa volevi fare? Volare sui sassi?»
D’un tratto inizia a piovere. La ragazza afferra Undine e mi fa cenno di seguirla. Ci ripariamo sotto il capanno rudimentale che ho intravisto prima di cadere: è un telo teso alle quattro estremità, annodato ai rami degli alberi circostanti, con una lamiera appoggiata sul lato del fiume: ci protegge dalla pioggia pungente e obliqua. La ragazza accarezza Undine, mentre Wilhelm le appoggia il muso sulla gamba. La nausea e il capogiro mi vincono. Mi addormento. Quando mi sveglio lei non c’è già più e mi vibrano anche le ossa. Tira vento, è notte e nel capanno si muovono delle luci.
«Eccolo» dice la voce di un giovane poliziotto.
Mia madre ha allertato la signora Kutzman, che a sua volta ha suonato alla porta di tutte le case del quartiere, svegliando i signori Montemartini che hanno telefonato alla polizia, con la Kutzman che sbraitava storie di rapimenti, di abusi sessuali e di criminalità in aumento.
Mi portano a casa alle tre del mattino. La Kutzman prepara un caffè nella nostra cucina. Maelle, seduta per terra, morde un pannolino. La mamma mi stringe così forte che quasi svengo. Sul tavolo c’è una statuetta della Madonna.
«E Undine?» chiedo al poliziotto.
«Chi è Undine?»
«La nostra micetta.»
È sparita, come Wilhelm. Chissà dove sono finiti.
«Ça va, Felix?» mi chiede la mamma.
«Maman?»
«Oui?» e mi accarezza la fronte.
«A scuola non ci voglio più andare.»


23 maggio

Vista l’emergenza, papà è tornato a casa. Ieri sera mi ha letto Piccolo blu e piccolo giallo e altre storie grazie alle quali posso ridiventare bambino. Mentre me la godo sotto le coperte, sento i pianti e i gorgoglii di Maelle soltanto in sottofondo, come uno sbrodolodolce.
Papà ha restituito alla Kutzman la statuetta della Madonna e il rosario. Non che sia un anticlericale, ma prova timore e una certa diffidenza per i bruchi che non diventano farfalle.
Oggi è martedì e la mamma ha aperto le danze della mattina, sbraitando il solito «alzarsi!». Papà è ripartito, invece io ho dovuto gestire un colloquio a scuola con la signorina Marika. Non avrà neanche trent’anni e si occupa di sostegno pedagogico. Alle cinque, dopo la scuola, mi aspetta una terribile tortura: un incontro con due psicologi-pedagogisti-pensatori, esperti di cervelli preadolescenziali. Tutto perché non ho più voglia di andare a scuola. E ora lo dico chiaro e tondo: questa gente per me viene da sottoterra. Sono draghi drugugubri, un aggettivo inventato da me per rendere l’idea. L’idea di persone che fanno il mondo come un’ombra.
Mi sento una cavia, perché devo compilare formulari, moduli, schede, rispondere a domande, svolgere test.
«Come stai?» mi chiedono.
«Da schifo.»
«Cosa ti piacerebbe fare per stare meglio?»
«Ritrovare Wilhelm, Undine, il fiume e la ragazza che sta sugli alberi con le gambe penzoloni» rispondo.
Esco alle sette, stremato. Convocano papà e gli dicono che vivo una sorta di doppia vita, sospesa tra realtà e finzione, frastornato dalle storie che lui mi ha letto ad alta voce, compresa la versione del Wilhelm Tell di Schiller che lui ha tradotto per diletto in italiano.
«Vede» gli spiegano «dovrebbe distinguere la sua funzione di maestro da quella di papà. Quando sta con lui non lo faccia sentire come un allievo, non si comporti come se avesse di fronte una classe di quinta elementare. Per esempio: sappiamo che vi hanno rubato le biciclette. Ma Felix non ha parlato di questo evento reale.»
Sospeso fra la separazione dei miei e l’assenza di mio padre, mi aggrappo, secondo i dottori dello psicodramma, a ciò che la figura paterna mi ha trasmesso: storie, fantasie, letteratura. Secondo gli strizzacervelli drugugubri, oscillo tra il Cosimo del Barone rampante e l’Orlando a Roncisvalle, con incursioni nella mitologia.
Ho spiegato agli strizza che l’unica persona con la quale vale la pena parlare, a scuola, è il bidello Ulisse. Marika del servizio pedagogico invece è convinta che io abbia ricevuto un indottrinamento patriottico, anche se più volte ho precisato che Wilhelm è semplicemente il nome del mio cane, emblema della bontà. Loro si sono fissati con il mito svizzero di Guglielmo Tell. In ogni caso è stato il caos creativo, secondo loro, la causa della mia fuga delirante su per il fiume.
Di fronte a queste scemenze papà scoppia a ridere, mentre la mamma urla in francese contro di lui: che mi sta rovinando, che è stufa di libri, storie e bambinate. Che Felix, cioè io, non è più un bambino e dovrebbe imparare a vivere nella realtà, non nelle favole.


continua…

Link: Anche i bruchi volano

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