Il codice della follia
di Edi Minguzzi e Camillo Carlo Minguzzi
INDICE
PARTE I
- Farfalle
- Ospiti in maschera
- Incontri lungo il viale
- Steli di rosa
- Overdose I
- Sotto la lente di Schwarz
- Overdose II
PARTE II
- Le “formule magiche di Merseburg”
- Lo scrigno
- Agguato
- Mito e follia
- Lucciole
- L’indizio
- Necrofilia
PARTE III
- Overdose III
- L’“Angelo della morte”
- La cattura
- Segugi
PARTE IV
- Prima della tempesta
- Intersezioni
- Il letto di Procuste
- L’uomo delle rose
- Nel centro del bosco
- Epilogo
Appendice. Catalogo dei miti
Gli dei e gli eroi citati nel romanzo
Alla memoria di Károly Kerényi
PARTE I
I
Farfalle
Lunedì 5 aprile
Il prato inglese attorno al cottage “Le Farfalle” era di un verde smagliante sotto il sole del primo pomeriggio. In lontananza scintillava lo specchio blu del lago di Lucerna.
Seduti sulle panchine lungo i viali, gli ospiti della casa si attardavano a chiacchierare o a leggere il giornale in attesa di ritirarsi nella dépendance per la siesta pomeridiana, mentre entrava in funzione l’irrigazione automatica.
Herbert Kampitsch li osservava assorto dalla finestra del suo studio, al primo piano nel villino centrale: erano tutti suoi pazienti, tutti in varia misura affetti da psicopatologie e disturbi della personalità. In fondo al viale, al campo di bocce, Wilhelm Voigt faceva una partita con l’autista Hans. Appariva tranquillo e intento al gioco, ma la settimana prima, in preda alla depressione, aveva ingoiato mezza bottiglia di detersivo. Sotto la quercia, vicino allo stagno, la bella Monika Wagner si aggiustava i capelli: pantaloni attillati, giacca di visone, scarpe alla moda, apparteneva a una delle più ricche famiglie di Zurigo. Era cleptomane: il giorno precedente il medico era stato chiamato dalla polizia perché durante la passeggiata in città si era fatta arrestare al supermercato con la borsa piena di brioche; e la sorvegliante Maria, che pure non l’aveva persa di vista un momento, non si era accorta di niente.
Un movimento gli attirò l’occhio: Corinne Leblanc aveva ricominciato a cullare ossessivamente la bambolina che stringeva al seno. Accanto a lei, stesa sulla sdraio al freddo sole d’aprile, Céline Duval, anoressica, leggeva il giornale. Lontana dagli altri, seduta sull’erba con la schiena appoggiata al platano, Elfriede, l’autistica, teneva gli occhi fissi nel vuoto.
Herbert Kampitsch sorseggiò il caffè, mentre lo sguardo gli cadeva su un ragazzo solo, che parlava al cellulare vicino alla siepe di recinzione: Friedrich, eroinomane, che il giorno prima, in piena crisi d’astinenza, aveva aggredito l’infermiere Mark Klein per sottrargli le chiavi dell’armadietto degli stupefacenti. Con un coltello trafugato in cucina era riuscito a ferirlo abbastanza gravemente al polso.
Forse era meglio cercare di non tenere assieme gli alcolisti, i drogati e gli altri pazienti, pensò. Personalmente non aveva mai assunto droghe, ma aveva sopperito alla mancanza di esperienza diretta con l’osservazione dei tossicomani.
Lo squillo del telefono lo riscosse.
«Herbert!»
Riconobbe con gioia la voce di suo cugino.
«Jorg! Stai bene? Dove sei?»
«A Zurigo.»
«Ma da quando?»
«Sono già due giorni. Mi sto occupando di questioni riguardanti l’azienda: la filiale, le banche… le solite cose.» Era Jorg ormai che si occupava dell’azienda di famiglia a Francoforte, dopo il tragico incidente in cui avevano perso la vita i genitori di entrambi.
«È tutto sulle tue spalle ormai, lo so, e io non ti sono di nessun aiuto.»
Gli rispose un’allegra risata.
«Per fortuna! Non ne conosco un altro più negato di te per gli affari.»
«È vero.» Herbert sorrise. «Ritorni subito a Francoforte o resti qualche giorno a Zurigo?»
«Resto a Zurigo fino a domani.» Fece una breve pausa. «E poi vengo da te a Lucerna», annunciò, pregustando la sorpresa del cugino.
«Questa sì che è una notizia!» Herbert si sedette sulla poltroncina davanti alla scrivania. «Ma non succederà come l’altra volta, due mesi fa, quando mi avevi promesso di rimanere da me dieci giorni, e poi non ti sei nemmeno fatto vedere…»
«Questa volta mi sono organizzato meglio. Resterò a Lucerna una settimana; quindi partirò per Creta, dove pare che siano in corso scavi interessanti. Appena avrò sistemato le cose a Zurigo noleggerò una macchina e in un’ora sarò da te.»
«No, no, no. Quale macchina? Ti mando l’autista; e qui troverai tutte le macchine che vuoi.»
«Bene, allora. Puoi mandarmi l’autista dopodomani, mercoledì, alle dieci, all’Hilton.»
L’arrivo di Jorg in quel momento era un grande conforto. Era l’unico parente che gli fosse rimasto. Non lo vedeva da un anno, da quando si erano incontrati a Francoforte per i funerali dei genitori: padre e madre, zio e zia scomparsi all’improvviso, ancora relativamente giovani, in circostanze mai del tutto chiarite. Uno spasimo doloroso gli chiuse la gola mentre cercava di scacciare il ricordo. Da allora tutto era precipitato: la storia con Karin era finita e un grave scompenso cardiaco lo aveva ridotto quasi in fin di vita. Ma la presenza di Jorg l’avrebbe aiutato a dissipare l’angoscia.
Si rivolse alla segretaria, una donna corpulenta e austera di età indefinibile, seduta davanti al computer:
«Frau Müller, veda per favore se può diradare i miei impegni nei prossimi giorni.»
* * *
Roza aspettava i clienti sull’alto sgabello al banco del bar. Un paio d’anni di quel lavoro, le avevano detto, e poi anche lei, come tante altre, avrebbe potuto fare la bella vita e mandare perfino qualche soldo a casa.
Ormai non si vergognava nemmeno più di fare la prostituta. L’importante era rimanere in Svizzera, il Paese delle Meraviglie in confronto a Chimki, il miserabile villaggio russo dove aveva passato i primi vent’anni della sua esistenza; adesso che era riuscita a fuggire di là, era ben decisa a non tornarci mai più.
I suoi clienti sapevano che era disposta a soddisfare qualsiasi richiesta, anche la più imbarazzante: non rifiutava nemmeno i rapporti omosessuali, che anzi, in definitiva, le risultavano i meno sgraditi. Erano molte le lesbiche che la cercavano, da quando si era diffusa la voce.
La persona che si stava avvicinando lasciava presagire una serata tranquilla. Roza si alzò, si accostò ancheggiando e mormorò con la sua morbida pronuncia dell’Est «Wie geht’s, mein Schatz, come va, tesoro?»
«Mi chiamo Roza» disse, salendo sull’auto. Ricevette in risposta poche parole. Roza non capiva bene il tedesco, e, in generale, non stava molto a badare alle chiacchiere. La vecchia Peugeot percorse molti chilometri prima di arrivare al casolare dove dovevano passare la notte: un’ombra scura in uno spiazzo in mezzo al bosco.
Il letto era sfatto. La ragazza si spogliò, e allungò la mano a toccare il corpo disteso accanto al suo. Era caldo e invitante, ma sembrava del tutto inerte: non rispondeva alle sue parole, né alle sue carezze insinuanti. Gli occhi fissavano, sbarrati, la rosa, icona del suo nome, che Roza aveva tatuata sul seno sinistro.
Roza si guardò attorno. D’improvviso il luogo rivelava aspetti inquietanti che fino a quel momento non aveva notato. La stanza era in stato di abbandono: polvere dappertutto, abiti a terra, tanfo stantio. Sul comodino, un cimelio delle generazioni precedenti: un vecchio ferro da stiro, di quelli che si riempivano di brace quando ancora non c’era l’elettricità. Un senso di oppressione cominciò a contrarle il respiro.
La figura accanto a lei, immobile, continuava a fissarla in silenzio. Impossibile fuggire. Il bosco fuori era cupo e senza sentieri. Vincendo l’angoscia, cercò di dialogare.
«Non desideri divertirti con me?» sussurrò. «Posso farti un trattamento particolare. Chiedimi quello che vuoi. Non c’è da vergognarsi: siamo soli qui tu e io.»
Le parole caddero nel vuoto.
«Hai in mente qualcosa di speciale? Ti piace che ti facciano male?» Le parve di scorgere un luccichio di interesse negli occhi che la fissavano, e continuò. «Ho già avuto esperienze di questo genere, sai? Posso…»
Non riuscì a finire. Intuì un movimento fulmineo, intravide una smorfia feroce, e il ferro da stiro si abbatté sulla sua testa.
Mercoledì 7 aprile
«Frau Müller, ecco Jorg Kampitsch, mio cugino. E questa è la migliore delle segretarie, e, all’occorrenza, un’ottima infermiera». Lei accennò a un saluto e ritornò a fissare il monitor del computer.
Jorg si guardò attorno. Lo studio era un vasto locale diviso in due zone da una splendida composizione vegetale: un folto e svettante Ficus Benjamina circondato da altre piante di varia altezza e colore separava il regno di Frau Müller, arredato semplicemente con una grande scrivania e ampi scaffali, dallo studio di Herbert, rallegrato da un grande camino che scoppiettava nella parete centrale. Di fronte al camino, un tavolo basso, un divano e due poltrone; alla parete di fondo, uno schedario e una scrivania con il computer, dietro la quale un’ampia porta a vetri si apriva su un balconcino fiorito. Notò alla parete un dipinto di Braque, che non c’era l’ultima volta che era venuto a trovare suo cugino.
«Prendiamo un aperitivo?» propose Herbert, e, senza aspettare risposta, «Frau Müller, faccia portare due Martini dal bar, e prenoti la cena al Lago blu, per due persone, alle otto».
La segretaria gli scoccò un’occhiata indagatrice, stupita di tanta vivacità in un uomo di solito così compassato.
«Hai proprio voglia di uscire?» Jorg gli posò una mano sul braccio. «Non vorrei…»
«La sera ceno sempre fuori di qui.»
«Capisco.» Jorg annuì gravemente. «Almeno cambiare aria… e patologie.»
Herbert sorrise, circondò con un braccio le spalle del cugino e lo guidò davanti al focolare.
«Fa ancora freddo.» Jorg accostò le mani alla fiamma. «Mi pare quasi impossibile che fra qualche giorno sarò in vista dell’Egeo. Dovresti prenderti anche tu una vacanza.»
Herbert scrollò il capo.
«Non posso allontanarmi dalle “Farfalle”. Il mio rapporto con i pazienti è troppo personale: interromperlo può compromettere l’esito delle terapie.»
«Certo, se, come mi dicevi, li lasci liberi di andare dove vogliono, devi essere sempre pronto a intervenire», convenne Jorg, sprofondando nel divano.
«Sì, all’interno del complesso possono andare dove vogliono. C’è il giardino, il bar con la tavola calda, la dépendance, il campo da tennis, il campo da bocce; e adesso sto esaminando il preventivo per una piscina.» Herbert era orgoglioso della sua creazione. Dove non c’era altro che boscaglia e prati incolti, in dieci anni aveva costruito quel piccolo paradiso, e lo aveva aperto ai malati.
«E non succede mai che qualcuno diventi violento?»
«Eh sì, purtroppo… Lo sblocco libera anche l’aggressività, soprattutto nel caso di tossicomani in crisi d’astinenza. In generale però l’esperienza di questa libertà, per quanto vigilata, si è rivelata efficace: accresce l’autostima, il senso di responsabilità, l’autonomia. Anche la vita comunitaria ha un effetto benefico: li abitua al rispetto reciproco, all’interazione, al senso sociale. Pensa che alcuni vanno anche in paese.
«E, naturalmente, agli abitanti della zona non parrà vero di poter partecipare a quest’opera di recupero!» sogghignò Jorg.
«Sì, è vero, preferirebbero farne a meno.» Herbert mise un ceppo sul fuoco. «Ma non vanno da soli: ci sono sempre i sorveglianti a controllare che non combinino guai. E comunque» aggiunse ironico «per quanto ti riguarda, puoi stare tranquillo. Durante la notte la porta della dépendance, dove dormono i malati e parte del personale, rimane chiusa.»
«Francamente, ci contavo.»
«E in ogni caso per lo più non si tratta di individui veramente pericolosi. Però» ammise dopo una breve pausa, «è vero, ci sono anche sei ospiti speciali.»
«In che senso “speciali”?»
«Sono stati rinchiusi parecchi anni in manicomio criminale per aver commesso gravi delitti. Ma», si affrettò ad assicurare, «sono stati dimessi, e ora li sto aiutando a reintegrarsi.»
«Sono quelli che un tempo chiamavano pazzi furiosi, o sbaglio?» Jorg piegò leggermente la testa di lato, con aria sorniona.
«“Pazzi furiosi” è un’etichetta che non significa niente. Io, tu… siamo tutti in preda ai nostri dèmoni, anche se non ce ne accorgiamo; in alcuni però la pulsione raggiunge punte incontrollabili.»
«Se la metti così, nessuno è più responsabile delle sue azioni.»
«Ma è proprio per questo che si trovano qui, Jorg: per responsabilizzarsi. Però le emozioni, gli istinti e le pulsioni sono eventi psicologici: il medico li valuta secondo i principi della psicologia, non è qui a giudicarli secondo le regole della legge o della morale.»
«Già.» Jorg annuì. «La pensavi così fin da ragazzo. Ti ricordi quella volta mentre giocavamo in giardino? Konrad spaccò la vetrata nel tentativo di darti un pugno. Ti ricordi?»
«No.»
«Ma io sì. Te ne sei rimasto per un po’ seduto a guardare tua madre e i genitori di Konrad che gli gridavano addosso furibondi, poi ti sei alzato e hai spiegato: ‘Konrad ha visto Rambo al cinema. Forse in quel momento credeva di essere lui…’ Proprio perché ti conosco bene mi preoccupano i tuoi “ospiti speciali”. Non mi stupirei se si trattasse di assassini.»
Herbert si agitò sul divano. «Assassini! Si fa presto a dirlo. Ci sono crimini che chiedono di essere compresi prima che condannati. Nell’impeto di una passione si può arrivare a uccidere. Gwen, per esempio, ha sorpreso suo marito con l’amante, e ha perso la testa: è corsa nella rimessa, ha preso una tanica di benzina, gliel’ha rovesciata addosso e ha dato fuoco.»
«Bruciati vivi tutti e due, immagino…»
«Klaus ha ucciso suo figlio dopo averlo trovato a letto con la sua giovanissima seconda moglie», continuò Herbert senza far caso all’interruzione. «E non è stato solo per gelosia, ma per la triste consapevolezza di essere diventato vecchio.»
«E questo spiega tutto, naturalmente…»
«Devi considerare che un assommarsi di frustrazioni può sopraffare la coscienza. Un caso diverso è Danny, che ha compiuto una strage sparando all’impazzata in una scuola dell’Illinois. Lo sto studiando per cercare di capire, e di aiutarlo a capire, perché lo ha fatto.»
«E intanto che tu lo studi, anche lui è libero di muoversi come gli pare.» Jorg si strinse nelle spalle, perplesso. «Sono esperimenti rischiosi, i tuoi.»
Herbert allargò le braccia: «La ricerca non è mai esente da rischi. Per fortuna gli altri tre casi sono meno pericolosi. Si tratta di madri, diresti tu, assassine. Ma non sai quanti possono essere i motivi che spingono una mamma a infierire sulla sua creatura.»
«Menti malate… o vuoi dire che anche loro agiscono “nell’impeto di una passione”?»
«Beh, Jeanne ha ammazzato i suoi figli in preda alla gelosia, per punire il marito di averla lasciata. Quando si è accorta di quello che aveva fatto ha perso la ragione. Anche Muriel ha strangolato il suo bambino: influenzata dai discorsi fanatici di un sacerdote, aveva creduto di vedere in lui il demonio. E Hildegard ha fatto fuori suo figlio Thomas sull’altare, mentre si stava sposando con una ragazza di colore.»
«Quando si dice il razzismo…»
«L’aveva accettata, ma inconsciamente la rifiutava: e nel pathos della cerimonia ha perso il controllo.»
Bussarono alla porta: Anna, la cameriera, posò sul tavolino davanti al fuoco il vassoio con gli aperitivi, senza riuscire a staccare gli occhi da Jorg. Lui ricambiò con un sorriso diretto, e la ragazza arrossì.
«C’è anche un bar dove si distribuiscono alcolici agli “ospiti”?» fece Jorg in tono casuale.
«Il bar c’è, ma l’alcool è sotto chiave. Posso averlo solo io.» Herbert versò i Martini. «Sei in gran forma», disse poi, facendo eco inconsapevolmente ai pensieri della cameriera e rivolgendo al cugino un cenno di approvazione. «Abbronzato ed elegante come sempre.»
Jorg allargò le braccia rassegnato. «Sai bene che mi tocca di fare i conti con quei criticoni dei miei parenti di Parigi, sempre pronti a chiamarmi boche, ‘crucco’!»
Alla luce del fuoco apparivano ancora più somiglianti: figli di fratelli, tedeschi, entrambi intorno ai trentacinque anni, avevano un aspetto gradevole e un fisico agile e asciutto. Erano cresciuti insieme nella grande villa dei nonni paterni vicino a Francoforte. Jorg aveva ereditato dalla madre parigina lo spirito laico e dissacratore, la battuta pronta, il gusto per l’ironia e il paradosso; Herbert, serio e riflessivo, lo ammirava e ne sentiva il fascino, anche se non riusciva a scuotersi di dosso i crismi di un’educazione più rigida ed austera e i condizionamenti della religione protestante della madre prussiana. Aveva un paio d’anni meno di Jorg, ma da sempre nei suoi confronti si era assunto il ruolo del fratello maggiore e più saggio.
«A proposito dei tuoi parenti francesi: come sta tuo cugino Jean-Baptiste?»
«Beh, lui è proprio chiuso in manicomio. E non basta la camicia di forza.» Jorg rovistò nella brace con l’attizzatoio, e ravvivò la fiamma. «Non è mai migliorato. Credo che se fosse qui da te alle “Farfalle” nessuno potrebbe sentirsi al sicuro: è violento, e non solo ogni tanto, come il tuo Danny dell’Illinois. Sarebbe capace di ammazzare tutti.»
«Penso spesso a lui. Se mi sono occupato di psichiatria è stato anche perché da ragazzo sono rimasto colpito dalla sua disgrazia. Sano, forte, intelligente: e all’improvviso si è manifestata la schizofrenia. Una vita distrutta.»
«Non solo la sua: ha ucciso a coltellate la domestica e stava per avventarsi su sua sorella Sophie: l’ha salvata per un pelo la polizia.»
«Ma io lo ricordo con affetto. A parte questo, m’interessa anche come caso clinico. Sto studiando l’incidenza dell’ereditarietà nella schizofrenia. Se non sbaglio anche il suo (e tuo) bisnonno materno era schizofrenico.»
«Sì, è vero.» Jorg, imbarazzato, sbottò in una risata e proclamò: «E poi ci sono io, il loro erede, già internato alle “Farfalle” e pronto a sottopormi ai tuoi esperimenti. A proposito, come mai hai dato un nome così svolazzante alla tua casa di cura?»
«È svolazzante solo all’apparenza.» Herbert posò il bicchiere e domandò: «Ti ricordi come si dice in greco “farfalla”?»
«Assolutamente no.»
«In greco la parola psyché significa sia “farfalla” che “psiche”, “anima”. E qui si curano le anime.»
«Sempre fissati con l’anima, voi psicologi junghiani.» Jorg sorseggiò il suo Martini. «Preferisco il significato di farfalla: evoca leggerezza, policromia, libertà…»
Herbert ignorò la critica: era la loro solita vecchia diatriba che si trascinava da quando aveva memoria. Ormai faceva quasi parte di un rituale.
«Beh, qualunque cosa siano, anime o farfalle, credo che tu ne abbia un bell’assortimento. Il giardino pullulava di gente quando sono arrivato. Però, a dire la verità, non avevano tutti l’aria di essere… come si dice?» Jorg finse di cercare l’espressione appropriata. «“Personalità disturbate”. Alcuni anzi sembravano perfettamente sani.»
«Sai bene che l’infermità mentale non è sempre evidente; a volte lo stesso malato non ne è consapevole. Esistono poi anche personalità multiple: individui all’apparenza normali possono covare istinti omicidi. Vanno al lavoro, fanno shopping, incontrano gli amici, e magari intanto qualcuno dentro di loro progetta di sgozzare dio sa chi.»
«Come la Berta.»
«Quale Berta?» Herbert alzò il capo di scatto, con immediato interesse professionale.
«Non te la ricordi? Era la cuoca di zia Helli. Ci faceva la torta di mele quando d’estate passavamo le vacanze dalla zia a Garmisch. Ma eravamo piccoli, tu più di me, e l’avrai dimenticato.»
«Non l’ho dimenticato.» Herbert si mosse a disagio. «Ma ho cercato di allontanare dalla memoria tutto quello che riguarda zia Helli.»
Tacque un momento, con gli occhi socchiusi, poi disse lentamente:
«Non sono mai riuscito ad accettare la sua morte. Arresto cardiaco, a quarantacinque anni.» Sospirò. «Era dolce e affettuosa, sdrammatizzava e giustificava le mie marachelle, mi abbracciava e mi baciava, e mi faceva trovare sempre qualche regalino sotto il cuscino.» Fece una pausa. «Io le volevo bene. Più che a mia madre».
«Beh, certo, tua madre era l’opposto di zia Helli. Una vera marescialla, la zia Eva, se mai ce n’è stata una. Però non scordarti che è solo grazie alla sua intransigenza se tu e io abbiamo potuto realizzare i nostri sogni, tu la tua casa di cura, io i miei viaggi e i miei interessi archeologici da un capo all’altro del mondo. Tuo padre e mio padre insieme sarebbero riusciti a far fallire Bill Gates in pochi giorni, e invece grazie alla regola di ferro del suo regime prussiano sono arrivati a creare un piccolo impero.»
«Hai ragione», ammise Herbert. «Ma non hai finito di raccontarmi. Che cosa aveva fatto la Berta?»
«L’ho vista un giorno sgozzare un pollo.»
«Tutto qui?» Herbert inarcò un sopracciglio.
«Stava lavorando nell’orto dietro casa e non si era accorta che la guardavo. Ero dietro alla grande siepe di rose. Ho visto la sua espressione mentre lo uccideva. Una specie di gioia frenetica e colpevole. Sembrava un’altra persona. Ne rimasi impressionato.»
Entrambi tacquero, assorti nei ricordi.
«Zia Helli ti assomigliava. Anche fisicamente», disse Jorg.
«Purtroppo perfino nelle patologie. Ho avuto anch’io un attacco cardiaco, mesi fa: se non fosse stato per Mark, l’infermiere, sarei già morto. Gli devo la vita.»
«Non me ne hai mai fatto parola», lo rimproverò Jorg, fissandolo con apprensione.
Herbert spalancò le braccia, rassegnato.
«Eri in Malesia quando è capitato… Beh, ormai è passata. Preferisco non parlarne più.» Si sforzò di assumere un tono brioso. «E, a parte Jean-Baptiste, come stanno gli altri cugini Rivière?»
Jorg si lanciò in una spiritosa descrizione dei suoi parenti francesi, soffermandosi sugli episodi più piccanti.
«… E anche la più giovane, Francine, non è da meno. Ha solo tredici anni, ma si dà da fare. Sophie l’ha sorpresa con un giocatore della locale squadra di calcio. Un bel ragazzo.»
«Conoscendo Sophie, non ho difficoltà a immaginare le inclinazioni di sua figlia! E quando li ha visti che cosa ha fatto?»
«Non riuscirai mai a indovinarlo.» Jorg sghignazzava. «Ha detto: ‘Cara, dopo tocca a me’».
«Che donna!» Herbert scosse il capo sorridendo. Sorseggiò il Martini. «Gente simpatica, i Rivière. Sanno vivere con souplesse. Non mi sono mai divertito tanto come quando andavamo al mare da loro sulla Costa Azzurra. Ogni giorno succedeva qualche fatto buffo: o meglio, erano loro che sapevano vedere sempre gli aspetti comici delle cose.»
«Certo era un’atmosfera ben diversa da quella che si respirava da noi. Ti ricordi che tristezza al ritorno a Francoforte, dopo un mese con i Rivière?» Jorg fissava le fiamme, rilassato. «In più, tua madre ci controllava come un gendarme, sicura che la vicinanza dei miei parenti francesi ci avesse corrotto. Ci puniva più duramente che mai ad ogni minima trasgressione. E quando andavo a lamentarmi da mia madre, lei rideva: ‘Il faut comprendre, elle est une boche’ bisogna capirla, è una crucca». Lei capiva sempre tutti, soprattutto sua cognata.»
«Invece mia madre non voleva nemmeno sentir nominare i Rivière: anticristi, smidollati, maleducati, massoni, spendaccioni, ubriaconi, sporcaccioni, debosciati e puttanieri… certo, lei si esprimeva in termini più consoni al suo stile, ma il senso era questo.»
Tacquero, commossi: l’incidente che aveva ucciso i loro genitori aveva spazzato via in un solo momento un intero mondo.
«Eppure, nonostante avessero caratteri tanto diversi, le nostre madri si sono sempre rispettate. Forse perché vedevano che tu e io eravamo così legati», disse Herbert per indirizzare la conversazione su un altro argomento.
«Lo eravamo!» esclamò Jorg con calore. «Ma poi tu ti sei messo a correr dietro ai malati di mente, e io ho dovuto provvedere a mettermi in salvo.»
«Tu?!» Herbert lo guardò divertito.«Sono io che ho dovuto ripiegare sugli alienati, quando tu ti sei messo a correr dietro a tutte le sottane! Se non altro per trovare una cura al tuo dongiovannismo compulsivo.»
«Dongiovannismo compulsivo! Detto così, non sembra neanche una cosa piacevole. E poi, perché curarlo?» Jorg gli strizzò l’occhio.
2
Ospiti in maschera
Era ormai sera. Alle sette Frau Müller spense il computer, mise in ordine la scrivania, si alzò, cercò invano di abbottonare sullo stomaco la giacca del tailleur e mormorando «Guten Abend» se ne andò.
«Una donna socievole!» commentò ironicamente Jorg, appena la porta si fu richiusa. «Perché poi ti sei accollato questo rudere?»
«È una storia complessa. È una persona che sto analizzando da tempo.»
«Anche lei! Non se ne salva uno, qui dentro.»
«Stai pensando che prima o poi toccherà anche a te?» Herbert alzò l’indice in segno di scherzosa minaccia. «Non lo escludo, sai… Comunque una persona in analisi non è per definizione ammalata.» L’etica professionale gli vietava di dire di più.
«Meno male. Ci voleva un grande ottimismo per affidare la segreteria della clinica a una psicopatica!»
Herbert tacque per un momento, guardò negli occhi il cugino e dichiarò: «Per esser sincero, ci sono qui casi di alienati gravi che non ho iscritto nel registro ufficiale.»
«Vuoi dire che vivono nascosti qui dentro? Sono clandestini?»
«No, cosa dici. Non sono nascosti: ma nessuno sa che sono alienati.»
«Ma allora a che titolo li tieni qui?»
«Ne parleremo più liberamente a cena.»
«Eh già.» Jorg fece un gesto d’intesa. «La libertà qui alle “Farfalle” è solo un’impressione: in realtà questo posto è controllato come una gendarmeria. Ho notato delle telecamere sopra la porta d’ingresso.»
«Sopra la porta soltanto? Attorno all’edificio ce ne sono almeno dieci.»
«Eh sì. Tutti docili, tutti mansueti, ma non si sa mai», osservò Jorg con una punta d’ironia.
Il custode Wilfred li salutò dalla guardiola mentre il cancello automatico si apriva e la Porsche si avviava nel traffico della strada.
Il ristorante era lindo e asettico.
«Così è la Svizzera!» Jorg esaminava il menu con aria rassegnata. «Siamo a mille miglia da quelle belle osterie bavaresi che trasudano profumo di arrosto di maiale, di würstel, crauti e buona birra.»
«Ti ricordi quando ti eri innamorato della cameriera della trattoria a Monaco?» Herbert fece un cenno al cameriere. «A forza di bere birra e mangiare maiale tutte le sere, ti era venuto un attacco di gastrite. ‘C’est l’amour’ disse tua madre…»
«Invece tua madre mi mise a dieta di riso e patate e sentenziò che Dio puniva così la mia dissolutezza. Aveva sempre Dio dalla sua parte, lei. E comunque, ripensandoci adesso, ne era valsa la pena: Suzanne era splendida; e la gastrite è passata. E tu? Questa volta finalmente avrò modo di conoscere la donna che, come mi avevi detto, “dà luce alla tua vita”. Finora l’ho vista solo in fotografia.»
«Karin.» Deglutì. «Ho dovuto lasciarla. È stato quindici giorni fa.» La voce uscì soffocata.
«Come, “dovuto”?»
«Non accettava che dedicassi tanto tempo alla professione. Lo so, le chiedevo molto: niente domeniche, niente vacanze, niente vita di relazione…»
«Né vacanze, né domeniche? E perché? Capisco che sia un rischio abbandonare anche solo per un’ora i tuoi malati, ma non puoi lasciare un sostituto?»
«Non ci sono solo i pazienti. I parenti vengono in visita specialmente il sabato e la domenica, e desiderano parlare con me. Anzi, sono io che desidero parlare con loro, per tenerli informati sul decorso della malattia, suggerire comportamenti, chiedere ragguagli su dati che eventualmente siano emersi nel corso dell’analisi… Avevo un sostituto, ma la settimana scorsa si è trasferito a Zurigo, e non sono ancora riuscito a trovarne un altro che mi dia affidamento; e in ogni caso, come ti ho detto, alle “Farfalle” ci sono situazioni di cui sono al corrente solo io.»
«Né sabati, né domeniche, né vacanze… Insomma, per quella povera ragazza non c’era niente di niente. E allora, come potevi pretendere che una persona normale…» Socchiuse gli occhi, dubbioso: «o era anche lei “in analisi”?»
«Io non pretendevo niente» lo interruppe Herbert, irritato. «E all’inizio le andava bene così.»
«All’inizio; ma certo non immaginava che sarebbe andata avanti così fino alla fine. Come l’ha presa?»
«Male. Mi ha rinfacciato di averla illusa per dieci anni, e ha minacciato di farmela pagare.» Si strinse nelle spalle. «Cose che si dicono. Non è tipo da vendette.»
«Non l’hai più vista?» domandò Jorg allarmato. In base alla sua esperienza, certi avvertimenti non andavano presi sottogamba.
«Qualche volta, di sfuggita, in paese. Insegna letteratura medievale a Lucerna, ma abita qui a Oberkreis.»
Dallo sguardo tormentato del cugino, Jorg capì che la ferita era ancora sanguinante; gli riempì il bicchiere e cercò di deviare la conversazione su un altro argomento.
«È bella questa zona» disse. «Vorrei conoscerla meglio.»
«A te è sempre piaciuto passeggiare per i monti; un’escursione sul Pilatus è un’occasione da non perdere.»
«Dovrai consigliarmi.»
«Stasera potremmo studiare insieme qualche percorso che ti consenta di vedere il meglio senza paura di smarrirti» propose Herbert.
«Come ci capitò quella volta, ricordi? a Garmisch.»
«Impossibile dimenticare. Perdersi tra le montagne è un’esperienza indimenticabile. Fu un grande spavento.»
«Non solo perdersi tra le montagne. Non ricordi quell’incontro raccapricciante nella radura? Non so ancora se fosse un uomo o un animale.» Jorg rabbrividì. «Che corsa! Mi pare ancora di avere il suo fiato addosso.»
«Ma esisteva davvero? Secondo me, un po’ ci suggestionava la favola di Hänsel e Gretel, un po’ ci sentivamo in colpa per esserci allontanati disobbedendo a zia Helli, un po’ eravamo impauriti dalla solitudine.»
«Quindi per te fu un’allucinazione. Io non ne sono così convinto, anche perché, quando alla fine arrivammo a casa, ci aspettavano tutti con preoccupazione esagerata. Sembrava che fossimo scampati a un pericolo mortale.»
«Già», sorrise Herbert, «a detta degli altri ragazzi del paese ci eravamo imbattuti in un pazzo sanguinario, che secondo loro si aggirava da sempre per le montagne.»
«L’Uomo del Bosco, dicevano. Perché sei così scettico?»
«C’è tutta una letteratura che spiega la creazione fantastica di queste figure simboliche: l’Uomo Nero, l’Orco, il Fantasma…»
«Va bene, hai ragione. Ma a razionalizzare tutto, come fai tu, si perde quel po’ di frisson, di brivido che aggiunge pepe al racconto.»
«Se cerchi questo tipo di avventure nei boschi e nelle montagne vicino a Lucerna, temo che rimarrai deluso. Ma il paesaggio è bello. Con Karin facciamo… facevamo spesso delle passeggiate nei dintorni, quando la situazione alle “Farfalle” era più tranquilla e potevo permettermi qualche ora di libertà.»
Tacque, emozionato.
«Hai saputo le novità della nostra azienda?» fece Jorg in tono disinvolto, per distoglierlo dai suoi pensieri.
«No. Nessuno mi dice niente, e del resto io non mi informo, perché in ogni caso non avrei tempo di occuparmene. E a dirti la verità non mi sono ancora reso conto del tutto che l’azienda ormai appartiene a noi due. E poi», concluse, «sai bene che non sono portato per questioni finanziarie o gestionali.»
«Nemmeno io, se è per quello.» Il cameriere portò Schnitzel e rösti.
«E allora qual è la novità?»
«Il vecchio direttore, Peter Baums, era stato sorpreso a fare loschi intrallazzi, non so se ti ricordi.» Jorg bevve un lungo sorso.
«Sì; e mio padre lo licenziò.»
«E dato che tuo padre lo aveva licenziato, lui ha fatto causa alla ditta; ma l’ha persa. Sembra però che invece di placarsi si sia inviperito ancor di più: è andato diritto da uno dei soci, che, poveretto, non c’entrava, e lo ha coperto di improperi gridando vendetta.»
«Lascia che si arrangi l’amministratore. Non tocca a noi.»
«A proposito, chi è l’amministratore della casa di cura?» Jorg attaccò la cotoletta.
«Se ne occupa Frau Müller.»
«Ma è in grado di gestire un’azienda come le “Farfalle”? Non mi sembra molto sveglia. Quanti anni ha?»
«Non è poi tanto vecchia, sai? Avrà… lasciami fare il conto: dieci anni fa aveva meno di trent’anni. Dunque adesso ne ha meno di quaranta. Avrà la nostra età, anno più, anno meno.»
«La conosci da un pezzo, vedo.»
«Dieci anni fa l’ho avuta in cura. Ma adesso sta bene, è una contabile perfetta e gode della mia piena fiducia.»
«Una fiducia sufficiente da metterla al corrente, almeno lei, dell’identità degli psicopatici che tieni nascosti sotto falso nome?»
«No. Non ne è al corrente nemmeno lei.»
«In Svizzera è tutto secretato,» brontolò Jorg. In quel momento gli venne in mente un racconto di Dürrenmatt, l’autore svizzero che avevano letto da ragazzi. «Come si chiamava quel libro di Dürrenmatt, quello su quei fisici che si erano fatti chiudere in manicomio…» Fissava assorto il vuoto, cercando di richiamare il titolo alla memoria, mentre Herbert lo guardava sornione. «Lì la situazione era l’esatto opposto di quella che c’è alle “Farfalle”: i fisici erano sani, e fingevano di esser pazzi. Ma non ti viene in mente, Herbert? Erano quelli che strangolavano le loro infermiere per togliere ogni dubbio sulla loro follia. Ogni tanto appariva anche re Salomone. Come diavolo si intitolava quel libro… Non ti ricordi?»
«Mi ricordo benissimo», rise Herbert. «Si chiamava, appunto, I fisici.»
«Già. Come, se no?» Jorg allargò le braccia.«E tu come chiami i tuoi malati clandestini che tutti credono sani?»
Herbert ebbe un attimo d’incertezza, poi lo guardò dritto negli occhi.
«Non li ho raggruppati sotto un’etichetta. Sono persone che tengo sotto osservazione, per sperimentare nuovi metodi di reinserimento. Ma nessuno sa della loro condizione. Anzi, forse non ne sono del tutto consapevoli neanche loro stessi.»
«Se li tieni sotto controllo, perché ti preoccupano tanto?»
«Perché li ho assunti a lavorare alle “Farfalle”.»
Jorg posò il bicchiere sul tavolo. «Vuoi dire che questi psicolabili fanno parte del personale?»
«Sì.» Herbert raschiò via dalla carne l’impanatura troppo unta.
«Alcune delle persone che lavorano alla clinica sono più o meno seriamente disturbate. Mi sono stati segnalati da altri colleghi, e con molta discrezione e cautela sono riuscito a contattarli. Per lo più non sanno né che io sono al corrente della loro alienazione, né che li ho assunti per tenerli sotto controllo e sperimentare su di loro trattamenti terapeutici nuovi.»
«Hai inserito fra il personale della gente che ha commesso dei delitti?!» Jorg rimase con la forchetta a mezz’aria.
«E delitti anche gravi.» Herbert si versò da bere, imperturbabile.
«Se la polizia ne venisse a conoscenza, finirebbero in carcere o nei manicomi criminali, e così perderebbero ogni speranza di recupero. Io invece sto ottenendo discreti risultati. Per questo le loro cartelle cliniche non figurano nel registro ufficiale, e i riferimenti alle loro malattie sono in codice.»
Jorg ammutolì. Aveva una stima profonda per suo cugino, e ammirava la sua onestà e la sua lucidità di giudizio; tuttavia sapeva che come psichiatra era incline a spingersi sul terreno pericoloso dove la scienza insegue la follia, e a perdere di vista il senso comune. Avrebbe voluto dirgli tutto questo, ma si trattenne: non voleva innestare una sterile discussione sulle reciproche concezioni di vita. Si limitò a mettergli affettuosamente una mano sul braccio.
«Ma Herbert, non pensi a quali rischi ti esponi?»
«So quello che faccio.» Il tono non ammetteva replica, e Jorg non replicò: conosceva bene il cugino.
«Vediamo un po’», disse, cercando di alleggerire la tensione.«Uno dei tuoi pazzi in incognito dev’essere il custode all’ingresso della clinica, se diamo retta a Lombroso. Ma, spero», aggiunse fiducioso «non Hans, l’autista?»
«Potrebbe esserlo anche lui,» lo provocò Herbert per dimostrare che stava al gioco.
«E tu, in nome della scienza, hai messo la vita del tuo unico cugino, anzi, dell’unico parente che ti resta, nelle mani di un folle?» Jorg scrollava la testa, mentre agli angoli della bocca gli spuntava un sorriso.
«Ma non ti ha fatto niente, no?» Herbert continuava tranquillo a mangiare. «È con me da più di quattro anni. È una persona sensibile e intelligente.»
«Sensibile e intelligente!» Jorg si batté le mani sulle ginocchia. «Io l’ho capito subito dallo sguardo che era fuori di testa.»
«Perché, com’era lo sguardo?» Herbert alzò vivacemente il capo, con interesse clinico.
«Torvo.» Riempì i bicchieri e risero insieme. Il gelo era sciolto, e Jorg tornò alla carica. «Insomma, non capisco perché non vuoi dirmi chi sono questi infiltrati.»
«Non me lo chiedere Jorg. Segreto professionale: anche se ufficialmente non sono miei pazienti ho il dovere di tutelarli. La loro identità è sconosciuta a tutti fuorché a me. Anche per questo non posso allontanarmi dalla clinica: sono il solo che sa della loro situazione, e devo sempre tenerli d’occhio per impedire che facciano del male a se stessi o agli altri. Come ti ho detto, tra loro c’è chi ha già ucciso.»
«Ma ci sarà uno schedario, un catalogo, insomma qualcosa che riporti i nomi e le cartelle cliniche di questa gente; altrimenti come fai a registrare il decorso delle loro malattie?»
«C’è, infatti», ammise Herbert, serafico. «Ho messo insieme in un unico registro tre categorie di pazienti su cui sto sperimentando terapie particolari: i casi più difficili, i malati ufficiali riconosciuti come pericolosi, e quelli che tu chiami i “clandestini” che ho inserito fra il personale. Ma, come ti ho detto, il registro e le cartelle che contiene sono in un codice che solo io so decodificare.»
«Ma cosa succederebbe se tu… non dico morissi, ma per esempio perdessi la memoria? Tutti questi criminali se ne andrebbero a zonzo liberi e impuniti, per di più con le buone referenze delle “Farfalle”. Ti rendi conto del rischio… Hans, sempre che sia uno di loro, potrebbe venire assunto come autista in uno scuola-bus, e magari è pedofilo, Frau Müller, ottima segretaria, forse è cleptomane, Anna, cameriera impeccabile, magari è un’avvelenatrice… Non so con che animo berrò il suo caffè domani. E il cuoco? E il barman? E il giardiniere? E gli infermieri?»
«Non esagerare…»
«Esagerare?» Jorg era allarmato. «E poi non mi hai ancora risposto. Che cosa succederebbe se tu…»
«Insomma, perché dovrei morire?» Herbert lo interruppe divertito. «È vero che tempo fa ho avuto un attacco cardiaco, ma l’ho superato, e mi sto curando. E se anche io morissi, o, come dici tu, se “perdessi la memoria”, sono certo che tu riusciresti a scoprire il mio codice. Mi conosci abbastanza bene da arrivarci da solo.»
«Sarà meglio che tu non muoia: proprio io, alle prese con il codice dei malati di mente!»
Herbert versò altro Chianti per rabbonire il cugino, poi prese dalla tasca il cellulare e dichiarò:
«A proposito di Hans, devo chiamarlo perché ci riporti a casa. Con tutto il vino che abbiamo bevuto, se ci ferma la polizia e ci fa l’etilometro va a finire che passiamo la notte in prigione.»
Giovedì 8 aprile
L’aria del mattino era limpida e frizzante quando prima delle nove Jorg partì con una cartina dettagliata del Cantone di Lucerna, un thermos di caffè, una bottiglia d’acqua, pane, formaggio, uova sode e mele.
Herbert lo accompagnò fino all’uscita della casa di cura, dove incontrarono anche Frau Müller, ferma davanti al cancello e intenta a discutere animatamente con un giovanotto dalla lunga barba.
«Hai visto? Anche lei si dà da fare come può,» notò Jorg, malizioso.
«Cosa vuoi mai che si dia da fare, povera donna! È suo fratello Matthias.»
Jorg la salutò passando con un gioviale sorriso, ed ebbe in cambio un «Guten Morgen» borbottato tra i denti.
Herbert ritornò in ufficio, in attesa di un nuovo paziente che doveva arrivare in mattinata.
Il taxi lasciò l’ospite alla porta del villino, da dove Frau Müller lo accompagnò nella saletta in cui il dottore riceveva i malati.
«Yehudi Israel?» domandò Herbert, tenendo in mano il fax con cui gli si segnalava il suo arrivo. «Laureato in Economia e Commercio», lesse, approvando con un cenno del capo. Davanti a sé aveva un uomo giovane, ma deformato dall’obesità. Lo esaminò con attenzione professionale mentre lo invitava con un gesto a sedersi.
«In persona» proclamò l’altro con gaiezza esagerata. «Yehudi Israel, ebreo, obeso cronico e diabetico. Quello che si dice un caso difficile, dottor Kampitsch. Lei è austriaco o tedesco, vero?» aggiunse in tono provocatorio. «A parte il cognome, lo si deduce dalla passione per i lager.»
Herbert gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Già: che cos’è, in realtà, “Le Farfalle”?» domandò il giovanotto, beffardo.
«Me lo dica lei» lo invitò Herbert bonario.
«È un lager di lusso.» Allargò le braccia, per sottolineare l’ovvietà del concetto. «Invece della vecchia insegna Arbeit macht frei ‘il lavoro rende liberi’, ci ha messo un suo equivalente: il simbolo della farfalla. In entrambi i casi, si tratta di un cinico espediente per mascherare la prigione. Ma io non mi lascio imbrogliare. Sarò obeso, ma non sono stupido.»
«Suppongo che abbia già consultato un dietologo» disse Herbert con gentilezza. Quanto doveva soffrire quel povero ragazzo per esprimersi con tanto livore!
«Certo. Più d’uno. Per chi mi prende? Non sono mica nato ieri!» Assunse un’espressione sprezzante. «Ma non erano all’altezza della situazione. A dire la verità non credo che lo sia nemmeno lei.»
«Perché ha deciso di rivolgersi a me?»
«Non lo immagina?!» L’obeso sbottò in una risata sarcastica. «Chi più di un tedesco è esperto nel far dimagrire gli ebrei? Chissà quanti ebrei i suoi nonni hanno ridotto all’osso nell’ultima guerra mondiale…»
Herbert lo ascoltava impassibile.
«Da quanto tempo soffre di obesità?»
«Dall’adolescenza. Sì», sollevò la testa con aria di sfida, «io non ho mai avuto il fisico prestante che ha lei, Doktor Kampitsch. Mai avuto ragazze che mi sbavassero dietro. Ho sempre dovuto pagare per questo, io. Per fortuna non mi mancano i mezzi.» Colse lo sguardo attento di Herbert, e lo accusò con voce aspra: «Lei mi disprezza, lo so. Non faccio parte del suo Olimpo.»
«Mangia molto?»
«Naturalmente», Yehudi si sporse in avanti, aggressivo. «Devo soddisfare un appetito atavico. I miei nonni sono morti di fame a Mauthausen, sa? Io mi devo rifare.»
«Anche dolci?»
«Quelli specialmente. E adesso non mi dica che con il diabete rischio la morte. Lo so già. E sono fatti che riguardano solo me: io non ho paura.»
«Assume stupefacenti?»
«Che domande! Francamente, la facevo più perspicace. Crede che uno si possa accettare così, centocinquanta chili di grasso a ventotto anni, senza un aiuto? Nessuno rispetta i ciccioni. Quando non riesco a tirare avanti, c’è la cocaina.»
Herbert annuì pensieroso. Un caso difficile. Complesso di persecuzione, megalomania, mancanza di autostima, distorsioni cognitive, golosità maniacale, dipendenza da stupefacenti, aggressività e antagonismo nei confronti del medico, il tutto aggravato dal rischio di coma diabetico. Scrisse rapidamente una ricetta.
«L’infermiere Mark l’accompagnerà nella sua stanza, dove sono già stati portati i bagagli.» Si alzò. «Qualcuno l’aiuterà a disfarli. Dovrà seguire le istruzioni dell’infermiere.»
«E così in quattro e quattr’otto mi manda via. Tutta qui, la sua visita specialistica?»
«Quando si sarà sistemato, se lo desidera, può tornare da me; altrimenti, ci vedremo domani», lo rassicurò Herbert conciliante.
«Posso rimanere qui direttamente, non le pare?» Lo squadrò con aperta ostilità. «Con quello che pago, ho diritto ad essere ascoltato per ben più di cinque minuti.»
«L’ascolto, allora.» Herbert si sedette di nuovo con un cenno di assenso.
«Lei ha paura di esporsi, vero, Herr Doktor? Non risponde mai alle mie domande. Io sono una persona coraggiosa, ma lei dev’essere un vile.»
«Mi ponga una domanda, dunque», propose Herbert, paziente.
Il giovane abbassò gli occhi. Non aveva domande, o forse ne aveva troppe.
«Mi ponga lei una domanda, piuttosto», replicò subito dopo in tono irridente. «È il suo mestiere, no?»
«Come preferisce. Ecco la domanda: che cosa vuole proteggere, o che cosa vuole imprigionare, per fasciarsi con tanta carne?» chiese Herbert osservandolo con occhio penetrante.
Yehudi Israel trasalì, aprì la bocca per rispondere, la richiuse mentre gli occhi vagavano nel vuoto; poi sbadigliò ostentatamente, si alzò, appoggiò le mani al bordo del tavolo, si sporse verso Herbert e sibilò:
«Qui perdo il mio tempo. Imprigionare! È la fissazione di questi nazisti. È meglio che vada a disfare i bagagli. Ma non so se resterò a lungo in questo posto.»
Herbert chiamò Mark al cellulare e gli consegnò la ricetta con le prescrizioni per il nuovo paziente. Sorrise amichevolmente al giovane, tendendogli la mano. Yehudi ebbe un attimo di incertezza, cercò di nascondere un’espressione smarrita, poi, ignorando ostentatamente la mano che Herbert gli tendeva, alzò le spalle, assunse un atteggiamento di annoiato distacco e uscì senza salutare.
Il dottore annotò le sue valutazioni nella cartella personale del paziente, e la inserì nello schedario.
«Frau Müller, registri i dati del signor Israel» disse poi, entrando nel suo ufficio.
continua…
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