Quattro mele annurche
di Maria Rosaria Valentini
Indice
Scorza
Polpa
Picciolo
Seme
Postfazione di Domenico Bonini
A Maria Grazia, mia madre.
A Maddalena, mia nonna.
Mele.
Prime ad apparire sulla terra furono quelle annurche.
Almeno così si dice.
Talvolta basta un nulla
per sentirsi, non dico amati, ma
almeno considerati.
Allora non ci si sente bene, ma meglio.
Ed è abbastanza.
Scorza
Era lunedì, mio padre fu portato in ospedale da un’ambulanza.
Morì pochi giorni dopo.
Avevo tredici anni e gli somigliavo come una goccia d’acqua, anche nella voce, sebbene io fossi solo una bambina. Possedevo addirittura il suo stesso frasario.
Mi ricordo tutto di lui poiché molte volte avevo contato le sue rughe. Mio padre parlava spesso da solo, per conto suo.
Si appoggiava alla ringhiera del balcone, quello che dava sulla piazza, e cominciava a raccontare di sé, a disquisire sulla sua vita e sulle pieghe che essa aveva preso.
Cominciava sempre col dire:
“Dio Santo, mi hanno chiamato Augusto, non so perché. Non sono imperatore, ma macellaio.”
Seguiva puntuale una pausa di qualche minuto, poi riprendeva:
“Mi piace scarnificare e tornire. Lavoro la carne e la scolpisco come se fosse quarzo rosa. Non chiedetemi, però, di uccidere un animale: non avrei il coraggio di guardarlo negli occhi. Come si può abbattere la potenza di un toro? Come si fa a sfidare un cavallo che fiuta la morte?
Dio Santo, certe volte mi domando cosa ci faccia io sulla terra, ma non trovo una risposta: ci sto e basta. Certe volte mi prende una tristezza che mi soffoca, mi stringe al collo, mi morde lo sterno. Quasi non ce la faccio a respirare, allora mi trascino in cucina, prendo uno spicchio d’aglio, lo schiaccio tra indice e pollice e pian piano mi calmo. Sì, Dio Santo, io così mi calmo.
In una padella lascio soffriggere l’olio d’oliva mentre con una mano ci butto quattro pomodori maturi insieme ad un’acciuga che lentamente si disfa e scompare.
In cucina trovo la pace che altrove mi manca.
Lì il tempo ha un suo ritmo: lento, ma gravido. Allora l’attesa si fa giusta ed ogni gesto trasmigra in una danza operosa.
Succhio la mia vita mentre annuso l’origano o guardo i capperi raccolti, uno accanto all’altro, in un barattolo bianco, con il sale che li bacia.
I fiori di zucca, da poco recisi, galleggiano aperti in una vasca con gli umidi stami scossi da un brivido.
I peperoni, rossi e croccanti, se ne stanno in ordinata fila, su di uno strofinaccio di canapa gialla. La vecchia rubinetteria, lungo un rigagnolo, libera un insolente tintinnio. Gli intrecci in vimini di un logoro cestino raccolgono le uova di quattro galline generose e puntuali. Giro su di me, seguo le fiammelle del gas, decido, infine, di scegliere una direzione. Sollevo dunque il coperchio della madia ed infilo interamente le braccia nei sacchi di farina: così cado in un molle abbandono. Mi siedo poi, ad occhi chiusi, a capotavola e cerco, a tentoni, la bottiglia dell’aceto. La riconosco, tastandola poco, ne verso alcune gocce in una ciotola di terracotta. Mi si aprono le narici e bevo piano quell’acuta ambrosia che sempre conserva in sé una madre.
Intanto un moscone si batte ronzando tra il vetro tremante della finestra e la fitta rete della tenda sintetica. In un vaso il basilico ed il rosmarino crescono l’uno sulla spalla dell’altro, separati dal timo che, di poco distante, ostenta la sua delicata bellezza in una latta.
La crassula, sbigottita, mi fissa con le sue foglie di verde carne.
Ogni sapore mi piace come pure ogni sorta d’odore.
Sulle papille si imprime la storia di ogni uomo, come in una camera oscura.
Ad esempio, un pollo stracotto che si separa dall’osso prestandosi alla forchetta con la docilità di un soufflé mi offre un’incomparabile serenità, seppur fugace, poiché solo così posso tornare in luoghi che non esistono più.
In egual maniera m’incanta e rapisce l’odore dei fagiolini verdi trasferiti, nel fumo, dal fermento dell’acqua bollente alla tranquillità del piatto di portata.
Talvolta m’invaghisco perfino di una crosta di pane che, nel guazzo di una panzanella, non si concede completamente e conserva, fiera, un suo intimo nocciolo di durezza.
Il palato è la mia utopia.
Guai se così non fosse, perché io sono nato in una cucina, Dio Santo!
Mia madre era una donna tonda e bianca, come una patata farinosa appena bollita; quando rimase incinta aveva di gran lunga superato i trent’anni. Le dissero che non ce l’avrebbe fatta a portare avanti quella gravidanza, ma era più caparbia di un mulo.
Era a dir poco singolare.
Addirittura quasi non sapeva in che modo io fossi finito dentro di sé.
Mi immaginò, durante nove mesi, come una sorta di escrescenza voluminosa e luminosa delle sue budella.
Mi considerò un suo cicciolo e così mi conservò, con prepotente possesso, nella sua placenta, tutto il tempo che fu necessario.
Alcuni mesi prima si era offerta ad un uomo, senza indugi né dubbi.
Dio Santo, le piaceva restare schiacciata da quel corpo pesante, mentre due mani grosse, prive di grazia, andavano, affamate, dappertutto. Esse definivano il perimetro dei fianchi ampi che aveva mia madre e dei seni enormi, molli, tremuli… delle natiche gonfie, di un ombelico piccolo e ridicolo piantato nel mezzo della sua pancia.
Lei se ne stava ferma, con le braccia aperte, le dita rigide.
Guardava gli occhi chiusi di quel cuoco che si portava addosso odore di brodo: ed era esattamente quella l’unica cosa che, in lui, l’appassionava.
Il cuoco finiva di lavorare ogni notte alle due.
Lei lo raggiungeva in un campo, si sdraiava sulla terra umida e finalmente ritrovava il profumo di brodo che le era disperatamente mancato.
Non si parlavano. Dio solo sa perché.
Se si incontravano per caso, durante il giorno, fingevano di non essersi mai visti prima.
Poi una volta, d’un tratto, con la stessa sconcertante naturalezza con la quale si erano sfiorati, posero una fine ai loro appuntamenti.
Fu un accordo muto, definitivo, severo, irreversibile.
… Strani personaggi! Dio Santo!
Nacqui con due mesi d’anticipo, capitò alla fine dell’estate. Mia madre aveva i piedi costretti in calzature maschili tanto erano gonfi, la faccia coperta di macchie, le labbra spaccate dagli herpes.
Era entrata in cucina per bagnarsi un po’ i polsi sotto l’acqua corrente. Sul fuoco ribolliva una minestra di ceci e grano saraceno. L’orologio a muro ticchettava come l’acqua che scivola in un catino di metallo.
D’improvviso un dolore lancinante, con ferrigna saetta, la colpì alle ovaie. La testa ruotò fino ad annebbiarle la vista, allora lei gridò di disperazione e paura. Trovò appiglio nell’appiccicosa incerata del tavolo ma se la trascinò addosso cadendo a terra svenuta, senza neppure accorgersi che tra le gambe le scivolava un liquido verde prezzemolo.
La trovò così la vicina, una vecchia di sicuro coraggio.
Le gettò in viso un bicchiere d’aceto e le intimò di spingere per amor di Dio.
L’incerata risultò utile perché, posta sotto le gambe di mia madre, raccolse acqua e sangue. Su di essa, infine, scivolai anch’io: viola e minuscolo, certo, ma ancora vivo e sano.
Mia madre rantolava sfibrata dalla stanchezza.
La lasciarono lì, sul pavimento rosso della cucina; coperta solo da una tovaglia bianca di cotone. E mi deposero accanto a lei in una culla di faggio, imbalsamato da fasce bianche.
Mia nonna non sapeva nulla, se n’era andata a recitare il Rosario, seduta con altre donne intorno ad un ceppo acceso per San Michele. Era un 29 settembre.
Quando la raggiunsero si alzò con uno scatto lanciando in aria la sua corona.
Arrivò ansimando con gli occhi rossi e umidi; spalancata la porta s’inginocchiò a terra a ringraziare Sant’Anna, a baciare sua figlia, a spiare il mio sonno innocente.
Mia madre si riprese tre settimane più tardi, solo allora decise che mi sarei chiamato Augusto Michele Annino.
Perché Augusto, proprio non lo so!… Dio Santo!
Mia nonna mi girava attorno con un vigore ed una forza che pure erano attraversati da una straordinaria dolcezza.
Senza di lei saremmo diventati, mia madre ed io, un secco gheriglio di noce. Al contrario, grazie a mia nonna che svolse le funzioni di una dinamo, mia madre ebbe tutto l’ingegno per farmi crescere; soprattutto non le mancò lo spirito per convincermi che v’è gusto in ogni cosa.
Lei se ne stava spesso seduta su una cassapanca di noce scuro – molto liscio al tatto – che custodiva lenzuola di lino bianco, asciugamani dalle lunghe frange, camicie da notte e sacchetti di lavanda. Lì rimaneva per delle ore in silenzio, come una statua di sale marino; poi lentamente si alzava, con un leggero scrocchio nella schiena, e riprendeva quei suoi movimenti alquanto impacciati. Allora andava a frugare con ansia fra i recipienti di terracotta, dove le piccole mani tozze accoglievano un lievito di birra che misteriosamente si generava e rigenerava fra le mura della nostra casa. Su di una tavolozza di pino nasceva piano, con movimenti energici e sapienti, il pane, tagliato nel mezzo dal segno di una croce. Il sudore le brillava sulla fronte stretta e intanto cantava, lontana con il cuore, sorridendo ai miei occhi.
Non usò mai troppe parole, con l’intento preciso di risparmiarle alla furia del superfluo e di questo gliene sono grato. Dalla sua composta solitudine ho imparato a trovare grazia in ogni dove.
E c’è grazia anche nei ciuffi di polvere.
Talvolta con mia madre andavo a comprar frutta: camminavamo l’uno accanto all’altra; eravamo muti, ma portavamo lo stesso passo. Ogni tanto, con un impercettibile cenno del capo, lei rispondeva a un saluto. Arrivati in frutteria, per prima cosa, quand’era stagione, carezzava le nespole e solo dopo aver compiuto quel gesto quasi scaramantico e pieno di voluttà, chiedeva di tutto un chilo. Pagava estraendo disinvoltamente dal reggiseno dei rotolini di lire che in un guizzo venivano poi riposti tra i suoi seni.
Al ritorno l’aiutavo: trasportavamo ciascuno quattro sacchi pieni di profumi multicolori.
Mia nonna, nel vederci entrare, scuoteva un po’ la testa, tuttavia ci amava entrambi infinitamente. Vivemmo della sua pensione e del suo straripante affetto, Dio Santo!
Trascorrevo molto tempo con mia nonna, soprattutto nel periodo di Pasqua, perché allora preparava due torte, una dolce e l’altra salata, che rapivano tutta la mia attenzione.
Alla ‘pigna’ lavorava per due giorni di seguito, con calma e dedizione, infilando le mani in un impasto spugnoso. Avvolgendolo in un grande telo bianco lo adagiava in un tegame per spiare, a più riprese, la lievitazione che durava una notte e un giorno.
Quando riprendeva la pasta l’abbracciava con la stessa cura con cui si protegge un neonato. Con una glassa fatta d’acqua, albume e zucchero, ricamava nuvole bianche su quella grossa cupola lasciandovi cadere scaglie leggere di cioccolato e piccole biglie d’argento. Il profumo della ‘pigna’ appena uscita dal forno mi tramortiva. Il taglio di un affilato coltello incideva la prima fetta, larga e lunga, che era riservata a me.
continua…
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