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LA VOCE DI ARNOLD – Monologo teatrale di Flavio Stroppini


LA VOCE DI ARNOLD

Arnold realizza un sogno: partire. Lasciare tutto quanto ed andarsene. Dove? Non ha importanza. È che il sogno si trasforma in incubo. Perché non è che uno perda i problemi abbandonando casa, non è che andandosene si risolva tutto. Si dimentica. Dimenticare significa anche essere dimenticati. Da un luogo si proviene. Capirlo potrebbe significare vivere, anche altrove. È questa la storia che ci ha affascinato. È così che siamo partiti. Oggi: 38 anni dopo. In due. Utilizzando mezzi pubblici. Incontrando gente e seguendo il vento. Un giorno dopo l’altro per cercare il significato di partire e arrivare. Qualcuno dice che non appartieni ad un luogo se non ne vedi almeno sette tramonti. Forse è quello il senso. Camminando pensavamo a vento, aria, acqua e sale. Ogni giorno luoghi, colori, odori diversi. Il monologo è figlio del viaggio. Immagini e suoni nel testo non potevano essere descritti, perché registrandoli li avremmo portati nello spettacolo. Così come la musica. Musica per sovrapporre dinamiche e tessuti. Cercando mondi sempre diversi ma legati alla narrazione. L’abbiamo voluta sul palco: intromessa, presente e fondamentale alla storia. Storia che vive di immagini, che sono la memoria di Arnold. 8 metri di telo, come se le immagini fossero partorite dai ricordi di Arnold. Dettagli e grandi spazi, mescolati, ricostruiti, così da creare un continuo dialogo tra realtà e poesia. Immagini reali ma componenti interne e astratte al disegno dello spettacolo. Immagini come legante tra voce, musica e suono.
I suoni registrati trovano spazio nella narrazione a volte mescolati alla musica, a volte riportando con forza al monologo recitato. E infine la voce, che nel mezzo di linguaggi così diversi e approfonditi deve cercare una geografia di movimenti chiari, diretti, nitidi. Lo spettacolo è la ricerca di equilibrio. L’equilibrio necessario per appartenere ad un luogo, a se stessi. Lo chiamiamo monologo per attore, violoncello, immagini e suoni. Perché sono in quattro, là sopra, a raccontare.
E poi luce, per provare a immaginare, a sognare.

Flavio Stroppini, Monica De Benedictis


Prologo

C’era una volta sulle alpi un uomo
Partì con il suo trattore
Su di un isola arrivò
Da dove vieni? Chi sei? Dove vai?
L’uomo si sedette, pensò alla sua storia
E la sua storia raccontò


  1. Il nome

Il mio nome? Un nome ce l’ho. Ma ne ho scelto un altro. Cos’è un nome? Chiamare le cose con un nome. Un suono. Nient’altro che un suono. Come il battere del martello sul chiodo. Uno, due, tre. Uno se lo può anche costruire un nome. Prendiamo me. Ho un nome, ora. Ora che sono arrivato qua è diventato il mio nome. Ci ho messo un viaggio, un anno, a farlo diventare mio. Perché non è che ti svegli al mattino e ce ne hai appiccicato addosso uno nuovo. Un nome non si appiccica. Si inchioda. Ce ne vuole di tempo perché diventi tuo. Ci vuole il tempo necessario a farti dimenticare tutto quello che eri prima. E per dimenticare devi ricordare. Tutto. Dall’inizio alla fine.
O meglio, dalla fine all’inizio. Perché poi è più facile ricordare quel che ti sta vicino. Il tempo lo devi risalire. Il tempo lo devi risalire. Ma come parlo. Sembro uno di quei personaggi che ci raccontava Hans il pastore, sull’Alpe. Uno di quelli che prendono tutto seriamente e niente li scalfisce. Un personaggio da romanzo. No. Io proprio non sono un personaggio da romanzo. Certo, ho una storia. Ma tutti quanti abbiamo una storia.
Sono nato ad Andermatt. In Svizzera. Sulle Alpi. Sul San Gottardo. Mia madre si chiamava Lena, sua madre si chiamava Ursula e la madre di lei Marie. La madre della madre della madre di mia madre si chiamava di nuovo come mia madre. Lena. La madre di lei Ursula e la madre di lei Marie. Mio padre si chiamava Beat. E poi la stessa storia.
Beat figlio di Hans figlio di Peter. Beat Hans Peter, Beat Hans Peter. Lena Ursula Marie, Lena Ursula Marie. Peter Lena Hans Ursula, Beat Maria. Mariursula Lenhans Bepeter, Ursulhans-Mariter-Belene, Urpebele-marita-letraa-ruu-vii-laa-aaa-aaaah!!! Ma come si fa? Ad andare avanti intendo. Come puoi? La vita diventa una gabbia se è continua ripetizione. Dovevo togliermi dal quel circolo.
Cambiare. Fare qualcosa.
Mettiamola così: io non sono un trattore. Eh no. Non sono un trattore. Come non sono un orologio, uno specchio o un martello. No. È chiaro? No. È che avevo paura. Paura di diventare… Un trattore. Beat Hans Peter, Beat Hans Peter. Lena Ursula Marie, Lena Ursula Marie. A furia di dirli è come elencare oggetti. Peter Trattore Hans Lena Specchio Maria Ursula Peter Martello Peter Orologio. Eh no! Un nome è un nome. Tutti noi abbiamo un nome. Ci contraddistingue.
Pietro! Giovanni. Tessa, Margherita, Francesca.
Un nome, una persona. Perché le persone rispondono al proprio nome. Le chiami e rispondono. Gli oggetti no. Martello! No. Orologio! No.
Funziona così. Quando nasciamo qualcuno ci dà un nome. Questo sarà il nome con cui verremo ricordati. Siamo unici, grazie a quel nome. Non siamo oggetti. Invece loro hanno gli stessi nomi, da sempre, per sempre. Ecco… Io avevo paura. Paura che a furia di Peter Hans Hans Peter Beat Hans Hans Beat Peter i nomi… Diventano oggetti. Ti chiami Peter? Sei il nipote di Beat, il figlio di Hans. Peter. Trattore.
Io dovevo uscirne. A chiamare tutto uguale poi si diventa uguali tutti. Sarà anche la tradizione… Ma io avevo bisogno di libertà. È così che è andata. Me lo sono cambiato, il nome. E in qualche modo la tradizione l’ho voluta mantenere. Eh sì… Perché poi mica lo puoi negare che vieni da un luogo. Anche quello ti si inchioda addosso.
Arnold. Come Arnold von Winkelried. L’eroe di Sempach. Quello che si lanciò a braccia aperte sulle lance asburgiche sacrificandosi, raccogliendole su di se e creando un varco. Come funzionava la guerra?
Due file. Una amica e una nemica. Di solito una è più forte dell’altra. Altrimenti perché fare una guerra? La fai se sei forte e vuoi prendere qualcosa ai più deboli o se sei debole e vuoi ribellarti. Se le forze si equivalgono cerchi di andare d’accordo. Mica rischi. Dunque. Da una parte i forti, che solitamente sono organizzati e dall’altra i deboli. Von Winkelried era tra i deboli, gli Svizzeri. Trasandati gli elvetici, potenti e forti gli Asburgo. Con le corazze pure.
Una fila interminabile e ricolma di lance lunghe qualche metro. Marciano compatti. Eins zwei drei vier, eins zwei drei vier. Poi più veloci. Eins zwei drei eins zwei drei. Ancora più veloci. Eins zwei eins zwei.
Arrivano! Arrivano! Hanno le lance! Noi solo spade! Ma quali spade, in verità son picconi. Ma quali picconi, son rastrelli. Di legno pure. Come facciamo a vincerli. Son tanti.
Eins zwei eins zwei eins zwei. Ah ah ah gli elvetici. Guarda, nemmeno le lance hanno. Hanno picconi. Ah ah ah. Ma quali picconi, sono rastrelli. Li vedi i rastrelli! Son di legno. Eins zwei eins zwei. Ah ah ah. Nostro Signore! Nostro Signore! Nostro Signore che facciamo? Nostro Signore, Nostro Signore, rispondi! Se Dio non è con noi, con noi chi c’è? Signore… signore? Sì… Sì, sono il vostro signore! Arnold von Winkelried. Ci penso io. Ah! Che eroe Von Winkelried. Correre ad abbracciare le lance. Trafiggersi ed aprire un varco dove far valere i propri rastrelli. Anche se di legno. Eh sì! Quello è un uomo! Quello è un nome. Arnold.
Bene. C’è un nome, serve un cognome. Hunsperger. Ruedi Hunsperger. Il Toro di Biel. Ah! Lotta Svizzera.
Tre volte campione. A Frauenfeld nel 1966, a Biel nel 1969, a Svitto nel 1974. C’è una sua fotografia. Lui con la corona d’alloro e la vacca regina in premio. Oh! Quel sorriso. Il sorriso di un uomo soddisfatto. Non tronfio o arrogante. No! Soddisfatto, appagato. Quello non lo fingi, quello è un sorriso che ti viene dal cuore. Ah! Che ti viene dal cuore… Ah ah ah. Ma come parlo. Poi uno pensa che sono romantico. Quello è il sorriso dell’eroe. Non è che uno ce l’ha dentro e un giorno gli esce. No, quel sorriso è una battaglia. Una conquista. Ruedi Hunsperger in quella fotografia ce l’ha. Aveva vinto. Eh sì! Quello è un uomo! Quello è un cognome. Hunsperger.
Le cronache della battaglia di Sempach dicono che anche Arnold von Winkelried sorrideva mentre moriva. Sorrideva mentre il sangue gli usciva dal corpo che pareva di strizzare una spugna. Il sorriso dell’eroe. Lo stesso che aveva il protagonista di una delle storie che Hans il pastore ci raccontava all’Alpe. L’Odissea. Me lo ricorderò sempre il passaggio del ciclope ubriaco che chiede il nome. Risposta: “Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano la madre e il padre e anche tutti i compagni”. Ah ah ah. Nessuno è il mio nome.


  1. Le storie dell’Alpe

Ah, le storie dell’Hans. Hans il pastore. All’alpe ci radunava tutti attorno ad un fuoco, la sera.
Prima del sonno. Bevendo schnapps ci raccontava della balena bianca e del capitano del Pequod. Ci raccontava di lupi e di pirati tigre. Di mongolfiere… Ah! Una mongolfiera… ce l’avrebbe fatta a passare lo Spitzberg… Chissà com’era il mondo da lassù…
E noi giù, attorno al fuoco. Fuori la notte. A volte temporali, a volte il campanaccio di una vacca smarritasi nel buio. Così che ad Hans toccava lasciare la storia a metà per andare a recuperare il maldestro animale. Che storie quelle… Ci raccontava di Odisseo o Ulisse. O Nessuno. Ci raccontava di Giasone, di Teseo.
Ah! Teseo.
Partì sulla nave con le vele nere. Quella che ogni anno portava i quattordici ragazzi in sacrificio al Minotauro. Il padre, il re Egeo, gli fece promettere che in caso di vittoria sul mostro ne avrebbe issate di bianche, al ritorno. Così, mentre Teseo s’innamorava d’Arianna, srotolava il filo, sconfiggeva il mezzo-toro… Egeo saliva sul bastione più alto della sua rocca e guardava… Guardava il mare in attesa della nave del figlio. Aspettava. Teseo, nell’euforia della vittoria si scordò di cambiare le vele. Così il padre vide il segno del lutto avvicinarsi. Nero, tutto nero. Le vele nere. Teseo morto. Si disperò. E dal bastione più alto della sua rocca, si gettò a mare. Mare che ne prese il nome. Mar Egeo.
Ah… Che storie ci raccontava l’Hans.
Anche se poi dopo qualche giorno gliel’ho chiesto. “Senti, Hans… ma non pensi che Teseo abbia fatto apposta. A lasciare le vele nere intendo. Sai… Magari se lo immaginava che il padre si sarebbe suicidato. E così… Pensa che ritorno. Eroe e diventi pure Re”. L’Hans mi ha guardato. Ha scosso la testa. “Tu non lo sai cosa vuol dire aspettare qualcuno o essere aspettato”. E poi per un po’ non ha più raccontato nulla, offeso.
C’è che non aveva torto… non ho mai aspettato né mai ho voluto qualcuno che mi aspettasse. Quindi no, non lo so cosa vuol dire. Forse è per questo che non ho idea di cosa voglia dire tornare. Tornare è qualcuno che ti aspetta. Io non ho nessuno. Posso solo andare avanti… Qualche giorno dopo però Hans ha ricominciato a raccontare. “Perché senza storie mica si può andare avanti” ha detto.


continua…

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